Risultati da 1 a 4 di 4
  1. #1
    La Borga L'avatar di Tony
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    Predefinito Re: Contest di Halloween (gara di racconti)

    NIGHTLIGHT: Ecco il topic nel quale postare solo ed esclusivamente i racconti in gara.
    Commenti e voti andranno invece scritti nel thread che aprirò l'otto novembre.
    In bocca al lupo e che vinca il migliore


    [nota: testo rimosso per volere dell'autore - NL]
    Ultima modifica di Nightlight; 08-03-07 alle 19:56:45

  2. #2
    ScizLor
    ospite

    Predefinito Re: Contest di Halloween (gara di racconti)

    Baciami, Chiara. Vieni qui, stringimi forte. L’effetto dell’alcool si fa sentire, ormai non distinguo più tra sogni e allucinazioni. Spero che questa su cui sono seduto sia la poltrona e che quello che mi brilla davanti sia il caminetto, e non viceversa. Così non va, mi dico, avevo promesso di non farlo più, ma la solitudine gioca brutti scherzi, e la bottiglia di Verdicchio che stringo con forza eccessiva continua ad ammiccarmi. I miei genitori sono andati a trovare la nonna, che ultimamente perde colpi a una velocità disarmante, e i miei amici sono in montagna, alla festa di quel bastardo di Enrico. Quanto lo odio! Eccolo lì, nello specchio, che mi fissa con la solita aria saccente! Neanche tirandogli la bottiglia addosso riesco a sconfiggerlo, il suo odioso volto permane in tutti i frammenti di vetro e nella pozzanghera di vino.
    Di colpo mi accorgo che sto piangendo. E’ Halloween, anni fa correvo per le strade travestito da vampiro, e guarda invece adesso in che stato sono ridotto. Nessuno sa di questa mia abitudine di trovare conforto nel bere, la tengo ben nascosta, perché rovinerei la mia immagine di bravo ragazzo, che ora comincia a pesarmi. 18 anni e sentirsi al capolinea, questo sì che è un incubo.
    Tra le risate e i botti che sento, spicca un suono reale, il campanello. No, no, oh no, non adesso, *****. I frantumi dello specchio e il puzzo di alcool sono una prova tangibile della mia follia autodistruttiva, è gusto che li tenga per me, solo per me. Il mio tesssoro. Ridacchio con voce roca, mi alzo e miro alla porta lungo il corridoio che gira vorticosamente. Penso alla recente ondata di rapine in casa e mi armo di ombrello. Dopo cinque minuti, spesi a cercare la serratura, apro.
    C’è un tizio. Devo accontentarmi di “un tizio”, perché è buio, lui è vestito di nero e io sono ubriaco. Sembra completamente immobile, una qualunque persona farebbe un passo indietro dinnanzi a un brutto ceffo dallo sguardo vitreo e con un ombrello rosa in braccio, ma costui no. Passa qualche secondo, un minuto, tre minuti, la prendo per una gara di resistenza. Poi parla:

    “Ciao.”

    Questo sì che mi fa prendere un colpo. Il cappuccio gli copre del tutto il volto, non riesco nemmeno a immaginare chi potrebbe essere, è basso e alto, mi sembra grassamente magro; l’unica cosa che afferro è che questa voce l’ho già sentita. La memoria però è un lusso troppo caro, e mi limito a un:

    “Ehilà.”

    E’ il vento a farmi rabbrividire, lo giuro sul Dio a cui non credo. Tremo, mi siedo sugli scalini e apro l’ombrello, poi lo tiro via. Rutto. Mi asciugo le lacrime.

    “Chi sei? Cosa vuoi? Dei dolcetti?”
    “No. Voglio aiutarti.”
    “Si? Il cappuccio.”
    “No, non lo tolgo, non posso ora.”
    “COSA VUOI?”
    “Sono qui perché hai bisogno di me. Tu ti sei perso, e io ti ho trovato. Sono la forza di cui hai bisogno, il conforto che desideri, la presenza che ti rincuora.”
    “E’ un po’ tardi per testimoniare Geova.”
    “Niente religione, Lorenzo.”
    “Sai chi sono?”
    Rido e vomito, non saprei in che ordine.
    “Sì.”
    “Ah. Chi sono?”
    “Sei Lorenzo. Anche se adesso dovrei chiamarti Verdicchio.”
    “Avevo proprio bisogno di fare sue risate. Fottiti, Enrico.”
    “Non sono neanche Enrico. Anzi, posso aiutarti a vendicarti di lui e a riprenderti Chiara.”

    Ora lo ascolto veramente. Come fa a sapere tutte queste cose? Perché fa così freddo? Quella lassù è una stella o un aereo? Mentre rifletto sulla luce, “un tizio” si avvicina.
    NO! Ho paura! Provo ad alzarmi per tirargli un calcio alla Kenshiro, ma trionfo invece nel cadere di schiena, impotente. Cristo, era proprio un ladro, se almeno avessi l’ombrello…
    Si china su di me e mi bacia sulle labbra.
    Sento un contatto gelido e un odore di nulla.
    Il mio ultimo pensiero è rivolto ai giornali di domani: “Nera notte di Halloween per un giovane stuprato in casa sua”…

    Tutto fluttua. Sogno di riordinare la casa, che è buia e ondeggiante. Poi un flash.

    “Lorenzo!”

    Con riflessi che prima non avevo, salto fuori dal mio letto e realizzo che è mia madre. Mille e mille preoccupazioni mi assalgono. Eh? Chi? Il tizio? Il salotto! Il vomito! Il mio alito! Sono fregato.
    Riluttante e confuso, incontro i miei davanti al caminetto. Realizzo con faccia ebete che del disastro non c’è traccia.

    “Ma… che ci fai vestito così?”

    Mi guardo il petto. Indosso una tunica nera, con tanto di cappuccio sulle spalle.

    “So… sorpresa di Halloween! Ahahah!”

    Esco a fare quattro passi. Mi sento strano, energico, determinato. Sento di avere una forza di volontà. Posso recuperare i debiti scolastici! Chiara è una zoccola ed Enrico appena lo vedo lo pesto! Salto di gioia, in preda all’entusiasmo. Provo una sensazione di bontà, di generosità verso il prossimo, conscio della mia potenza.

    Così, quando più in là, dietro la finestra di una casa, vedo un ragazzo da solo con in mano una bottiglia, so cosa devo fare…

  3. #3
    Lo Zio L'avatar di Nightlight
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    Lightbulb Contest di Halloween - i racconti

    Riporto di una serata di terrore


    Il risveglio non fu dei più felici. Attorno a me solo vuoto e silenzio, nella mente i ricordi dei compagni di mille battaglie ormai caduti. Difficile non sentirsi sopraffatti dall'avanzare del tempo, arduo come non mai mascherare la propria fragilità. Eppure ho resistito con tutte le mie forze, ho lottato per non tradire le speranze di colui che mi aveva visto nascere. Marco per me era più di un padre. Marco era un amico, un mentore, un amante. Non posso negarlo, siamo finiti a letto insieme per oltre due anni. Spesso non eravamo soli, a noi si univa una donna insipida che lui insistentemente continuava ad etichettare con il termine "moglie". Nell'intimità la signora si sollazzava accarezzandomi languidamente, incurante dei segni d'insofferenza del marito. Lui non voleva che mi toccasse, ero soltanto suo. Tutto ciò alimentava prepotentemente il mio ego, e come un'ambigua geisha al cospetto di un padrone dall'alto tasso di testosterone, io mi piegavo dolcemente ai suoi desideri. Nulla faceva presagire quanto sarebbe avvenuto da lì a poco.
    Erano le otto del mattino e fuori soffiava il vento gelido di fine ottobre. Marco si svegliò di soprassalto a causa del rumore delle imposte che sbattevano l'una contro l'altra. Posati i piedi sul nudo pavimento, si avvicinò lentamente alla specchiera ed io lo seguì come sempre. Il volto riflesso era quello di un uomo stanco, reduce da una notte costellata da incubi ed oniriche illusioni. Le occhiaie, bluastre ed evidenti, erano degna cornice per gli occhi gonfi che, tuttavia, brillavano di una luce nuova. Impossibile decifrare completamente il segreto di quello sguardo, pazzia, malvagità, forse senso di rivalsa si mischiavano in un cocktail dal sapore amaro. L'unica certezza fu quella frase pronunciate seccamente: "ora basta". L'uomo s'incamminò verso il bagno con passo spedito, il cuore iniziò a pulsare sempre più velocemente, quasi freneticamente, il respiro si fece affannoso. Arrivato nel locale, aprì il cassetto di un mobile, ed esercitò talmente tanta forza che lo scardinò. Frugava Marco, frugava alla ricerca spasmodica di un oggetto, le sue braccia erano tese e le vene ormai evidenti sottopelle. Il volto paonazzo si contrasse in una smorfia di disgusto, una rabbiosa bestemmia echeggiò nell'aria. Non l'avevo mai visto in queste condizioni prima d'ora, era irriconoscibile, più fiera crudele che persona. Avevo paura, neanche un alito di vento avrebbe potuto smuovermi. In un impeto d'ira gettò il cassetto a terra e si sposto verso la cucina. La moglie, risvegliata dal frastuono infernale, raggiunse il marito. Credo volesse calmarlo, chiedere spiegazioni, ma le mie sono solo supposizioni. Purtroppo la donna non ebbe tempo di proferire parola, il coniuge si scagliò su di lei stagliandole un sonoro ceffone. Federica perse l'equilibrio e cadde sbattendo la testa. Non ho avuto modo di sincerarmi se fosse solo tramortita o ormai cadevere. Quello che so è che Marco s'inginocchiò ai suoi piedi e fissò il braccio sinistro di lei con attenzione. Nella caduta la mano restò stranamente alzata con il dito indice sollevato ad indicare la cesta da cucito dimenticata in salotto. Un inquientante sorriso solcò il volto dell'uomo, ora sapeva dove cercare. Corse verso la scatola color paglia e afferrò il tanto agognato oggetto del desiderio. Con passo deciso si diresse nuovamente davanti alla specchiera e respirò profondamente. Osservò la mia immagine riflessa ed io, allo stesso tempo, guardai lui. I nostri sguardi s'incrociarono per un istante e le nostre anime si scinsero. Tutto era chiaro. Il silenzio fu interrotto dalle lame lucenti che sferzavano l'aria, sempre più veloci, sempre più vicine, senza compassione alcuna. Sentivo ormai prossimo il passaggio della forbice brandita da Marco, avrei voluto gridare, implorare pietà, scappare ma non avevo voce e radici profonde mi impedivano di compiere anche un solo movimento. La mano destra dell'uomo mi afferrò stringendo con forza e la sinistra affondò le lame in acciaio nel mio esile corpo. Ormai morente mi piegai in due e in pochi secondi precipitai a terra, conscio che sarebbe stato il mio ultimo viaggio. Il mio carnefice, nel frattempo, esclamava soddisfatto: “ora hai finito di ricordarmi che tutti gli altri mi hanno abbandonato! E prima che te ne andassi anche tu ho preferito eliminarti”. Poi risuonò un'inquietante risata e tutto fu avvolto dall'oscurità.
    Come ho già detto, il risveglio fu piuttosto traumatico. Certi incubi sembrano reali e quello appena vissuto mi aveva quasi tolto il respiro. Guardo la sveglia con datario sul comodino, il display indica il 1 novembre. Maledetto Halloween! Pensai con tutte le mie forze. La sera prima Marco aveva voluto onorare la festa delle streghe gustandosi uno di quei filmetti horror pieno zeppo di sangue, morti e pazzoidi. Io naturalmente non potevo evitare di partecipare all'anteprima di cotanto capolavoro ed ecco il risultato. Forse sono troppo sensibile, decreto sospirando e spostando lo sguardo alla destra della sveglia. Un sorriso finalmente cancella i brutti pensieri rasserenandomi all'istante. "Che sciocco, avrei dovuto capirlo subito che era soltanto un incubo.. Marco non è solo. E nemmeno io lo sono. Fratelli miei, non di sangue ma pur sempre fratelli, come ho fatto a dimenticarvi?" Le care figure stanno strette strette l'una accanto al'altra, proprio come in un ritratto di famiglia degli anni '20. "Peccato solo che d'ora in avanti dovrò rinunciare al sano e robusto “petting” quotidiano.. del resto non potrebbe essere altrimenti, sarò sommerso da tutto quel pelo!". Una smorfia di rammarico si disegna sul mio volto e, dopo un'ultima fugace occhiata al parrucchino castano, mi riaddormento profondamente sul cuscino.
    E' difficile essere l'ultimo capello rimasto sulla testa di un uomo ormai calvo...
    .. ed è difficile soprattutto ad Halloween.
    Ultima modifica di Nightlight; 01-11-06 alle 19:54:29

  4. #4
    Moderatore nel silenzio L'avatar di Mikk
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    Predefinito Re: Contest di Halloween - i racconti

    Onde evitare incursioni di un Talenz in bikini già minacciate per altri ( ), posto il mio racconto, a voi:

    Notte

    “Amore mio aaaaaaaaah” un urlo di donna, acuto a tal punto da sembrare la sirena di un’ambulanza.
    Un’indefinita figura scura nello scuro, piegata e singhiozzante, curva nello stringere una mano ormai carne e niente più.
    Due freddi occhi dietro una visiera di plastica che scrutano la scena, una specie di alieno in camice azzurro appoggiato al muro con le mani dietro la schiena.
    Il cadavere sta sopra un letto di metallo, freddo su freddo, e a nulla vale la stretta su un polso rigato dal sangue.
    La visiera di plastica si appanna, la chiusura ermetica della mascherina del patologo tradisce uno sbuffo.
    Artigliata ancora al suo dolore la madre sembra non essere capace di staccarsi dalla fonte del suo pianto, l’unico movimento che le è concesso è quello di un singhiozzo ininterrotto.
    Il guanto di lattice del dottore tamburella il metallo del lavandino. Guarda con gioia una figura umana avvicinarsi a quella, ormai non più tale, che giace inerme. E riesce a staccare la madre dal corpo della figlia. Nella sala rimane un solo essere vivo.

    Il patologo si avvicina con impazienza alla sua preda.
    Scruta gli occhi aperti a interrogare il suo sguardo. La bocca aperta, la lingua riversa nella gola. Una bavetta scende da un angolo e si confonde col sangue che è uscito dalle orecchie producendo una schiuma rossastra. Il vestito maciullato all’altezza del fegato è compeltamente intriso di sangue, carne e tessuto quasi si mescolano.
    Le gambe sono piene di ematomi, un piede staccato rimane ancorato al corpo che una volta lo possedeva solo per un tendine, rimasto nudo all’aria, un po’ di carne insanguinata prova a rivestirlo, ma il suo bianco quasi magicamente ripulito dal sangue risplende nella fioca luce della sala, quasi a voler mostrare tutti i centimetri in cui è teso nello sforzo di trattenere il moncherino di caviglia.

    E’ la notte di Halloween, la notte in cui la finta trasgressione vuol farsi manifesta e bearsi di se stessa, una delle poche notti abitate dal popolo del prima di mezzanotte. Quei quattro stracci spolpati, intrisi di sangue, vuoti dove il vuoto di un muscolo strappato mette a nudo un osso erano forse quelli di un vestito da streghetta?
    Il movimento secco e meccanico del dottore mentre affila l’una contro l’altra due mannaie sembrava seccato da questo, come se volesse con disprezzo sottolineare che quella fine, la streghetta, se la fosse andata a cercare.
    Che quello scimmiottamento di inferno là fuori non aveva mai visto un vero coltello coperto davvero con vero sangue.
    Ma la mia che colpa è?

    Improvvisamente, con un movimento secco e senza alcun preavviso, una delle due mannaie percorse rapidamente il corpo della streghetta dall’ombelico al collo e si fermò sopra la faccia. Il vestito, tagliato in due per il lungo si aprì. Il patologo ci mise qualche minuto a staccare con le dita i vari brandelli da quella colla appiccicosa di sangue coagulato. Qualche brandello portava via con sé un souvenir di pelle.
    Avrei voluto contrarre le sopracciglia dal dolore per quei pizzichi. Ma non ci riuscivo. Sentivo dolore al piede, un dolore atroce. E anche alla pancia, come se fosse trafitta da parte a parte. Ma nulla esisteva oltre il dolore, nessun muscolo rispondeva alla mia volontà, è una notte nera e paralizzata. Come un peso da migliaia di chili sparso su tutto il corpo. E ancora mi chiedo quale sia la mia colpa.

    Il patologo prende un altro coltello più piccolo e si avvicina al corpo nudo. Non c’è modo di muoversi. Seguendo il percorso della mannaia riga tutto il corpo, in uno zig zag cruento, scavalcando vuoti di carne e spunzoni di costole. La voglia di gridare e impazzire dal dolore è alta, altissima e disumana, ma come se ci fosse un’enorme forza a serrarmi la bocca nulla si muove.
    Ma qual è la mia colpa? Non è un vestito da streghetta questo, stavo solo passeggiando e una macchina guidata da uno zombi fuori controllo è saltata sul marciapiede. Stringevo la mia anima, il mio quaderno e correvo da lui.

    Un ronzio interrompe tutto, come se fosse entrata una grossa mosca. Ma è il patologo che ha in mano un affarino luminoso che gira. Lo guarda compiaciuto e poi guarda me.
    Giurerei di aver visto un sorriso dietro alla piatta maschera che nasconde ogni umanità. Rimane solo una sagoma, testa spalle braccia e forse due gambe, ma il resto è plastica. E questa lama circolare che incide la fronte, e stacca un tondo d’osso dalla mia testa, non mi rende forse meno umana?
    Non si può dire che io assomigli a una ragazza.

    Il lattice tasta il molle grigiume inzaccherato di sangue. Lo spreme via, come fosse il succo di un’arancia. Sento le dita entrarmi nei pensieri.
    Volevo vederlo, fargli leggere quello che avevo scritto, farmi sentir dire da lui che gli piaceva, anche se forse non era vero. Ma almeno condividere una speranza, un’idea di essere riusciti a fare qualcosa di unico.
    Con violenza la spugna rossastra viene sradicata via dal suo cuscino e gettata nel piatto di una bilancia, con un gesto secco e da un metro di distanza. Rimbalzando sul metallo pulito si schiaccia e lascia sprizzare via qualche macchia di rosso scuro.
    Non so più dove sono e che cosa guardano i miei occhi, non so dove sono i miei occhi. So dove volevano stare oggi, so che cosa hanno fatto. Hanno seguito come segugi fedeli le mie dita maneggiare una piccola matita. Maneggiare la bacchetta magica di un sogno.

    Ora non sono più dove dovrebbero essere. Il naso è già sparito per lo scontro col parabrezza. I denti rimasti vengono strappati a forza. Le dita del patologo scivolano veloci sulla pelle, raggiungono la mano dalla quale svitano un minuscolo anello. Poi è il tempo della mannaia che squarcia le poche costole ancora al loro posto.
    Due mani frettolose rimestano pezzi di fegato staccati che galleggiano su una pozza di sangue. Alcuni finiti dentro lo stomaco. Si aggrovigliano e si incastrano tra gli intestini. Sollevano tutto il blocco interno e lo fanno ricadere dentro. Fa un rumore strano come l’acqua che cade su un mare d’olio.

    E’ mezzanotte. Il patologo richiude ciò che ha aperto. Posso sentire l’ago pungere e condurre il filo a scorrere in mezzo alla mia pelle. Ci sono ancora.
    Il dottore spruzza acqua in giro, per far andare via il liquido uscito dal mio corpo, un misto di sangue, succhi e anima. Ci sono ancora.
    Porta la sua mano alla nuca, avvicinando le dita alla plastica, sta per uscire allo scoperto. Si ferma. Sta guardando qualcosa, ma non posso vedere cosa. Non avverto più la sua presenza nel nero che mi sta attorno. Poi ritorna, ha in mano qualcosa, ha raccolto quello che aveva attirato la sua attenzione.
    No. Non quel quaderno. Vorrei alzarmi e morderlo al collo. Vorrei che quello al volante fosse stato uno zombie vero, almeno avrei ora una speranza. Sta sfogliando quello che ho scritto. Impossibile dire che cosa sta pensando, gli occhi dietro la visiera trasparente sono sbarrati. Poi si appanna. Chiude il quaderno e si dirige verso il sacco dove ha gettato i denti gli occhi e la parte superiore del cranio. Esasperatamente lento, strappa a uno ad uno i fogli che cadono nel sacco nero di plastica.
    Sacco nero in una notte ancora più nera, nera come il vestito di un maori.
    Non ci sono più.

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