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  1. #26
    Suprema Borga Imperiale L'avatar di StM
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    Predefinito Re: La Biblioteca di BackStage

    Link: http://www.fsfeurope.org/documents/frees oftware.it.html
    (Free Software Foundation - Europe)



    Cos'è il Software Libero?

    La filosofia del Software Libero trae le proprie origini dall'idea del libero scambio della conoscenza e del pensiero che può essere tradizionalmente trovata nel campo scientifico. Proprio come le idee, i programmi non sono tangibili e possono essere copiati senza costi. Scambiarseli è la base di un processo evoluzionistico che alimenta lo sviluppo del pensiero.

    Nei primi anni ottanta, Richard M. Stallman fu il primo a riuscire a formalizzare questa filosofia per il software nella forma di quattro libertà.

    Libertà 0:

    La libertà di eseguire il programma, per qualsiasi scopo.

    Libertà 1:

    La libertà di studiare come funziona il programma, e di adattarlo alle proprie esigenze.

    Libertà 2:

    La libertà di redistribuirne copie.

    Libertà 3:

    La libertà di migliorare il programma, e rilasciare le proprie migliorie al pubblico, così che l'intera comunità ne abbia beneficio.

    Il software che segue questi quattro principi è chiamato "Software Libero". Troverete informazioni dettagliate nella Definizione di Software Libero.

    Per supportare e realizzare ciò, Richard M. Stallman ha creato la "Free Software Foundation" nel 1984 e ha varato il Progetto GNU. La licenza del Progetto GNU, la GNU General Public License, non solo garantisce le quattro libertà descritte sopra, ma le protegge anche. Specialmente a causa di questa protezione la GPL è la licenza più usata per il Software Libero al giorno d'oggi.

    Oltre alla GPL ci sono molte altre licenze che garantiscono queste libertà e quindi si qualificano come licenze di Software Libero. Fra queste merita menzione specialmente la licenza FreeBSD. La più grande differenza con la GPL è che essa non cerca di proteggere la libertà.

    Quando si parla di Software Libero, la più comune incomprensione è che si crede che esso debba essere gratis. Non è così: in effetti una grossa parte dei protagonisti del Software Libero lavora nel campo del Software Libero commerciale.

    Nel 1998 fu scritta la "Open Source Definition", il cui autore principale è il cittadino Statunitense Bruce Perens. Il suo obiettivo era di descrivere le proprietà tecniche del Software Libero e di servire come documento fondamentale del movimento "Open Source".

    La "Open Source Definition" è essa stessa un derivato delle "Debian Free Software Guidelines", che a loro volta derivano dalle quattro libertà accennate sopra. Quindi tutte e tre le definizioni descrivono le stesse licenze; la "GNU General Public License" (GPL) è la licenza principale per tutte queste definizioni.

    L'obiettivo auto-dichiarato del movimento Open Source è di essere un programma di marketing per il Software Libero. Si persegue questo scopo togliendo deliberatamente qualsiasi riferimento ai retroscena filosofico e politico, che sono visti come pericolosi per la commercializzazione.

    Al contrario, il movimento del Software Libero ha sempre compreso che i retroscena filosofico e politico sono parti essenziali del movimento e una delle sue maggiori risorse.

    Georg C. F. Greve <[email protected]>

  2. #27
    La Nebbia L'avatar di Wido
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    Predefinito Re: La Biblioteca di BackStage

    Meglio rileggersi qualcosa che ci faccia sorridere...

    UBU BAS

    di Dario Fo


    Vi voglio parlare di un testo che sto rileggendo in questi giorni con grande interesse: un testo teatrale di satira grottesca, si tratta di un capolavoro del Surrealismo. Il suo titolo, molti di voi lo ricorderanno, è "Ubu Roi", Ubu re.
    Ubu è il personaggio protagonista di quest’opera. L’autore è Jarry. Vissuto a Parigi, dal 1873 al 1907; morto quindi a soli 34 anni, ma per raggiungere la fama a Jarry bastò questa sua farsa surreale.
    Quando Ubu Roi fu messo in scena alla fine dell’Ottocento, a Parigi, ebbe un successo strepitoso.

    La farsa racconta di un paese immaginario, fantastico; presumibilmente situato in Europa, ma potrebbe anche collocarsi in America Latina o in Asia. In questo paese vive il nostro Ubu, un uomo di gran talento, spregiudicato e alle volte rozzo che si batte con tutti i mezzi per conquistare un grande potere economico e politico. In poche parole, questa è la storia tragica e farsesca della sua irresistibile scalata. Carica di allegorie e smaccate, strizzate d’occhi ai più grotteschi fatti storici del tempo di Jarry. Ancora oggi questo testo viene recitato in tutto il mondo, sempre con gran successo da centinaia di compagnie che naturalmente tendono ad adattare le allusioni satiriche alla situazione del Paese in cui viene messo in scena. Dopo la fine della Prima Guerra Mondiale (’15-’1, il fenomeno Ubu-Roi riesplode in modo incredibile. Non c’è teatro moderno nel mondo che non l’abbia in repertorio. Ogni regista di talento ci mette nuovi giochi allegorici, allusivi alla realtà contingente. Finchè arriva Jean Jaques Cajou, teatrante geniale che rielabora una sua versione clownesca dal titolo "Ubu Bas", Ubu basso. Un testo pieno di situazioni spassosissime. Originali, molto vicine al nostro tempo. Opera che stranamente non ottiene il grande successo che meritava, forse perché in quegli anni si stava profilando l’esplosione della Seconda Guerra Mondiale. In tutta Europa si viveva un clima di tragica tensione e la gente non amava vedersi riflessa dentro lo specchio concavo della satira.

    Ora, qualche settimana fa, come dicevo, rileggendo il testo di Jarry, mi sono trovato appresso, come compendio, quest’altro lavoro si Cajou, dal titolo "Ubu bas". L’ho letto d’un fiato e ne sono rimasto fulminato, estasiato per la giocondità, il divertimento, la follia grottesca. Vediamola insieme questa super-farsa a partire dal protagonista Ubu bas: questo è un personaggio straordinario in quanto a vitalità, grinta; non è molto colto, anzi direi che è piuttosto rozzo in certi atteggiamenti, però possiede una verve nel dialogare fatta d’iperbole e luoghi comuni piuttosto avvincenti. Gesticola, si atteggia a uomo sicuro di sè e fa dichiarazioni smaccatamente fasulle con una sicumera sconvolgente. Tutto avviene in un ambiente da clown. Infatti lui, Ubu bas, è un po’ clown, però sempre abbigliato con una certa eleganza... un po’ caricata, sempre tirato. Purtroppo essendo "bas", soffre di un evidente complesso di statura. Così per ovviare alla "vis comique" del "tappo", cerca di rimediare adottando tacchi alti e sottosuole nascoste per elevarsi. Cura molto il portamento: camminata ritta, sorriso splendente, si esercita in ogni momento ad atteggiare bocca e ganasce a un’espressione di gioconda cordialità. Ogni tanto... ahimè, forza un po’ troppo i muscoli facciali e gli capita di ingripparsi le mascelle, bloccate in un ghigno orrendo ed è costretto a sferrarsi manate pesanti sulla faccia per liberarsi dall’ingrippata. Oltretutto, ogni tanto, per troppa sicurezza di sè, inciampa in gaffes tremende, da seppellire di vergogna anche un elefante, ma lui non se ne accorge: (mimando stupore) "E perché, che c’è?!".

    In fondo, come tutti i clown, è un candido sprovveduto, ma con una grande dote... quella del venditore, un bateleur, come dice in gergo Cajou, l’autore. Un piazzista di grande fascino attraverso il quale riesce a catturare attenzione e interesse della gente e riesce a vendere l’invendibile. A convincere il pubblico dello straordinario valore e qualità di tutto ciò che va offrendo, usa trucchi, gioca basso e giura, giura perfino sui figli! Sulla testa dei figli! "Che un fulmine di fuoco cada su questi miei innocenti se quel che dico non è la verità!", un fatto che impressiona...specie i figli... che hanno sempre la dissenteria. Siamo sempre nel clima surreale del circo.
    Ma andando avanti ecco che un giorno si imbatte in un evento che cambia completamente il corso della sua vita. Qui l’autore rimane sul poco chiaro... anzi, quasi reticente. Ubu si incontra con personaggi non ben delineati, a metà fra un boss e la figura del genio della favola di Aladino. Ecco che appare ... VROM! "Oh mio dio, chi è?".
    "Non chiedere nè chi sono nè da che minchia vegnu! Acchiappàsti dinari, falli fruttare ...e se nun ce riesci, tu si n’omm futtuto! (Fa il gesto di sgozzare) GNAC! Prendere o lasciare".

    Ubu con grande coraggio accetta. Ritira il gran malloppo e si butta nell’avventura. Impegna i denari in ogni affare anche rischioso. Si butta nell’edilizia: fabbrica case e poi palazzi. Mette in piedi addirittura una mezza città. Si compera aree immense. àsto punto non gli resta che fondare una banca e appresso, una impresa d’assicurazione, un’agenzia di pubblicità e poi tre radio... che allora non c’era ancora la televisione. Tre radio intere! Con tutto che c’era il monopolio di Stato...per la legge, solo lo Stato poteva gestire le radio. Ma Ubu ha un amico politico che per lui è come un fratello che gli sforna una legge speciale, tutta a suo vantaggio. Questo amico si chiama Ubu Crax. In questo paese tutti si chiamano Ubu, è come un prefisso. Anche lo Stato si chiama Ubu, perfino le città: Ubu-ta, Ubu-bo, Ubu-ca...
    Fatto sta che àsto punto Ubu bas si ritrova all’apice del successo: "Ma come hai fatto? Ma che forza! Sei un genio!".

    Soltanto che questa spregiudicatezza sostenuta da una fortuna sfacciata lo spinge ad azzardi sconsiderati al limite della legalità. Alla fine si fa incastrare dentro un’inchiesta per corruzione. Lo portano sotto processo perché i giudici hanno le prove che due alti dirigenti di sue imprese, di Ubu, hanno corrotto due "Gendarm juane" - si dice in francese - cioè due gendarmi gialli... guardie di finanza. Hanno versato un sacco di quattrini a questi due finanzieri e anche ad un generale perché chiudessero un occhio su una imponente evasione fiscale. Durante il dibattimento i giudici presentano a Ubu le prove dell’inghippo. I primi a cedere e a parlare sono le Gendarm jaune, generale in testa: "Sì, è vero, ci siamo fatti corrompere. Abbiamo accettato 100 milioni a testa per metterci una pietra sopra, così da salvarli dal pagare le tasse per l’ammontare, allora, pari a 150 miliardi".
    Attenti, siamo a prima della Seconda Guerra Mondiale. Pensate che cifra, proprio da capogiro!

    Per finire, i due ufficiali e il generale vengono condannati a delle pene pesanti e anche i due alti dirigenti di Ubu vengono condannati. Lui no! è una storia paradossale... aha, aha... l’avete già capito... completamente assurda.
    E come mai? perché lui, Ubu, riesce a convincere i giudici che non ne sapeva niente.
    "Ma come è possibile, i suoi manager gestiscono i suoi soldi, i suoi 300 milioni per corrompere a suo vantaggio e non glielo dicono?!"
    "No! Non me lo hanno detto, ’sti furfanti!"
    "Ma almeno tutti i soldi che questi suoi dirigenti hanno risparmiato dalle tasse, i miliardi, se li è trovati lì in cassa, belli impacchettati..."
    "Sì, infatti mi sono meravigliato e ho esclamato sorpreso Ma da dove vengono tutti questi quattrini?’ e loròè un dono della fata Morgana!’ Io amo le favole e ci ho creduto!".

    E ci ha creduto anche il giudice! Aha, aha! E anche la gente! (Rivolto al pubblico) E scommetto che anche voi un po’ ci credete!
    Fatto sta che questa sentenza ha procurato al nostro Ubu bas una grande carica di fiducia in se stesso, tanto da lanciarsi in operazioni sempre più azzardate: imprese acquistate e vendute, sempre al limite della legalità e quindi sempre più s’è ritrovato tampinato da inchieste di Polizia, Guardia di Finanza e giudici... tanto da sentirsi braccato, incastrato e allora, àsto punto ha deciso: "Qui se non risolvo con una trovata geniale, sono fottuto!" All’istante ha una folgorazione: "Mi butto in politica!"
    Una trovata geniale, ma sconvolgente... tanto che il Presidente di questo Stato, uomo giusto e democratico ha sussultato: "Ma come!, questo Ubu bas, con tutto il potere economico di cui è in possesso, entra in politica?! è contro le regole civili... oltretutto fonda un partito: un partito che si definisce social- democratico-liberal-conservatore-cattoli co-estremista... e anche un po’ razzista... bel partito! Scende in campo - diceva il presidente - con ’sto partito, forte di mezzi, potere economico , tre radio per la propaganda... " C’era già allora il conflitto di interessi , non se ne parlava molto, specie davanti ai bambini, ma c’era! Era una terribile anomalia, tanto che il Presidente della repubblica non ha potuto trattenersi e alla fine ha esclamato: "Oeu! Oeu!"... omo di poche parole, ma incisive!

    C’era molta gente che faceva commenti altrettanto indignati, ma Ubu va diritto per la sua strada e organizza quel suo partito spostando quei suoi impiegati ai posti di comando: un "Partito-azienda", come ama chiamarlo lui. Ha messo in azione le sue tre radio con una propaganda tappeto e ha fatto impiastrare tutte le città con foto giganti della sua faccia...la sua faccia era dappertutto... come ti voltavi, Ubu di qua, Ubu di là. Te lo trovavi suoi tram, alla stazione, perfino nel cesso, molto ringiovanito, che ti guardava mentre facevi pipì. Insomma era in piedi una campagna elettorale in grande stile. I dirigenti della sinistra osservavano indignati: "Ma che ostentazione triviale quei manifesti pacchiani dappertutto! Che mancanza di stile..." e dopo un attimo si fanno fare fotografie giganti anche loro. Ma i posti per l’affissione ormai sono già tutti occupati da Ubu. Per farla breve, arriva il giorno del confronto elettorale... e Ubu vince! Vince le elezioni.

    (Dopo una breve pausa, si rivolge al pubblico) Siete rimasti sorpresi?
    Anche il Presidente della Repubblica dello stato di Ubu è rimasto sorpreso, tanto che fa: "Oeu, oeu, oeu!!!" Tre volte e in tonalità molto alta. Molta gente contesta indignata: "Non si può assolutamente accettare una situazione del genere, siamo l’unico paese d’Europa ad approvare una simile illegalità.
    è una vergogna!".
    Ma invece un’altra gran quantità di cittadini diceva (quasi gridando): "Lasciatelo fare...", gente anche di sinistra moderata... c’era la sinistra moderata già allora. "Lasciatelo fare, se è riuscito così bene a farsi gli affari suoi, farà anche i nostri!"
    Aha!, Aha! Così dice il testo di Cajou! Aha!, Aha!, che assurdo! Proprio cose dell’altro mondo!

    Aha!, Aha!, A noi in Italia non sarebbe mai scappata una frase del genere perché noi siamo un popolo di scafati, abbiamo un’altra cultura... abbiamo già avuto personaggi che hanno fatto gli affari propri, promettendo di fare i nostri. Le fregature le abbiamo già prese! Aha!, Aha!, e uno se le ricorda! Noi sappiamo che se "uno è bravo a farsi gli affari propri", continuerà a farseli... o no?!
    (Rivolto al pubblico) Da questa posizione, in proscenio, vi dirò che godo del privilegio di vedere chiaramente molta parte del pubblico seduto in platea... così un attimo fa, mentre recitavo "se uno è bravo a farsi gli affari propri, continuerà a farseli", una signora in terza fila ha sollevato le braccia per applaudire... poi si è bloccata con le mani tese nell’aria...il marito vicino a lei si è ritrovato nella stessa souspence e ha esclamato: "Oh, cavolo! Abbiamo sbagliato tutto!"
    D’altra parte noi abbiamo un proverbio, un’espressione napoletana, ma che è diventata nazionale che dice: "Accà nisciuno è fesso!"Aha!, Aha!, è nazionale! Aha!, Aha!, come siamo strani. Va bè!

    Ma torniamo a Ubu bas, il nostro campione che ha vinto le elezioni e prende il potere. Viene eletto Presidente del Consiglio, è il suo posto... HOP! (mima il salto agile con il quale Ubu salta sulla poltrona più alta) "Son qua!" e si tira appresso nel Governo tutti i manager delle sue imprese...il Governo-azienda! E nel Governo piazza anche quattro avvocati del suo staff di difesa. Tutto casa, Camere e Senato! Tra questi avvocati ce ne sono due che hanno problemi con la giustizia... rischiano la galera. E lui li fa eleggere Senatori, che è assurdo! Dov’è quel Paese dove uno che ha problemi con la giustizia dice: "Mi faccio eleggere senatore così non mi toccano più!" Aha!, Aha!, (preso da fout rire) che assurdo! Una legge che dice: un senatore può essere messo sotto processo, ma non arrestato... "Alle udienze ci vado solo se mi garba... a farmi interrogare non ci vengo, come imputato neanche... ho altro da fare!" Aha!, Aha!, è la commedia di Cajou che lo racconta! è qui tutto scritto (mostra un mazzetto di fogli) non sto inventando niente.

    Caligola in fondo è stato più accorto: ha fatto eleggere un cavallo senatore... ma poi quel cavallo non ha mai minacciato gli avversari politici gridando: "Come vinciamo, non faremo prigionieri!" nè ha mai ricusato i giudici che lo processavano.
    Questo non è nel testo...ma nel testo c’è àsto punto un "coup de teatre", come dicono i francesi...e la trovata è che Ubu decide di imporre nuove leggi tutte a proprio vantaggio.
    (Al pubblico) Lo sapevate di già, vero?!
    La prima legge che modifica completamente è la Rogatoria. "Rogatoire", come dice Jean Jaques Cajou... essendo francese. Ma cos’è ’sta rogatoria? Facciamo conto, immaginiamo che questo Ubu abbia truffato brutalmente la giustizia e abbia addirittura dato ordine al proprio avvocato... facciamo gli esagerati... due avvocati, l’ordine di buttarsi a corrompere niente meno che due giudici... aha, aha!... offre loro una gran mappata di quattrini per convincerli a favorire Ubu nell’asta per l’acquisto di un’impresa importantissima...a un prezzo di grande vantaggio... insomma un affare di centinaia di miliardi. Ma ecco entrare in scena un altro gruppo di giudici che scopre la corruzione. E dove la scoprono? Facciamo una sparata di fantasia! La scoprono niente meno che in Svizzera. perché c’è una banca svizzera...aha, aha...pensate che idea!, una banca nella quale si trovano i documenti della cessione di denari per l’ammontare di miliardi dal conto degli avvocati di Ubu al conto dei giudici da corrompere. Pensate che incastrata! Oltretutto si scopre anche che i quattrini ai giudici sono stati versati da Ubu in persona!

    Ma niente paura, dal momento che il nostro campione è diventato il Presidente del Consiglio, impone questa legge che cancella il diritto di rogatorie, cioè il diritto di ogni tribunale europeo di richiedere copia dei documenti che certifichino un reato, con il particolare però che le fotocopie in seguito alla nuova legge non hanno più valore. Lo hanno in tutti gli altri paesi d’Europa, ma per il nostro... oh pardon, per quello di Ubu, no. Per il suo è valido solo il documento originale. Ma siccome, per legge, la Svizzera, anche oggi, non può cedere mai l’originale, ecco che il nostro tribunale, cioè, pardon! Oh dio che gaffe!... il tribunale dello Stato di Ubu è costretto a invalidare la documentazione di reato. La corruzione non è più sostenibile... cancellate le prove... il processo salta! "Liberi tutti!"... è il paese del bengodi! Aha, aha!... scusate m’è venuta una lacrima... ah... non riesco più a ridere.
    Sappiate che Cajou, l’autore, chiama questa legge "scherzo da Previti"!
    Ma andiamo avanti... Ubu e i suoi ministri sfornano un’altra legge: quella sul falso in bilancio. Voi dovete sapere che da imprenditore il nostro piccolo arraffa-tutto ha già subito più di un processo per falso in bilancio... ed è stato pure condannato. Ed ha ancora processi in corso per lo stesso reato. Ora che è a capo del Governo Ubu grida: "Basta!" e decreta che per legge il reato di falso in bilancio non esista più: via! Buttato all’aria! perché? perché è ora di lasciare libera la fantasia dei cittadini: ognuno deve poter dar sfogo alla propria creatività... quindi raccontare, in merito ai propri redditi, quel che gli pare... entrate, uscite, guadagni... inventarseli insomma. Fantasia e invenzione... basta con la grigia realtà! L’immaginazione al potere... libera... liberi tutti! Ognuno può raccontare le frottole che gli pare riguardo ai propri interessi. Anzi, elargisce un premio speciale a quelli che le raccontano più grosse. E devo dire che li vince tutti Ubu!

    (Rivolto al pubblico, fingendo di puntare qua e là fra gli spettatori) io continuo a vedere in platea della gente perplessa... ho notato una signora che stava per applaudire e ancora una volta il marito che la blocca, sibilandole a mezza voce: "Buona, sta parlando di noi!". No, si parla di tutti... (si riprende come impacciato) scusate ma mi è venuto in mente... perdonate se faccio un salto mortale dal racconto paradossale di Ubu a quello egualmente grottesco dei nostri giorni... ma proprio in queste settimane si sta concretizzando il passaggio di consegne e poteri della nostra televisione di Stato. E in primo piano si concretizza a tormentone la faccia spiritata di Gasparri che dirige il trapasso come un vigile all’ora di punta (esegue un grammelot con poche parole comprensibili): "Haolopi citta la vinca storpia e quelo se crede, si parlo proprio di calarbuti va Santoro (fa il gesto con la mano di "vattene") ascarì bela e qua cosiccome la spirt ti alè, si propri a te... alè, alè Biagi (ripete il gesto di "vattene") fuori televischio, egual sgomebo anche rapido (fa il gesto di sollevare delle valige e di mettersi in moto) anda, a razzo Luttazzi... e appearto stario finì, alè, alè servazzi quasi vento anche Idro Montanelli... fora a zanchio (si arresta perplesso) come? è morto? (Breve pausa) Bene fuori anche la sua tomba! Adelà cogniatia si, struzza ... sì Porta a Porta, sì!"
    (Rivolto al pubblico) Sì, avete ragione si capisce poco di quello che dice... è per via che parla troppo veloce? Anch’io credevo fosse questa la ragione del suoi impapocchiamento. In questi giorni ho parlato con un amico professore in glottologia che m’ha spiegato che questo sproloquiare incasinato di Gasparri non è dovuto tanto alla rapidità con cui parla ma piuttosto al fatto che il suo cervello non riesce a seguire le proprie parole che gli escono con troppa rapidità. Qui mi devo arrestare un attimo per svelarvi un segreto... non posso più continuare con questa trasposizione allegorica (inizia a mimare l’azione di impastare la terra creta per poi plasmare un pupazzo di bassa statura)... forse l’avrete già intuito: Ubu è lui.

    (Indica l’immaginario pupazzo e lo muove come a presentarlo al pubblico. Lo accarezza con ambo le mani come volesse forgiargli la testa, lo solleva di qualche centimetro) Scusate, ma devo infilargli i sopralzi nelle scarpe... ci tiene molto. A proposito di sopralzi... gli è successo un dramma poco fa che forse vi è sfuggito. Vi ricorderete senz’altro quando s’è ritrovato in Germania e ai giornalisti di mezzo mondo ha espresso il suo parere sul mondo islamico ed è sbottato ad esternare il pensiero suggeritogli dal suo consigliere spirituale Ubu-bozzo-badget: "Gli arabi sono antidemocratici, non hanno cultura... anzi possiedono una sottocultura di tipo ancestrale che al confronto di quella di noi occidentali è roba da basso Medioevo!" Bumpete! C’erano presente Ministri e rappresentanti altolocati dei vari Stati europei che son saltati letteralmente sulla sedia... facevano cenni disperati al nostro Presidente del Consiglio (mima il gesticolare disperato), ma lui se ne va avanti imperterrito a sbrodolare disprezzo contro i Mussulmani "beduini incivili".

    "Ma cosa va dicendo? - tenta di frenarlo qualcuno - Arabi culturalmente inferiori? Nessuno gli ha mai detto che sono stati i creatori della scienza matematica, trigonometria, geometria... hanno calcolato per primi la circonferenza della terra, la distanza dalla luna e dal sole, il movimento degli astri? Ci hanno regalato concetti di alta filosofia, grandi poemi come "Le mille e una notte"...e lei Presidente va sp*****arli con disprezzo..." e un pezzo grosso americano incalza: "Ma dove ha la testa... proprio nel momento in cui Bush e il suo staff si stanno sbattendo come forsennati per convincere tutti i Paesi Mussulmani a far fronte unico contro il terrorismo, lei arriva qua come un bisonte nano a sbatterci tutto all’arià! Non se ne è accorto, ma qui c’erano una decina di rappresentanti dell’Islam e se ne sono andati bestemmiando come turchi!"
    Ed ecco che il nostro Ubu italiota ha dovuto rimangiarsi tutto... una figura! Vi ricordate quelle sue rimangiate, con l’ingoio a singhiozzo? Poveraccio, sempre col mal di stomaco... per giorni e giorni. è costretto ad incontrare una commissione di Mussulmani e mediare arrampicandosi sui muri: "Credetemi, io non ho mai pronunciato quelle parole contro l’Islam!".

    "Come non le ha pronunciate... abbiamo visto e ascoltato tutti in televisione quella sua sparata d’insulti..."
    "Ma non erano espressioni mie... sono stati i comunisti che mi hanno doppiato!"
    Qualche giorno fa poi è andato a compiere l’atto straordinario di riappacificazione: si è recato a far visita alla moschea massima di Roma... alla cattedrale dei mussulmani. L’avrete pur visto il servizio televisivo: arriva davanti al sacro luogo... lo fermano. "Che c’è?", "Deve togliersi le scarpe." (Pausa, poi al pubblico) No, non è una mia invenzione... c’è la ripresa televisiva (mima di cavarsi le scarpe), come si toglie le scarpe (esegue l’azione come a scendere da un gradino) ohp, ohp... i pantaloni sul fondo gli vanno a coprire tutto e i piedi spariscono! Due sporpole sballocchianti. Come si muove e viene in avanti... SBLOK, SBLOK. Entra. Quando si trova nel centro della navata... dell’emisfero sacro, inciampa (mima una rovinosa caduta) PATATONF! Frana in avanti, sbatte la faccia sul pavimento, il sedere per aria, ginocchioni rivolto verso la mecca... e tutti buttandosi carponi esclamano: "Allah è grandeeeee!!". Un trionfo. Si è salvato!
    (Torna a ricomporre l’immagine del pupazzo. Lo accarezza sul cranio, lo cinge alle spalle, lo indica) Si è fatto da solo... (pausa, lo considera) poteva farsi meglio!
    è proprio basso, corto... soprattutto dal punto di vista morale... è anche di bassa cultura. Devo però ammettere che in certi momenti sa essere davvero geniale, spregiudicato allo schifo. L’idea di formare un governo coi fascisti riciclati, con i gomiti bloccati sopra le anche... se no gli scatta il tick del saluto (solleva le braccia a turno nel saluto romano), per non parlare poi dello stomaco di tirar dentro il Padano-Brianza-Bossi che è un Ubu-oeu! I discorsi di Bossi sono dei capolavori di truculenza comparata: "Ah, che el sia ciaro che qui àsta vaca-bestia di RAI, se non ci sganciate un para de cadreghe, niualtri si smamma come levri e vi mandem a dar via el cü a tüti. E poe basta de rompere i cojon con ’sto fato che nun sarsmo una masa de razisti... sia ciaro che par mi poden vegnir dentro tüti, negher, marochin, cines... basta che me tiret via dai cojon i napolitan! No, quei... foera di bocul! No i podi supurtà. I vegne sü ne la nostra bela Padania, i roba, g’han mica voja de lavurà quei là... sèscriven nei coba... parlen ’sta lengua de teron... e poe i se scopeno le nostre done bianche!".

    Beh, Ubu bas, il nostro Ubu bas, spesso quando tira fuori la sua vera natura è di uno spasso. Ineguagliabile, gioviale, amicone... alla mano. Basta vedere come s’è comportato qualche settimana fa, in occasione del Convegno europeo dei Ministri degli Esteri in Spagna... e lui, il nostro Presidente... Ubu-bas, s’è auto-nominato Ministro degli Esteri dopo aver sbattuto via quello consigliatogli dall’Agelli-Fiat. è il primo caso della storia in cui un presidente del consiglio si becca anche il ruolo di ministro degli esteri! Mai accaduto! No, no, un momento... prima di lui Mussolini aveva fatto lo stesso: capo del consiglio, Capo della Farnesina. GNACK, (al pupazzo immaginario) non ti vergogni, copiare il duce? No, lo so che non lo sapevi.(Rivolto al pubblico) non conosce la storia! Cultura zero! (Finge di battergli pacche sul cranio)... proseguiamo. Dicevo: lui si trova in Spagna con tutti i Ministri degli esteri... riunione informale... si annoia: "Basta con ’sta lagna... facciamo qualcosa di spiritoso! Tutti pronti per la foto di gruppo...in posa!" Qui c’è il Ministro spagnolo (indica davanti a sè) sulla destra, qui c’è quello francese. Appena dietro, a sinistra, l’inglese. "Pronti per lo scatto!" e lui, ’sto matto di Ubu-bas, che fa? Solleva la mano e TAC! (Fa le corna sull’immaginaria testa dello spagnolo) Aha, aha!, che simpatico! Ma non è finita. Con l’altra mano va ad infilare un dito nel sedere del Ministro francese... qui di fianco il francese sussulta: "Oue, parbleu!", lo bloccano al volo, appena in tempo. Allora lui, qui appena dietro c’è l’inglese... TAK! Una strizzatina ai citroncini! Tanto che nella foto si vede il Ministro in questione che con le braccia spalancate in aria che fa: "Auahh".

    Stupenda trovata, che stile... gaudio di classe sublime. La nostra reputazione all’estero, dopo questa geniale performance è salita alle stelle: corna, affondo gluteale, strizzatina d’orpelli. Tutti i nostri grandi geni del passato sono scattati fuori dalle loro tombe all’unisono applaudendo (cantando): "Si scoprono le tombe e si levano i morti!" Ma il nostro Ubu non si ferma qui, ha proposto un nuovo intrattenimento spettacolare: nel prossimo convegno ci sarà una gara collettiva a chi farà pipì più lontano.
    Tutti i ministri schierati sul balcone... foto di gruppo! E la sera un concerto di scoreggine. E vaiiii!
    In tutta questa faccenda però, c’è un atteggiamento che davvero non mi riesce di sopportare: il vittimismo di questo Ubu. (Ridisegnando plasticamente il pupazzo), sì, sto parlando di te! Ma ti pare bello andare intorno come vai facendo da più di un mese, per tutta l’Europa a raccontare certe panzane! (polemizzando col pupazzo Ubu) Ah no? Son peggio di panzane (rivolto al pubblico) diteglielo anche voi: ’sto falsone scatenato è andato a dire un po’ dappertutto che in Italia c’è una coalizione che gli vuol stroncare le gambe. Tanto per cominciare nella giustizia si sono infiltrati un sacco di giudici comunisti, provenienti dalla Russia: nei giornali cosiddetti indipendenti dal direttore al fattorino sono tutti comunisti. Anche alla Rai, fino all’altro ieri il potere era in mano ai comunisti. All’estero poi, le Monde in Francia è comunista, El Mundo in Spagna è un covo di rossi estremisti. In Germania La Roiter... comunista. Non parliamo poi in Inghilterra, tutti i quotidiani comprese le riviste porno... comuniste. Anche la Regina è comunista! Tant’è che è iscritta ai Cobas!
    E tuttàsta congrega è nelle mani di D’Alema. è lui che gestisce. è risaputo che quando D’Alema si incavola ordina: sparategli addosso! Fuoco a volontà! E tutti scrivono articoli di fuoco! Un linciaggio!

    (Si rivolge al pupazzo massaggiandogli il capo) Hai capitòsto bello comunista?! (scoppia a ridere, quasi singhiozzando) D’Alema comunista! (poi esplode con una gran danza e saltella impazzito, indica il pupazzo) Solo lui vede comunisti! (mimando di scuotere il pupazzo) Non ci sono più i comunisti! Ah ah ah aha!!!
    A parte che tu, invece di insultarlo dovresti baciare la terra dove mette i piedi, a D’Alema. Sei irriconoscente! Ma andiamo, D’Alema e i suoi ministri... e tutto il suo partito, e l’ala moderata un po’ di centrosinistra, un po’ a destra... sempre al confine... col culo che ogni tanto s’affaccia dall’altra parte... tira di qua... spinge di là... passo, non passo... ripasso!
    Dicevo, non dimenticare che D’Alema è rimasto quattro anni al governo... e in tutto questo tempo aveva il sacrosanto dovere di varare una legge contro il conflitto d’interesse. Era un dovere costituzionale, civile. Per metterci a pari con tutte le altre nazioni europee. E invece: "Ma no, non c’è fretta... perché dargli una simile stangata povero Ubu... tanto avere tre televisioni, non è poi questo gran vantaggio. Con quattro trasmissioni in più mica condizioni gli elettori... Oramai la gente ragiona con la propria testa... mica siamo in America dove il pubblico lo imbesuisci con gli spot e con gli slogan a tormentone. (A gran voce) Tiè l’America!! (scoppia a piangere)
    Se non ci fosse stato D’Alema col cavolo che tu saresti diventato Presidente del Consiglio del Governo italiano!

    (Quindi riprendendosi) Ma tutti tranquilli: c’è una buona notizia. Ubu ha dichiarato che a giorni risolverà personalmente il conflitto di interessi. Venderà due televisioni. Due televisioni di stato!... è spiritoso! Ma io non so, non riesco a sentirmi sereno... Anzi, ho come un gran magone. Ho un’angoscia, un incubo... anche quando dormo. Non so se è capitato anche a voi: mi sogno di svegliarmi da un sogno... e continuo a sognare. Nel primo sogno vivo una situazione di grigiore disperata... sogno di ritrovarmi come ora: un governo che fa, disfa come gli pare... una opposizione in strambola... operai che rischiano il licenziamento. Scuola azienda... ospedali azienda, si ricomincia con la corruzione, le tangenti, processi che saltano, ricominciano a scoppiare le bombe...
    Poi di colpo mi sveglio... non era vero niente, solo un incubo... è tutto tranquillo, c’è un buon governo democratico... niente leggi da Banda Bassotti... i furbi e i ladroni in galera... Ubu non c’è più... e rido, rido! E il guaio che dopo mi sveglio davvero... e ricomincia l’incubo.

    Ma non lasciamoci abbattere! Su con la vita. Siamo sempre un gran popolo dopo tutto, pieno di risorse. A parte che dopo l’esploit del nostro Ubu in Spagna sono un po’ preoccupato: come arrivo all’estero (a gran voce) Un italiano! (Si porta velocissimo le mani sulla testa, sul pube e sui glutei) Ma lo faranno solo per scherzare. D’altronde le ultime volte che ho passato la frontiera, sia in Francia che in Germania sentivo intorno a me un grande affetto: "Italiano?" e io: "Sì!" "Oh, che popolo stupendo! E che carattere che avete. Davvero invidiabile. Ve ne succedono di tutti i colori e voi sempre lì... sereni. Impressionante la fiducia che dimostrate... fiducia nelle promesse che vi fanno... fede nei governanti... veramente bello sentirvi così disposti a ridare fiducia a quelli che vi hanno già fregati... siete splendidi, vitali, solari... e anche un po’ citroni."
    Ma la nostra reputazione all’estero è esplosa in modo inimmaginabile con Vanna Marchi. è diventato il nostro emblema. Non avete idea l’interesse che ha suscitato all’estero la vicenda di questa donna fenomeno. Ci sono ancora oggi i giornali ricolmi della sua biografia. Sanno tutto: che è già stata in galera per truffa, tempo fa. è uscita di galera dichiarando "In questi mesi ho meditato sui miei errori. Ho imparato molto". E immediatamente ha fatto un contratto con una televisione, una piccola emittente di provincia, a scopo pubblicitario. In sei anni mostrandosi su quel network da quattro soldi è riuscita a incastrare una cosa come trecentomila persone. Le ha imbesuite, fottute, promettendo loro quattrini, successo, lavoro sicuro, pace e serenità in famiglia. Guarigioni miracolose, fortuna sfacciata a qualsiasi gioco, un avvenire radioso. E a botte da gran banditorèsta donna s’è portata a casa, meglio dire: "rapinato" più di 180 miliardi. Tutto, soltanto, sulla fiducia: promettendo la luna, commovendosi. Giurando sui propri figli! (breve pausa) No, questo è un brevetto di Ubu, non si tocca.
    Sì, dicevo, ’sta volpastra, per mezzo di una piccola televisione di provincia (salendo di tono) pensa se avesse avuto a disposizione tre televisioni nazionali! Aleèèèhhhaaa
    Buio
    Fine
    Dario Fo


  3. #28

    Predefinito Depressione Natalizia

    Depressione da Natale: non sentitevi in colpa
    Stefano Pallanti


    Natale: di nuovo? Di già? Questa ricorrenza arriva come tutti gli anni d’improvviso ed in noi si fa strada un turbamento astratto. Non è come nell’infanzia quando, almeno ci sembra adesso di ricordare, la gioia cresceva, giorno dopo giorno, da adulti invece è diverso. E’ un peccato! E infatti lo viviamo davvero come una colpa. Colpa, sì, perché sappiamo bene che dovremmo invece sentirci più felici.
    Essere infelici a Natale ci pare disonesto, ingiusto, un tradimento dei sentimenti comuni: una bestemmia. Ci dispiace rovinare la festa agli altri, ma spesso non riusciamo a nascondere questo stato d’animo. Negli altri giorni i sentimenti tristi sembrano meno continui e tollerabili.

    Diceva Giorgio Manganelli ‘L’infelicità del Natale è un’infelicità elusiva, viscida, serpentesca, e insieme calamitosa’, e vediamo tutte le imperfezioni dei rapporti umani, ne soffriamo di più, perché ci sembrano più che mai incompleti. La festa suprema è il momento della suprema vergogna. E prima tra tutte quella dei nostri sentimenti, miseri, sbilenchi. E mai come in questi momenti l’essenza dei nostri sentimenti amorosi, che avevamo serbato per ricorrenze speciali come le buone bottiglie, si disperde e soccombe tra i miasmi del disamore del mondo. E’ proprio il contrasto con l’ideale perfetto della ‘felicità natalizia’ che rende in questi giorni più aspra la pena. Tranquilli, non si tratta di una faccenda privata, poichè riguarda tante persone, basta domandarlo un po’ in giro, e poi perché, anche se lo abbiamo scordato, il Natale è intrinsecamente triste, seppure travestito di letizia.

    Fine dell’anno e fine del Tempo coincidevano nelle culture arcaiche ed insieme erano una metafora della fine dell’esistenza. I Saturnali, celebrati in questa stagione, erano, nella Roma pagana, la festa delle ‘Larvae’, cioè dei morti per cause violente, non sepolti. Le giornate più brevi dell’inverno erano la notte dell’anno e ne segnavano la rinascita, rinnovavano l’alleanza tra i vivi, i bambini neonati ed i morti, ed ancora oggi molti dei simboli delle festività ci riportano questi significati.

    La morte, a quel tempo, era il contrario della vita: l’altro mondo. Nel mondo dei consumi è qualcosa di peggio: il nulla. Per questo l’abete per noi diventa solo un frivolo addobbo, mentre nel nord Europa questo ‘sempreverde’ veniva impiegato ugualmente sia per i matrimoni che per i funerali. Ceri rossi, luminarie, falò, gli stessi doni scambiati come ‘ex voto’, alludono alla comunicazione tra oltretomba e realtà materiale.

    Bene, allora il nostro turbamento ora ci sembra meno infondato. Chi in questi giorni di ‘letizia forzata’ è un po’ malinconico recupera intero lo Spirito delle feste.

    Qualcuno però va oltre e finisce per passare dall’infelicità, sentimento comunque normale, alla depressione clinica.

    La psichiatria, che si è occupata del fenomeno dell’infelicità natalizia, ci fornisce alcune indicazioni utili. La prima è che il Natale viene considerato nella lista degli eventi stressanti come un furto o un lutto (non per i bambini però!).

    Per chi soffre o è vulnerabile alla depressione - almeno una persona su cinque - il Natale è un evento davvero perturbante.

    Sin dal primo famoso articolo apparso nel 1981 sugli Archives of General Psychiatry, dal titolo significativo di ‘Christmas and psychopathology’, si è descritto il cosiddetto ‘Christmas Effect’, che provoca un aumento dei ricoveri e delle richieste di aiuto per motivi psicopatologici. In particolare disturbi depressivi e disturbi alimentari psicogeni soprattutto per donne ed anziani.

    I sintomi

    Soffrite di ‘Holiday season depression’ (la Depressione delle festività)?

    Se riconoscete almeno 4 di questi otto sintomi, probabilmente sì:

    · Tristezza persistente, ansia, ma soprattutto senso di “vuoto”

    · Pessimismo, sfiducia nel futuro

    · Sensi di colpa, sentirsi incapace ad esempio di preparare il pranzo di Natale

    · Abulia, incapacità di divertirsi e di condividere la gioia con gli altri

    · Soffrire per coloro che mancano e non riuscire a godere della presenza e dell’affetto di chi ci è vicino

    · Incapacità di trovare un’idea per un dono

    · Aumentata litigiosità per motivi futili, facilità al pianto

    · Mal di testa, mancanza di appetito o dolori fisici persistenti

    Talora queste sensazioni accompagnano tutto il periodo, per poi lasciarci in pace finite le festività, altre volte proseguono anche dopo ed anzi possono anche aggravarsi.

    E’ possibile difendersi dalla depressione da feste?

    - Combattere i sentimentalismi razionalizzando, in modo da non aspettarsi niente di particolare dal Natale: è la disillusione delle nostre aspettative infantili che più ci fa disperare.

    - Moderazione nel mangiare e bere e anche nelle spese. Molte persone non possono spendere quanto vorrebbero per i regali, o spendono più di quanto realmente possono. Questo è un fattore potenzialmente depressivo.

    - Non stravolgete i vostri ritmi. Non cercate di fare più cose di quelle che potete fare, tenete il vostro ritmo. Prendere il proprio tempo, organizzarsi delle pause per recuperare e rilassarsi. Se possibile, condividere il proprio carico con qualcun altro. Se ci si sente stressati o sovraccarichi, cercare familiari o amici che aiutino a prendere uno stacco.

    - Evitate il ‘Post Cristhmas let-down’, cioè le crisi del dopo Natale con programmi adeguati: non rimanete privi di progetti, può favorire la melanconia.

    Comunque se a Natale si è un po’ felici (ma vale anche per tutti gli altri giorni dell’anno), è meglio; ma chi si sente infelice pensi che è uno dei tanti, che non hanno paura di un po’ di tristezza in una societa’ che, ci pare, sempre piu’ “Depressofoba”, ovvero paurosa non solo della malattia depressiva (il che sarebbe giustificato) ma anche intollerante di ogni tristezza .

    (L’autore è direttore dell’Istituto di Neuroscienze di Firenze, e visiting associate professor alla Mount Sinai Hospital School of Medicine di New York)

    20 Dicembre 2001

  4. #29
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    Predefinito Re: La Biblioteca di BackStage

    Corriere 28/12/2003, Vittorio Messori


    Guernica, la verità dietro la leggenda




    Così Picasso e un giornalista inglese contribuirono a creare il mito della città-martire
    Una rilettura del bombardamento che ispirò uno dei più celebri dipinti rivela le esagerazioni della propaganda. E rifà i conti delle vittime
    Messori Vittorio



    Come ogni italiano consapevole, ho gratitudine per il lavoro ormai più che secolare del Touring Club. Gratitudine unita a stima, per la cura e il rigore delle sue pubblicazioni. Ma persino i migliori hanno le loro sviste. Così, di recente, il Touring ha allegato una guida di Madrid a un settimanale di larga diffusione. Due pagine intere sono dedicate alla grande tela esposta al museo Regina Sofia, al quadro probabilmente più celebre del XX secolo, davanti al quale sfila una colonna continua che si direbbe non di turisti bensì di pellegrini reverenti. Ma sì, il Guernica di Pablo Picasso. I due che firmano il testo della guida Touring ripetono le cose che stanno in tutti - o quasi - i libri di storia. Sacra ai Baschi, la piccola Guernica «viveva - ci dicono - senza particolare apprensione lo svolgimento della guerra civile, dal momento che la sua importanza strategica era praticamente insignificante». Ma il 26 aprile del 1937, nugoli di aerei della Luftwaffe, quelli della Legione Condor in appoggio a Franco, «scatenarono su quel centro privo di difese uno spaventoso bombardamento. Per tre ore infuriò la tempesta di fuoco e dalle macerie vennero estratti i corpi senza vita di 1650 persone, mentre 800 furono i feriti. Era la prima volta nella storia che piloti di aerei da combattimento colpivano civili inermi». Non c' è da infierire contro i redattori del glorioso Club: quella che espongono non è che la vulgata corrente ripetuta infinite volte, senza varianti e senza verifiche. Per quanto mi riguarda, già anni fa, sul quotidiano cattolico, avevo tentato di incrinare il conformismo, mostrando che le cose, a Guernica, si erano svolte in modo assai diverso. Quell' articolo, raccolto poi in un libro, aveva scatenato reazioni irose. Molti, tra l' altro, avevano trovato irriverente il fatto che ricordassi quanto sostengono alcuni. Il celeberrimo quadro di Picasso, cioè, sarebbe nato come Lamento en muerte del torero Joselito: appassionato di corride, colpito dalla morte di un suo beniamino, il pittore di Malaga aveva cominciato a dipingerne la fine nell' arena, quando il governo social-comunista spagnolo gli offrì 300.000 pesetas (provenienti da Stalin attraverso il Comintern) per un' opera da esporre a Parigi. La tela sarebbe stata quindi modificata per adattarla alla lucrosa commissione, dandole il nuovo nome di Guernica: restarono, però, i tori e il cavallo del picadòr che, ferito, nitrisce verso il cielo. Ma, al di là dei pettegolezzi artistici, la verità sul bombardamento della cittadina basca è ormai accertata, eppure non riesce a superare le barriere ideologiche. È curioso, tra l' altro, che, dopo la pubblicazione del mio articolo, ricevessi la lettera commossa di un anziano: giovanissimo pilota italiano, quel lontano pomeriggio di aprile era nel cielo di Guernica ed era grato che qualcuno, finalmente, avesse tentato di andare oltre tante inesattezze se non menzogne. Come sia andata davvero è ricostruito, con rigore di documentazione, anche in quello che è stato il maggior bestseller del 2003 in Spagna. In un imponente volume di 600 pagine, dal titolo Los mitos de la Guerra Civil - e che ha avuto in pochi mesi più di venti edizioni - lo storico Pio Moa, già militante nel Partito comunista spagnolo e poi addirittura membro del Grapo, il gruppo terroristico, ha demolito molte leggende. E lo ha fatto con spirito bipartisan, non lesinando colpi sia ai franchisti che agli antifranchisti. Per quanto riguarda el mito de Guernica, si dimentica sempre che l' azione fu condotta in buona misura dall' Aviazione Legionaria italiana che aveva in volo, quel giorno, tre moderni trimotori S79 e 15 caccia CR32, mentre la Legione Condor intervenne più tardi e con pochi Junker di vecchio tipo, certamente inferiori ai bombardieri che i russi impiegavano sulle città franchiste senza risparmio. Se, in tutte le rievocazioni, non si parla che dei tedeschi, fu perché la leggenda è in gran parte opera delle corrispondenze fantasiose di un inviato inglese, George L. Steer, che, volendo spronare il suo Paese al riarmo, inventò una potenza terrificante della Luftwaffe, favoleggiando anche di nuovi esplosivi sperimentati dai tedeschi. In realtà, su Guernica furono lanciate, da italiani e tedeschi, bombe «normali» e l' obiettivo principale non era l' abitato ma il ponte di Renterìa, sul fiume Oca. È falso, infatti, che la città - ormai a soli 20 chilometri dal fronte - non fosse un importante obiettivo strategico: ospitava due fabbriche d' armi e vi erano concentrati tre battaglioni, con 2.000 soldati «repubblicani» e imponenti depositi di artiglieria. Una menzogna inventata da Steer (ed entrata poi in tutti i libri di presunta storia) è che si sia fatta strage di contadini perché, come ogni lunedì, era in corso il tradizionale mercato. In realtà, proprio perché la città era ormai immediata retrovia, il mercato era stato sospeso: in ogni caso, i primi aerei italiani apparvero dopo le 16,30 (e il mercato finiva a mezzogiorno) e il passaggio degli Junker germanici avvenne solo due ore dopo. Commissioni internazionali di inchiesta hanno addirittura disegnato la mappa dei crateri delle bombe, confermando che poche caddero sulle case e le altre attorno al ponte. Tutti i testimoni concordano che, al termine del bombardamento (non ci furono mitragliamenti sui civili, come si favoleggia) Guernica era in piedi e solo il 10 per cento delle case era danneggiato. Alcune di quelle case, però, bruciavano: il ritardo nell' arrivo dei pompieri da Bilbao, il fatto che l' architettura tradizionale fosse in legno, un forte vento, favorirono un incendio che portò al rogo del 70 per cento della città. Gli stessi abitanti inveirono contro i soldati dell' esercito «rosso» che si segnalarono per inerzia. Anche i pompieri se ne tornarono presto in città, col pretesto che era ormai inutile affaticarsi e che avevano altro da fare. Quanto ai morti: proprio il giorno prima l' aviazione italiana aveva bombardato la vicina città di Durango, facendo quasi 200 morti (e ne farà migliaia nelle incursioni dell' anno seguente su Barcellona e migliaia ne fecero i «rossi» su Saragozza). A Guernica, non solo Pio Moa ma molti storici prima di lui hanno indagato in ogni modo, sottoponendo a verifica tutte le cifre. È ormai sicuro, e confermato dai registri comunali, che la somma totale è di 102 deceduti (molti dei quali militari), di 120 al massimo secondo altri, e i feriti furono solo 30. Siamo, dunque, a cifre almeno 14 volte minori dei 1650 deceduti e degli 800 feriti della vulgata ripetuta dal Touring Club, come da tutti, in tutto il mondo. Nota Moa che «è impressionante vedere come di un evento di certo doloroso ma niente affatto straordinario in una guerra che fece quasi un milione di morti, si sia riusciti a fare uno dei miti internazionali più intensi e impenetrabili alla critica». In quei tre anni terribili, infiniti altri episodi furono ben più tragici, ma a Guernica la propaganda, unita all' indubbio talento di Picasso, riuscì in un capolavoro che non ha ancora esaurito il suo vigore.

  5. #30
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    Predefinito Re: La Biblioteca di BackStage

    Vi consiglio alcuni libri.

    di Albert Speer:
    -Diari segreti di Spandau (ho una vecchia edizione Mondadori)
    -Memorie del Terzo Reich [Erinnerungen], 1969, Oscar Storia Mondadori

    Albert Speer è solitamente conosciuto come "l'architetto di Hitler/del Terzo Reich"; architetto di qualifica, è con tale ruolo che ha iniziato la collaborazione con l'élite nazionalsocialista, acquistando responsabilità via via fino a diventare Ministro degli armamenti e della produzione bellica.
    Unico gerarca nazista ad essersi dichiarato colpevole al Processo di Norimberga, ha trascorso nel carcere di Spandau una lunga pena detentiva alla fine della guerra.
    I Diari sono la memoria di questa detenzione, condivisa con gli altri gerarchi non condannati alla pena capitale. Stupefacente la bassezza di persone che in passato hanno avuto tanto potere, e interessante (anche comico) il confronto fra i diversi tipi di gestione del carcere da parte delle 4 superpotenze vincitrici.
    Le Memorie sono il racconto della vita di Speer, che tanto si è intrecciata con quella del Terzo Reich e di Hitler. La visione del suo passato è critica, e non cerca troppe giustificazioni quando ammette di aver sbagliato. Un libro assolutamente da leggere per avere un punto di vista competente su molti eventi che hanno caratterizzato la Germania nazista (e non credo ci sia di meglio da leggere per quel che riguarda la produzione bellica tedesca, con tutte le sue difficoltà e le sue scelte sbagliate).



    Primo Levi, I sommersi ed i salvati, Einaudi

    Libro più amaro e più riflessivo di "Se questo è un uomo" e "La tregua". Un'analisi stupefacente della mente umana, con lo stile sobrio e la mente acuta di Levi. Interessante il fatto che vi si discute delle analisi "di seconda mano" dell'Olocausto (ad esempio nel cinema), senza risparmio di critiche.
    Vi è qualche paragrafo anche su Albert Speer, che non appare della stessa statura dello scrittore dei suoi libri.




    Henry Reynolds, Why weren't we told?, Penguin Books

    Lo sto leggendo in questo periodo. Uno storico risponde alla sconvolgente domanda di molti cittadini australiani, che si chiedono perché gli sono stati taciuti tanti particolari della loro storia e del problema del razzismo nel loro paese. Scioccante anche per un italiano.

    Se trovate anche l'edizione italiana, postate qui come si intitola e chi è l'editore.

  6. #31
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    Predefinito Re: La Biblioteca di BackStage

    Stupid white men e Ma come hai ridotto questo paese? di M. Moore

  7. #32
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    Predefinito Re: La Biblioteca di BackStage

    Sergio Romano, Corriere della sera; 5 febbraio 2004

    Perché le democrazie dicono bugie

    Non sappiamo ancora quale sarà il mandato della commissione d'indagine
    promessa dal presidente americano Bush sul problema delle armi di
    distruzione di massa che gli ispettori hanno inutilmente cercato in Iraq. E
    non conosciamo, per ora, il preciso mandato di quella che il premier
    britannico Blair si è visto costretto ad annunciare qualche ora dopo. Se l'
    oggetto dell'indagine sarà il funzionamento dei servizi d'intelligence, Bush
    e Blair sosterranno di essere stati ingannati da cattive informazioni e
    cercheranno di salvare la loro immagine. Ma non è certo che vi riescano.
    Quale che sia il mandato, i mezzi d'informazione non esiteranno a
    semplificare brutalmente i termini del problema e a sostenere che la
    questione cruciale è in realtà la sincerità dei due governi. Hanno esagerato
    il pericolo? Hanno giustificato la guerra con informazioni imprecise o
    grossolanamente esagerate? Hanno mentito alla loro pubblica opinione? In
    altri tempi queste domande sarebbero state incomprensibili. Fino alla
    seconda metà dell'Ottocento nessun sovrano avrebbe dovuto giustificare gli
    argomenti con cui aveva deciso di invadere i propri vicini.
    Durante la guerra contro le colonie americane, negli anni Settanta del
    Settecento, alcuni intellettuali inglesi sostennero le ragioni dei ribelli,
    ma a nessuno venne in mente di trascinare i ministri di Giorgio III di
    fronte a una commissione d'indagine per giustificare la loro stupida
    politica fiscale degli anni precedenti. Durante la guerra di Crimea una
    parte della stampa britannica criticò duramente la condotta delle operazioni
    militari e l'arroganza di Lord Cardigan nella disastrosa vicenda della
    Brigata leggera, ma nessuno contestò le ragioni del conflitto.
    La situazione comincia a cambiare nella seconda metà dell'Ottocento.
    Anziché regnare esclusivamente «per grazia di Dio» i sovrani regnano ormai
    «in nome del popolo» e debbono rendergli conto occasionalmente delle loro
    azioni o permettere che i ministri rispondano dei loro atti al Parlamento.
    Per fare una guerra, quindi, occorre fornire qualche giustificazione alla
    pubblica opinione. E poiché non tutte le ragioni possono essere confessate,
    occorre mentire. La prima clamorosa menzogna della storia moderna è
    probabilmente il telegramma che Bismarck diffuse alla stampa il 13 luglio
    1870. Le cose andarono così. Quando il trono di Spagna divenne vacante, il
    «cancelliere di ferro» autorizzò un principe della dinastia prussiana ad
    avanzare la propria candidatura. La Francia di Napoleone III si oppose e
    chiese che la candidatura venisse ritirata. La Prussia acconsentì, ma il
    ministro degli Esteri francese pretese che il governo di Berlino s'
    impegnasse a non più presentarla. Vi fu un incontro nella cittadina termale
    di Ems tra l'ambasciatore francese e Guglielmo I re di Prussia che quest'
    ultimo riassunse in un telegramma indirizzato a Bismarck. Il telegramma era
    scritto con molto equilibrio, ma il cancelliere capì che esso avrebbe
    giustificato, con qualche correzione, una dichiarazione di guerra. Diffuse
    una versione addomesticata da cui risultava che il re aveva trattato
    bruscamente l'ambasciatore francese. Napoleone III si indispettì e la guerra
    scoppiò.
    Comincia da allora la lunga serie delle grandi menzogne e delle colpevoli
    negligenze. Per dichiarare guerra alla Spagna nel 1898 gli Stati Uniti si
    servirono dell'esplosione di un incrociatore americano nel porto dell'Avana.
    Accusarono gli spagnoli di averla provocata e ottennero subito il consenso
    della pubblica opinione. Ma non era vero. L'esplosione ebbe luogo perché la
    santabarbara del Maine era troppo vicina alla sala delle macchine.
    Per la Grande guerra, paradossalmente, le bugie non furono necessarie. Bastò
    un colpo di pistola (quello che uccise l'arciduca Francesco Ferdinando a
    Sarajevo) per scatenare una reazione a catena che nessuno riuscì a
    controllare. Qualche bugia, invece, fu utile, se non indispensabile, quando
    l'Italia si servì di un oscuro incidente di frontiera a Ual Ual nel dicembre
    1934 per aprire una crisi che si sarebbe conclusa nell'ottobre del 1935 con
    una dichiarazione di guerra all'Etiopia.
    Molto meno oscuro, invece, fu lo sfacciato incidente messo in scena dalla
    Germania nazista nella notte fra il 31 agosto e il 1° settembre 1939. Per
    giustificare la guerra contro la Polonia le SS prelevarono 150 prigionieri
    da un campo di concentramento, li vestirono con uniformi polacche e li
    lanciarono all'assalto della stazione radiofonica tedesca di Gleiwitz, nei
    pressi della frontiera. Più tardi, per evitare spiacevoli indiscrezioni,
    eliminarono tutte le comparse del dramma.
    Le democrazie hanno opinioni pubbliche più esigenti di quelle dei regimi
    dittatoriali e le loro menzogne, quindi, devono essere più convincenti.
    Quando il presidente egiziano Nasser, nel luglio 1956, nazionalizzò il
    canale di Suez, la Gran Bretagna e la Francia decisero che glielo avrebbero
    ripreso con la forza. Ma non potevano fare guerra all'Egitto senza una buona
    giustificazione. Per averla si accordarono con gli israeliani e montarono un
    complotto tripartito. Gli israeliani avrebbero lanciato una operazione
    militare nel Sinai. Gli inglesi e i francesi avrebbero chiesto ai due
    contendenti di ritirarsi e, dopo il rifiuto di Nasser (che Londra e Parigi
    davano per scontato), avrebbero occupato il Canale. Le cose andarono
    effettivamente così, fino al momento in cui gli americani si arrabbiarono e
    fecero sapere a Londra che avrebbero affossato la sterlina alla Borsa di New
    York. Il primo ministro britannico si dimise e le truppe vennero ritirate.
    Una mezza verità, se non proprio una bugia, fu quella che permise a Lyndon
    Johnson, successore di Kennedy alla Casa Bianca, di ottenere carta bianca
    dal Congresso per la guerra contro il Vietnam del Nord. Nel Golfo del
    Tonchino, agli inizi di agosto del 1964, un cacciatorpediniere americano, il
    Maddox, fu attaccato in acque internazionali da tre cannoniere
    nordvietnamite e si salvò grazie all'intervento di aerei americani. Johnson
    sostenne che si trattava di una provocazione ingiustificata, ma non disse
    che il Maddox era in realtà una nave spia, attrezzata per sorvegliare con le
    sue apparecchiatore elettroniche le coste vietnamite.
    Avrei potuto dare altri esempi, ma da quelli che ho scelto è possibile
    ricavare due rudimentali lezioni, utili forse per comprendere ciò che sta
    accadendo in questi giorni. Prima lezione. Le bugie sono tanto più numerose
    quanto più i governi dipendono dal consenso della pubblica opinione. I re
    dell'Antico Regime non avevano bisogno di mentire; i sovrani costituzionali
    dell'Ottocento cominciarono a mentire; i dittatori del Novecento hanno
    mentito senza troppo preoccuparsi della verosimiglianza dei loro argomenti;
    i governi democratici dei nostri giorni mentono con particolare raffinatezza
    e perizia. Seconda lezione. Una guerra vinta cancella tutte le bugie
    precedenti. Se Bush e Blair avessero, dopo la fine delle operazioni
    militari, pacificato l'Iraq, nessuno a Washington e a Londra sarebbe
    costretto a convocare commissioni d'inchiesta.

  8. #33
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    Predefinito Re: La Biblioteca di BackStage

    da rekombinant.org
    ''collaborazionisti'' di Lanfranco Caminiti.

    Laghi di lacrime grandi quanto il Tiberiade piangono i morti palestinesi massacrati a Jenin.
    Mari di lacrime densi come il mar Morto piangono i morti israeliani dell'ultimo attentato suicida.
    A volte mi chiedo se siano dello stesso sale le lacrime palestinesi e israeliane. Deve esser così, come potrebbe essere altrimenti?
    Ma nessuno versa una lacrima per i "collaborazionisti", torturati, fucilati, uccisi, squartati, trascinati, appesi, esposti al ludibrio. Semmai urla e incitamenti: uncinare la maglia mentre la morte si fa pubblica, si fa spettacolo è antico vizio. Solo occhi asciutti per i "collaborazionisti".
    Da morti, non hanno più famiglia, non hanno più amici, fidanzate, parenti. Ci si chiede se mai li abbiano avuti. Anzi, di sicuro non li hanno mai avuti.
    Da morti, non hanno uno straccio di funerale. Non si trovano mani pietose. Come per gli scomunicati, non hanno terra dove essere inumati: che i loro corpi restino esposti, ai cani. E' Creonte a impedirlo, la ragione di stato, la ragione del sangue, della comunità: Creonte impedisce sempre di seppellire i cadaveri scomodi.
    I vivi che rimangono li rinnegano, bisogna pur sopravvivere. Quei morti non hanno madri, padri: propriamente non sono mai nati e quindi non sono neppure morti.
    I morti di Jenin interrogano l'opinione pubblica, creano scandalo, provocano indignazione.
    I morti del bus saltato in aria [o era una pizzeria? una discoteca? un mercato, forse] chiamano alla mobilitazione, pongono domande dure, schieramenti, lacerazioni.
    Ma nessuno spende una parola per i "collaborazionisti", nessuno ne parla, vi fa un editoriale, nessuno si commuove. Una piaga, un'infezione: anche solo a nominarla vengono le pustole alla bocca.
    Certo, raccapricciano quei corpi trascinati per le strade, messi a testa in giù a un qualche palo, trattati come quarti di carne da appendere a un gancio: ti aspetteresti che qualcuno li macelli, ne dia pezzi di qua e di là. Incartati come frattaglie.
    Ma il raccapriccio riguarda gli autori del gesto, non le vittime: le vittime propriamente sono quel che sono, pezzi di carne. Per chiunque.
    Khaled e Jihad Qmeil avevano 15 e 16 anni, erano accusati di avere ucciso un loro cugino, Osama Qmeil, uno importante, un ufficiale palestinese che aveva già fatto la prima Intifada e era addetto all'esecuzione di collaborazionisti: gli israeliani lo volevano morto. Un tribunale li aveva condannati alla prigione e non a morte, per avere meno di 18 anni. Meno di 18 anni: "collaborazionisti" con meno di 18 anni. Si cresce in fretta in Palestina. Si muore in fretta in Palestina. Il processo si era tenuto in un palazzo qualunque: non c'è più tribunale: i bombardamenti l'hanno distrutto. Ma la folla voleva il loro sangue. Così, sono stati uccisi in un lavatoio, in un cesso, forse il segno di un ultimo disprezzo nei loro confronti. A ucciderli altri membri della famiglia.
    Questa volta non c'erano le telecamere come a Nablus a riprendere l'esecuzione.
    L'IDL, l'Esercito israeliano, comunica di aver trovato tra le "carte segrete" di Arafat un elenco di 350 collaborazionisti da eliminare, ancora da eliminare. Forse le cose non stanno esattamente così, forse le cose sono suppergiù così. Sono tanti 350 collaborazionisti da eliminare. Ma furono 800 i collaborazionisti eliminati dal 1987 al 1993, al tempo della prima Intifada. E sono tanti, tantissimi. Più del numero di vittime israeliane degli attentati suicidi di adesso. I palestinesi si uccidono fra loro senza riguardo.
    Alcune stime parlano di 450 detenuti nelle carceri dell'Autorità palestinese: molti di questi sono sospettati di collaborazionismo.
    Sono tantissimi 800 collaborazionisti eliminati e tutti gli altri dell'elenco da eliminare e tutti gli altri imprigionati e tutti quelli ammazzati in questa Intifada e da quando Israele ha scatenato la guerra: non sono "un" giuda, una spia, un infame, un traditore, un venduto: sono un fenomeno. Fonti israeliane parlano di 20.000 "collaboratori", approssimativamente. Una cifra così esagerata da sembrare detta provocatoriamente, come uno schiaffo. E nello stesso tempo fonti israeliane dichiarano che meno della metà delle persone uccise come collaborazionisti nella prima Intifada erano effettivamente tali.
    Di sicuro, c'è un intero villaggio di collaborazionisti e delle loro famiglie: si chiama Fatma. E ce n'è un altro, Dahaniya, che per metà è popolato da palestinesi che hanno collaborato con l'esercito israeliano e che sono stati portati qui da altri villaggi. L'esercito israeliano protegge questi villaggi, ma non si preoccupa più di tanto: anche qui i "collaborazionisti" vengono uccisi: l'unica speranza per loro è ottenere la cittadinanza israeliana e poi trasferirsi a Jaffa o altrove, dove è più facile forse essere dimenticati. Ma c'è una selezione durissima per ottenere la cittadinanza e non sappiamo quali siano le "prove" di questo percorso. C'è un motivo per questo insistita diffidenza dei padroni israeliani: anche gli attentati, gli agguati dei kamikaze e dei martiri palestinesi si compiono talvolta per mano di altri collaborazionisti, gli arabi israeliani che vengono reclutati nella Jihad, in Hamas, tra i Tanzim.
    E' un fenomeno questo. Uno dei fenomeni orribili di questa guerra, di questo conflitto. A cui nessuno volge lo sguardo. Per cui nessuno ha una parola di pietà. Come fosse scontato.
    E invece proprio quel numero denso indica l'orrore di questo conflitto, la sua configurazione.
    Indica l'assurdità di una qualunque demarcazione netta in una terra che è fatta di convivenze, di complicità, di scambi, di traffici.
    Le armi che uccidono gli israeliani sono comprate dai palestinesi anche al mercato nero israeliano, si trova di tutto a quel mercato nero: sofisticati attrezzi tecnologici per congegni da lontano, macchine blindate e veloci, esplosivo di ogni tipo.
    I segugi per rintracciare ricercati che fabbricano le bombe sono scovati dagli elicotteri israeliani attraverso dei palestinesi che spalmano una vernice speciale sulle auto dei terroristi o che hanno messo del plastico nel cellulare del capo degli artificieri fondamentalisti così da farlo saltare in aria al primo squillo.
    Questa non è la "guerra sporca", la guerra coperta. E' questa la guerra. E senza i "collaborazionisti" non s'è mai potuta fare questa guerra.
    Senza quei cani da caccia non si sarebbero mai individuate le prede.
    Temo che ci sia un qualche rapporto tra il fenomeno dei collaborazionisti e la "tabula rasa" dell'esercito di Sharon: adesso che i collaborazionisti stanno diminuendo, muoiono come mosche, hanno tanta paura, gli israeliani non sanno più come prendere le prede: nessuno spalma più vernici che permettono l'individuazione dell'obiettivo: è più semplice spianare tutto, colpire dove capita, ammucchiare ogni cosa: là in mezzo, nel mucchio ci dovrà pur esser la preda.
    I "venduti" non sono mai amati, c'è solo odio per chi tradisce: chi vende il proprio fratello merita il disprezzo della propria gente e il disprezzo di chi compra. Così è sempre stato, così sarà.
    Chi compra dà ai venduti qualche osso - il "listino" dell'esercito e del Mossad israeliani non permette di arricchirti - proprio come si fa con i bracchi. Ma nessuna carezza in premio: il bracco è fedele, lui sì merita carezze.
    Per illuderti di fuggire con quegli ossi dovresti vendere anche tua madre, se mai te n'è rimasta una, se non l'hai già venduta: ti dà così poco l'esercito e il Mossad israeliani. Ti inchiodano lì. A tradire, a mestare, a vendere la carne della tua carne, il sangue del tuo sangue. A sperare che presto tutto finisca e sai che non finirà mai, perché c'è solo uno stillicidio lento. Perché non può mai finire, neanche se vendessi tutti quelli che conosci e non conosci. Non scapperai mai da questa guerra e dal suo orrore. Non scapperai mai dal tuo orrore. Dalla tua fine segnata.
    Lo sai mentre ti imprigionano e ti danno pugni e calci, lo sai che sarebbe successo. Lo sai mentre ti torturano per farti ammettere, per farti rivelare circostanze, nomi, contatti, lo sai che sarebbe successo. Lo sai mentre ti trascinano sulla piazza della Mangiatoia e molte teste si girano per non vedere e molte altre accorrono per vedere, lo sai che sarebbe successo. E' questo il gioco, no?
    Vile chi ti ha comprato, pagato, usato: questo io dico. A lui vada il segno dell'infamia. L'infamia di questa guerra.
    Vile chi ti uccide: questo io dico. Che coraggio guerriero mai ci sarà nel trascinarti fuori da una cella e spararti alla nuca? Vile questo stesso "obbligo", per dare l'esempio, per serrare le fila, placare la sete di sangue dei giovani che fanno la coda per esplodersi [non menatene vanto: che popolo sorgerà mai senza quel seme, quei ventri? Non vedete che i migliori di voi si uccidono? Le passioni si uccidono, le generosità si uccidono: restano i politicanti e i profeti, deforme selezione naturale della specie].
    Vile chi gira lo sguardo altrove o chi, pur disgustato, pensa che il momento non chiede sottigliezze, "poi si vedrà".
    Vile, certo, vile anche tu che hai ucciso, indicato al cecchino il bersaglio.
    Nessuno trova mai parole di ragione per spiegare quello che fai.
    Neanch'io ho le parole giuste per te.
    Ma ho pietà di te, come di ogni vittima.

    lanfranco caminiti [[email protected]]
    Roma, 17 aprile 2002

  9. #34
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    Predefinito Re: La Biblioteca di BackStage

    Corriere della Sera; 28/2/2004
    Il Paese, le riforme e i riflessi corporativi



    La revisione del sistema giudiziario? Non va fatta «contro» i magistrati, però evitiamo i veti di parte

    Il dubbio
    Ostellino Piero


    E' proprio vero che la strada per l' inferno è lastricata di buone intenzioni. E' , senza dubbio, con le migliori intenzioni che il presidente della Camera, Pier Ferdinando Casini, dice che «la riforma (dell' ordinamento giudiziario, ndr) non si può fare contro i magistrati, si deve fare in una collaborazione continua con loro». Caro Casini, concordo con lei - non «contro» - ma, e qui sta la sostanza del mio dissenso, neppure «con». Bensì, la si deve fare nella piena autonomia della Politica e del Parlamento. Che attraverso singoli parlamentari, può instaurare utili forme di consultazione con i magistrati, senza, con questo, che se ne istituzionalizzi il rapporto. Lei, caro Casini, non è il presidente - absit iniuria verbis - della Camera delle corporazioni. Dove gli interessi organizzati delle attività professionali (corporativismo medievale), ovvero tecnici e funzionari pubblici (corporativismo tecnocratico) collaborano alla costruzione di un modello di processo decisionale politico e di società (corporativismo dirigistico), alternativo al modello conflittuale, rappresentativo e democratico. Lei è il presidente della Camera dei deputati della Repubblica democratica. Dove la funzione di rappresentanza della sovranità popolare, espressione dei singoli individui e non degli interessi organizzati, e la funzione di controllo e di elaborazione delle leggi non si concretano - come nei parlamenti medievali delle gilde corporative - nella difesa dei privilegi vigenti, ovvero si sostanziano, come nella Camera dei Fasci e delle corporazioni, nel «comunismo gerarchico» (secondo la definizione di Ugo Spirito) che trasforma ogni cittadino in un funzionario pubblico, ma hanno un carattere innovativo, cioè si manifestano nella creazione di nuove leggi. Dunque, che lo si chiami «collaborazione», come fa Casini, o «concertazione», come fa la sinistra, è realisticamente ipotizzabile che si possa cambiare il Paese attraverso, o malgrado, queste forme di corporativismo che inquinano tanto profondamente la nostra democrazia rappresentativa? Personalmente, non lo penso. Anzi, penso che il retaggio storico del fascismo e la propensione dell' attuale classe politica a venire a patti con le corporazioni - dai tassisti ai farmacisti, dai notai agli architetti, ai magistrati - siano un fattore distorsivo per la nostra democrazia e il maggiore ostacolo al cambiamento e che, perciò, riformismo e concertazione siano concettualmente e politicamente termini antitetici e contraddittori. O si è per le riforme o si è per la concertazione. Da parte cattolica, ancora forte mi pare, da un lato, la nostalgia per una società tradizionale, non antagonistica, «organica», teorizzata da D' Azeglio, Toniolo e dalla dottrina sociale della Chiesa nelle due encicliche di Leone XIII («Quod apostolici muneris» e, soprattutto, la «Rerum Novarum»); dall' altro, altrettanto rilevanti mi paiono le più recenti concessioni di Dossetti, La Pira e altri al dirigismo e allo statalismo della cultura politica ed economica del socialismo massimalista. Da parte della sinistra, non mi pare che si siano fatti grandi passi avanti nella scoperta della centralità dell' individuo in una società che voglia essere democratica e liberale. Dai giacobini - che, col Terrore, avevano collocato al centro della propria speculazione filosofica e della propria prassi di governo la volontà generale - a Marx, che ci ha messo sociologicamente la classe rivoluzionaria (il proletariato), a Lenin, che ha fornito all' utopia marxiana lo strumento (il partito dei rivoluzionari di professione) e la tecnica di governo (il centralismo democratico), infine, alla stessa sinistra democratica, ancorata al mito dell' unità, prevalente è, e rimane, il primato del concetto di collettività rispetto a quello di individuo. Ma così non si costruisce una società libera e dinamica. [email protected]

  10. #35
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    Predefinito Re: La Biblioteca di BackStage

    Passando da carta, a OCR, a FUD gli errori nel testo si sono accumulati che è un piacere. Ho lavorato più di mezz'ora per fare un OCR decente e sistemare il testo. Spero che non ci siano troppi errori. Comunque, visto che ci sono numerosi termini arabi alfabetizzati secondo il vocabolario occidentale, qualche cosa di secondario potrebbe essere stato riportato non proprio correttamente; me ne scuso. Ultima cosa: l'editoriale riportato qui sotto è lungo 20 pagine e contiene più di trentamila caratteri, ma mi pare particolarmente denso di informazioni.

    =_=_=_=_=_=_=_=_=_=_=_=_=_=_

    Editoriale "limes"; volume 1 anno 2004.


    Il Sogno di Osama


    1. COME RAGIONANO I TERRORISTI ISLAMICI? QUALI SONO I LORO OBIETTIVI GEOPOLITICI? Come pensano di raggiungerli? Per capire i guerrieri del jihad globale bisogna liberarsi di un doppio equivoco: al-Qà `ida e Osama bin Laden. Sono le parole magiche che nel corto circuito dei media occidentali, e non solo, designano il nemico. Una semplificazione a un tempo terrificante e rassicurante. Dà un marchio e un nome ai bersagli da colpire, altrimenti invisibili. Un esorcismo, non un'analisi. Proviamo invece a entrare, per quanto possibile, nella testa di chi ci ha dichiarato guerra.
    È lo stesso bin Laden a smitizzare al-Qà Ida. Conversando il 21 ottobre 2001 con il corrispondente di alJazira da Kabul, Taysi Allùni, lo sceicco sostiene: Le cose non stanno come le dipinge l'Occidente, per cui ci sarebbe un'organizzazione con un nome specifico, al-Qa 'ida. Questa denominazione è molto vecchia. È nata senza che noi lo volessimo. Il fratello Abù `Ubaida al-Banf ri creò (in Afghanistan, n.d.r.) una base per addestrare i giovani a combattere il perverso, arrogante, brutale, terroristico impero sovietico (...). Quel campo di addestramento fu chiamato "la base" (al-Qa'ida in arabo, n.d.r.)'. In senso più vasto, la 'base» era allora l Afghanistan talibano, rifugio e riferimento sicuro per l'internazionale jihadista.
    Ma il marchio al-Qà 'ida ha almeno un'altra origine e un altro significato, quello di fondazione». Un'azienda per la promozione della guerra santa che la confraternita di Osama bin Laden comincia a strutturare già verso la metà degli anni Ottanta a sostegno dei mujàhidin che dal Pakistan filtrano in Afghanistan per combattere i sovietici. «Base» o fondazione» che sia, al-Qà 'ida non assume mai forma piramidale. Osama non è l'ideatore né il capo del movimento jihadista. Ne è stato il geniale imprenditore. Tanto da aver creato un'impresa basata sulla sua immagine.
    Il movimento jihadista ha una struttura orizzontale, a rete, che aspira a investire l'intera comunità islamica (umma islamiyya) seguendo un pensiero che si vorrà rendere sempre più omogeneo e sincronizzato. Esso produce un ragionamento geopolitico tessuto sulla scala del mondo musulmano, corrispondente alla massima espansione storica dell'influenza islamica, veicolata soprattutto dalle grandi direttrici commerciali - dall'Oceano Atlantico al Mar Cinese Meridionale, dalla Nigeria al Xinjiang (Cina occidentale), dalla Russia meridionale a Zanzibar. Non esistono Stati, ma territori da conquistare alla sarì'a (legge islamica). Il progetto del grande dar al-islam (territorio dell'islam) riunificato si incardina su alcuni perni geostrategici, califfati regionali (confederazioni) governati secondo la più rigida interpretazione della sari`a.
    Il richiamo è all'islam delle origini, puro e quindi vincente (carta a colori 1). Alle giovani generazioni musulmane spetta di riscattare una fede corrotta nei secoli. Ben prima di Osama bin Laden, l'attuale radicalismo islamico attinge alla lezione e alla prassi dei Fratelli musulmani egiziani, il cui massimo ideologo è Sayyid al-Qutb (1906-1966). Il movimento nasce nel 1929 a Isma `ilia per iniziativa di Hasan al-Bannà (1906-1949). Il quale ha idee molto chiare: -Il Corano è la nostra costituzione e il Profeta è il nostro capo». Al-Bannà promuove un primo embrione di rete fondamentalista, dal Pakistan all Africa settentrionale. E determina quindi le ragioni dello scontro, sempre attuale, fra il fondamentalismo militante e i regimi nazionalisti che reggono gli Stati a maggioranza musulmana.
    I riferimenti dottrinali dei jihadisti affondano ancora più indietro nella storia dell'islam. Ci si abbevera alla fonte di Ahmad b. Hanbal (780-855), fondatore della più rigorosa tra le scuole giuridiche sunnite, e soprattutto di Ahmad b. Taymíyya (1263-132. La sua teologia verrà rielaborata nel contesto delle comunità beduine della Penisola arabica da Muhammad bi. Abd al- Wahhàb (1703-1792), originario del Nagd, tuttora roccaforte fondamentalista nell Arabia Saudita ufficialmente ispirata alla sua dottrina (wahhabismo).

    2. L'invasione sovietica dell'Afghanistan, nel 1979, catalizzerà la risposta jihadista. Il dar al-islam è minacciato dalle orde dell'ateocrazia moscovita. Tuttavia, la causa della difesa dei fratelli afghani non riesce inizialmente a mobilitare straordinarie energie nella umma. Fanno eccezione i pakistani, che considerano l'Afghanistan parte integrante del proprio territorio e possono contare sulla fucina militante di centinaia di scuole e università coraniche. Mancano però le strutture per organizzare e indirizzare il fervore degli aspiranti jihadisti pakistani. Fra coloro che si dedicano a colmare questa lacuna si segnala il palestinese Abdallah Jùsuf Azzàm (1941-1989). Azzàm insegna all'Università cairota di alAzhar, poi in Arabia Saudita, e milita con i Fratelli musulmani. Teme e disprezza la ristretta interpretazione nazionalista dei dirigenti della causa palestinese. Nel 1979 Azzàm si trasferisce in Pakistan per sostenere la lotta dei fratelli afghani, di cui diviene un riferimento importante. Nella sua interpretazione, l'obbligo del jihad afghano disegna un sistema di cerchi concentrici attorno al territorio islamico da liberare. I musulmani sono chiamati a combattere in ragione della loro prossimità all Afghanistan, mobilitando dapprima le forze più vicine fino a scatenare progressivamente, se necessario, le energie dell'intera umma. Una visione geopolitica che scaturisce dalla convinzione che ristabilire la comunità musulmana su un territorio è una necessità altrettanto vitale dell'acqua e dell'aria'. Azzàm ispira a tal fine una fatwà del capo mujàhidin Rasùl Sayyàf, che per questo diventerà un referente del regime saudita e del suo giovane emissario, Osa ma bin Laden, attivo in Afghanistan fin dagli inizi della guerra di liberazione.
    Nel teatro bellico afghano si salda l'intesa fra Pakistan e Arabia Saudita in chiave jihadista. Se il primo è più interessato alla conquista della profondità strategica, dunque al controllo dell Afghanistan come retroterra del suo sistema di sicurezza antindiano, Riyad alimenta a suon di petrodollari la resistenza all'invasore sovietico. Washington benedice la santa alleanza» destinata a minare la periferia centrasiatica dell'impero sovietico.
    Il crescente flusso di volontari e di mezzi dal Medio Oriente richiede, nel corso degli anni Ottanta, ben più dell'rcufficio servizi ai mujàhidin» gestito da Azzàm a Peshawar. Entra allora in scena Osama bin Laden. Il quale dimostra sul campo la sua abilità imprenditoriale. È lui a organizzare il capitale umano transnazionale dei volontari del jihad, costruendo un circuito bellico completo, dal reclutamento al trasporto in Afghanistan, dall'armamento all'addestramento e alla logistica (carta a colori 2). Con il supporto finanziario delle charities saudite e grazie ai suoi rapporti con i servizi segreti pakistani (Isi), che gestiscono alcuni campi di addestramento, Osama moltiplica l'efficacia della filiera che fa capo ad Azzàm.
    È proprio all'interno della costellazione dei Fratelli musulmani attivi in Afghanistan che si accende uno scontro intorno alle priorità geopolitiche del jihad. Ayman al-Zawàhiri, un pediatra egiziano oggi considerato la vera mente del jihadismo, contesta lo schema dei cerchi concentrici e predica una visione della guerra santa che non si limita a contrastare i nemici esterni al dar al-islam ma intende contemporaneamente sovvertire i regimi corrotti e apostati dello stesso mondo musulmano. Per Azzàm questo significa disperdere le forze e votarsi alla sconfitta. Meglio concentrarsi sulla creazione di un califfato afghano pakistano retto dalla sari`a, polo di irradiamento verso la Penisola arabica. Solo a partire da una solida base territoriale, fertilizzata dall'applicazione dell'islam più autentico, sarà poi possibile affrontare le grandi potenze esterne. Questo confronto teologico-strategico resta a tutt'oggi centrale nel dibattito jihadista. Tra Azzàm e al-Zawàhiri la partita si chiude il 24 novembre 1989, quando l'automobile guidata dallo sceicco palestinese viene fatta saltare in aria a Peshawar. La colpa viene opportunamente assegnata ai servizi segreti russi. Alcuni sospettano che il vero mandante fosse al-Zawàhiri. Il quale può affermarsi come ispiratore della confraternita stretta attorno a Osama bin Laden.
    Il ritiro sovietico dall'Afghanistan nel 1989, prodromo dell'autoscioglimento dell'impero, è celebrato da Osama e affiliati come un trionfo. Liquidata una superpotenza, ora è pensabile sconfiggere l'altra. Si può estenderea tutto campo la lotta ai nemici dell'islam, vicini e lontani.
    La guerra civile afghana che segue alla rotta delle truppe di Mosca porta nel 1996 alla vittoria dei taliban. Il 26 ottobre 1997 nasce l'Emirato islamico di Afghanistan, guidato dal mullah Omar. Prende sostanza l'idea del califfato centrasiatico proiettato verso il Kashmir, verso le ex province meridionali dell'impero sovietico e verso il Turkestan orientale (il Xinjiang cinese, a forte insediamento islamico).
    Ma il crollo dell'Urss aveva rimescolato le carte del gioco a tre UsaArabia Saudita-Pakistan. Washington vuole chiudere la partita per dedicarsi ai nuovi programmi geostrategici ed economici in Asia centrale. Riyad procede invece nel proselitismo wahhabita nella regione, anche per proteggervi i suoi interessi energetici. Islamabad rafforza l'alleanza con i mujahidin afghani per garantirsi una fondamentale area di influenza geostrategica e amplificare i fruttuosi circuiti del narcotraffico. Nel triangolo in movimento si inserisce Osama bin Laden. Grazie alle filiere che collegano le sue terre d'origine, nell -Iadramawt, al Belucistan pakistano,
    ai fondi delle charities manovrati dalla sua confraternita, stabilisce un'intesa privilegiata con il regime del mullah Omar.
    L’Afghanistan assurge così a perno della geostrategia jihadista. L'esperimento fondamentalista di Kabul produce persino una singolare intesa fra sciiti e sunniti. Teheran ha più di una carta da giocare nel vicino emirato afghano. Gli ayatollah sciiti coltivano i princìpi dell'esportabilità della rivoluzione islamica e del sostegno ai fratelli musulmani in pericolo. Per loro l Afghanistan è una pedina importante nello scontro con il «Grande Satana» americano. In questo scenario si situa anche l'intesa fra Teheran e Khartum, dove un altro fratello musulmano e teorico del jihad a tutto campo, Hasan al-Turàbì, sogna un califfato centrato sul Sudan, esteso dalla Nigeria all'Egitto.

    3. La guerra del Golfo che nel 1991 porta all'installazione di basi americane in Arabia Saudita, nella 'Terra dei due Luoghi Santi», sembra avvalorare le tesi di al-Zawàhiri. I regimi arabi si dimostrano irrimediabilmente collusi con gli infedeli, ai quali svendono le ricchezze petrolifere e aprono la Penisola arabica. Il governo saudita rompe formalmente con Osama bin Laden. Lo sceicco mantiene tuttavia i contatti con esponenti di punta dell'élite religiosa, finanziaria e politica del regno saudita. Mentre al-Zawàhirt si attarda in Afghanistan per seguire l'addestramento dei volontari jihadisti - ora prevalentemente asiatici, marocchini e algerini - bin Laden si trasferisce a Khartum. Di qui pianifica tre nuove direttrici di penetrazione jihadista:l’Africa orientale e subsahariana, Balcani e Caucaso. Tra il 1992 e il 1996, quando lo sceicco lascerà il Sudan per tornare nell Afghanistan ormai talibano, si amplifica e irrobustisce il network transnazionale dell'islam militante. Grazie all'influenza di al-Turàbì, Khartum si erge a pivot dell'internazionale jihadista (carta a colori 3). Un movimento inter pares - almeno a parole. A tenerlo insieme contribuisce la possibilità di attingere al capitale umano e alle organizzazioni logistiche e finanziarie dell'azienda bin Laden. La rete dei corrieri jihadisti che fa capo ad al-Zawàhiri diffonde fra gli nazionisti», membri delle cellule associate, un pensiero comune. A Khartum si delimita il campo di azione: il dar al-islam inteso nella più vasta - e vaga - accezione possibile (infatti non viene cartografato, anche per non autolimitare il raggio d'azione del jihad).
    Nella casa dell'islam è ricompresa gran parte dell'Africa orientale e subsahariana, dovunque siano penetratele avanguardie musulmane. Così la Somalia, piombata nel caos dopo la cacciata del dittatore Siad Barre (27 gennaio 1991), diventa terreno di sperimentazione per l'internazionale di bin Laden. Centinaia di mujahidin arabi, soprattutto yemeniti, penetrano in Somalia per provocare il disastroso intervento americano. L'umiliazione inferta agli Usa nel Corno d'Africa accende nei jihadisti fantasie trionfali simili a quelle suscitate dal ritiro sovietico dall’Afghanistan. Tanto da spingerli a osare l'impensabile: l'attacco al cuore dell'America (primo attentato al World Trade Center, 26 febbraio 1993). Il frammentato territorio somalo si trasforma intanto in un buco nero, retroterra ideale per traffici, addestramenti e operazioni terroristiche in Africa orientale.
    Il secondo teatro è nei Balcani. Tra il 1992 e il 1995 infuria la guerra di Bosnia. Una regione rilevante nella geopolitica islamista, per almeno tre ragioni. È abitata da una comunità musulmana tutt'altro che fondamentalista, ma radicalizzabile grazie al conflitto con i cristiani croati e serbi; è situata alle porte dell'Europa centrale; infine, è solcata dalle rotte balcaniche della droga che muovono dai campi di oppio afghani verso i mercati europei - un asset per l'azienda jihadista. Grazie alla copertura delle organizzazioni caritatevoli islamiche coordinate da bin Laden e al sostegno della Cia - che appoggia la resistenza dei musulmani bosniaci in chiave antiserba - migliaia di mujàhidin si spingono a combattere fra i monti della Bosnia. Se pure l'ex repubblica jugoslava non diventerà uno Stato islamico, base avanzata del fondamentalismo in Europa, molti jihadisti vi metteranno radici. Dalle montagne bosniache essi diffonderanno il verbo integralista e contribuiranno a promuovere reti jihadiste in diversi paesi europei, fra cui l'Italia e la Germania.
    Terzo fronte, il Caucaso. L'epicentro qui è la Cecenia in lotta per l'indipendenza da Mosca. L'obiettivo è un califfato caucasico, esteso anche ad altre repubbliche federate russe, come il Daghestan, a parti della Georgia e dell’Azerbaigian. Sauditi e pakistani vi fanno affluire mezzi e uomini, che daranno un'impronta fondamentalista alla causa nazionale cecena.
    Il Pakistan persegue una sua peculiare strategia jihadista: infiltrare lo spazio centrasiatico liberato dal collasso sovietico, portare a fondo l'attacco all'India in Kashmir. L'obiettivo è di creare un califfato pakistano allargato all Afghanistan e ai margini meridionali dell'ex Unione Sovietica. I protagonisti di questa strategia sono il primo ministro Benazir Bhutto e soprattutto i servizi segreti. La benzina che alimenta il motore del progetto è il narcotraffico.
    Il Pakistan ragiona su una scala ancora più vasta, e guarda al SudEst asiatico. Facendo leva sul Bangladesh (ex Pakistan orientale), Islamabad tenta di costruire la continuità del suo sistema di influenza anche via mare, da Karachi a Dacca a Singapore. La Jemaah Islamiyah, organizzazione jihadista attiva in Asia sudorientale, è largamente influenzata dal Pakistan.

    4. Il ruolo di Osama bin Laden come imprenditore del jihad è fondamentale per il progressivo autofinanziamento della rete (carta a colori 4). All'inizio bin Laden mette a disposizione della causa la sua fortuna personale e le relazioni con il mondo economico e finanziario della Penisola arabica che gli derivano dalle attività del suo giro familiare. Tali rapporti coinvolgono gruppi legati agli 'ulama' sauditi più oltranzisti e ai Fratelli musulmani in Kuwait, Qatar e Dubai. I finanziamenti al network jihadista vengono canalizzati da Organizzazioni non governative islamiche variamente collegate alla confraternita di bin Laden.
    Nel tempo, agli iniziali “azionisti” del Golfo si aggiungono nuovi partner, in gran parte asiatici. Il giro di liquidità finisce per far capo a una cupola di almeno 400 finanzieri, per due terzi arabi e per il resto pakistani e altri asiatici, con centinaia di società sparse per il mondo. Dall'isola Mauritius a Singapore, dalla Malaysia alle Filippine, dal Libano a Panama, da Zurigo a Hong Kong, Londra e New York, sulla holding di Osama non tramonta mai il sole. Ad essa afferiscono attività diversificate, non solo di copertura: società immobiliari in Francia, in Gran Bretagna e a Tangeri, industrie del legname (Turchia), della carta (Norvegia e Svezia), del latte e suoi derivati (Danimarca), allevamento (Albania, Somalia). Ma le joint ventures più produttive riguardano il narcotraffico. Al tempo dei taliban, la multinazionale jihadista ha gestito a tutto campo i traffici di oppio afghano. I signori della guerra che dominano i percorsi della droga in Asia centrale, nel Caucaso e nei Balcani permettono di saldare il circuito produzione-trasformazione-trasporto-comm ercializzazione dall’Afghanistan all'Europa. L'appoggio di bin Laden alla guerriglia kosovara serve poi a ridisegnare un'autonoma direttrice balcanica del narcotraffico. I proventi della droga aiutano anche a oliare i rapporti con i servizi deviati pakistani.
    Il riciclaggio del denaro sporco coinvolge innumerevoli 'lavanderie», dal Sudamerica (Ciudad del Este) agli Stati Uniti, dalla Svizzera all'Africa (Mombasa e Zanzibar), dal Medio Oriente all'Asia ex sovietica. Dopo l'11 settembre, quando scatta la caccia ai conti della rete jihadista, i gruppi fondamentalisti ricorrono soprattutto al tradizionale sistema della hawàla, che permette di trasferire il denaro attraverso un intermediario di fiducia, senza lasciare tracce. Quanto ai profitti derivanti dal narcotraffico, ci si affida al riciclaggio garantito dalle attività commerciali della diaspora musulmana, dal Libano all'Africa occidentale o a Karachi. In Africa la confraternita di Osama penetra il mercato delle pietre preziose, connesso via Libano ad Amsterdam.
    Come ogni holding che si rispetti, anche quella jihadista cura l'immagine e l'informazione. Dalle radio ai siti web, dai bollettini ai portavoce, dalle videocassette ai cybercafé, i militanti fondamentalisti usano delle libertà occidentali per propagandare la guerra santa.

    5. Il percorso strategico supportato dalla holding bin Laden viene perseguito puntualmente fino all'11 settembre 2001. Già prima dell'attacco alle Torri Gemelle e al Pentagono, l'internazionale jihadista si prepara a reggere l'urto della repressione, delegando alle strutture regionali e locali la messa a punto di piani terroristici specifici nelle rispettive aree di pertinenza (carta a colori 5). 1 collegamenti fra i diversi nodi della rete vengono assicurati da corrieri, incaricati di ravvivare il pensiero comune. Il corriere per eccellenza è il dottor al-Zawàhiri, in perpetuo apostolato militante fra Asia, Africa e Balcani.
    La rappresaglia americana esibisce stimmate imperiali. Ad attacco globale, risposta globale (carta a colori 6). E stavolta boots on the ground, stivali a terra, a mostrare che per snidare Osama l’America non teme di mettere a rischio la vita dei suoi soldati. Prima tappa, l'invasione dell Afghanistan, culminante nel bombardamento di Tora Bora e nella caccia al terrorista sulle montagne dell Hindukush. Una risposta terrificante: Bush vuole dimostrare al nemico di non essere affatto una tigre di carta. La «base» afghana è spazzata via. La perdita dell’Afghanistan come retroterra logistico e addestrativo è un grave colpo per i jihadisti.
    Gli effetti geostrategici della reazione americana seguono a cascata. Il leader pakistano Musharraf è costretto ad allinearsi ai dettati di Washington. La repressione scatenata dal regime di Islamabad punterà sulla bonifica dell'Isi (riuscita solo in parte) e sulla disarticolazione delle cellule jihadiste. L'America spinge il Pakistan all'impensabile: un abbozzo di intesa antiterrorismo con l'India. Così Musharraf può accedere all'intelligence di Delhi sui suoi stessi servizi deviati.
    In Africa settentrionale, Bush mette in piedi una peraltro improduttiva alleanza antijihadista dalla Mauritania all'Egitto. Solo poche cellule locali subiscono qualche colpo. Il grande regalo all America viene da Gheddafi. Il ra'is libico ha un vecchio conto da saldare con bin Laden, che aveva cercato di assassinarlo nel 1995 utilizzando l'opposizione fondamentalista locale. Era stato lui per primo a denunciare all'Interpol Osama bin Laden come capo terrorista (15 aprile 199. Gheddafi consegna agli americani l'archivio completo della sua intelligence sui movimenti integralisti in Africa e in Medio Oriente.
    Un'altra alleanza africana si struttura su scala pansaheliana (MaliNiger-Ciad-Nigeria) per spegnere i focolai jibadisti e contrastare i passaggi clandestini dei terroristi nell'area. Più efficace pare l'intesa promossa dagli americani nel Corno d'Africa tra Sudan e Etiopia, allargata allo Yemen e imperniata sulle basi americane nella regione. Grazie a una task force americana ad hoc, si dovrebbero tenere sotto controllo anche Eritrea, Somalia, Kenya e Tanzania. Il tentativo di sanare il buco nero» Somalia attraverso una federazione è l'espressione geopolitica di questa strategia militare. Nella quale è inscritta una componente marittima, basata sul pattugliamento del Mare Arabico e dell'Oceano Indiano occidentale. L'obiettivo è intercettare i movimenti via mare dei jihadisti e colpire il traffico di droga in partenza dalla costa del Belucistan, che nutre le cellule del fondamentalismo militante. Dal Mar Cinese alle coste africane vige un sofisticato codice obbligatorio per il controllo marittimo e portuale: qualunque imbarcazione che non risponda alle regole verrà immediatamente bloccata. Gli americani tentano così di penetrare il dedalo degli arcipelaghi del Sud-Est asiatico, che oggi sembra la base più sicura dell'internazionale jihadista. Ma mentre Washington e i suoi alleati si sforzano di sigillare l'Oceano Indiano, un altro focolaio jihadista emerge nella Thailandia meridionale, guarda caso proprio dove corre una delle principali rotte del narcotraffico, proveniente dal Triangolo d'oro.
    Un'altra alleanza regionale antiterrorismo coinvolge Russia, Cina e repubbliche ex sovietiche dell'Asia centrale: dal Caucaso al Xinjiang. Fra i pochi risultati concreti, la luce verde americana alla repressione russa nei confronti delle velleità militanti della sua minoranza islamica, a cominciare dalla Cecenia, mentre i cinesi hanno mano libera contro i musulmani uiguri del Xinjiang.
    Gli europei non seguono gli Usa nella logica della guerra globale al terrorismo. La priorità è data all'intelligence. Si tenta di ricostruire il profilo complessivo del nemico. Una sorta di identikit geostrategico. Gli investigatori europei scoprono così che l'Europa era e resta un territorio di reclutamento di jihadisti, da inviare sui vari fronti. Molti dei proselitisti vengono dall'esperienza balcanica. Sono già stati individuati importanti percorsi e circuiti terroristici. Il paradosso è che alcuni capi cellula arrestati e processati scampano al carcere perché gli americani si rifiutano di collaborare appieno con gli inquirenti europei, negando loro fonti e prove decisive.

    6. L'attacco angloamericano all'Iraq viene percepito da bin Laden e associati come annuncio dell'imminente offensiva finale contro i popoli islamici. L'occupazione della Mesopotamia si inquadra per i jihadisti ma anche per buona parte dell'opinione pubblica araba e islamica in un supercomplotto giudaico-crociato» (carta a colori 7). Per assicurare la sicurezza di Israele e l'accesso occidentale al petrolio arabo gli Stati mediorientali verrebbero smembrati, ridotti a miniterritori imbelli, funzionali ai piani di sfruttamento economico e di asservimento strategico delle potenze occidentali. Una rivoluzione geopolitica. Israele annetterebbe il Sinai e i Territori palestinesi. La Siria sarebbe spartita su base etnico-confessionale - costa settentrionale alauita, interno sunnita, staterello druso succube degli israeliani. L'Arabia Saudita finirebbe in pezzi. Washington promuoverebbe la secessione della provincia di al-Hasa, all'Est, ricca di petrolio e prevalentemente sciita, che già in passato tentò di emanciparsi dal dominio della Casa di Sa `a d. Ad essa verrebbe accorpata la zona desertica meridionale del Rub al-Khali, dotata di riserve di petrolio e gas molto consistenti. La tutela dei Luoghi Santi di Mecca e Medina sarebbe riaffidata agli hashemiti, insieme alla parte più riottosa del Nord, così da consentire agli americani di recuperare la base di Tabúk. Quanto allo Yemen, perderebbe l'Hadramawt, provincia ribelle da trasferire all'Oman.
    Nel messaggio di Osama bin Laden trasmesso il 4 gennaio 2004 da alJazìra, la «disgrazia dell'occupazione americana dell'Iraq, frutto del corrompimento dell'islam, si collega alla «catena del Male sionista-crociata», una guerra economico-religiosa» che prevede come prossima tappa l'occupazione degli Stati del Golfo. Messe le mani sui giacimenti petroliferi mediorientali gli americani potrebbero completare «la conquista del mondo».
    La minaccia dello smembramento della Penisola arabica viene enfatizzata da bin Laden per suscitare la mobilitazione generale della rete jihadista sulla base di una nuova strategia, modulata in reazione alla pressione americana su tutti i fronti. Si tratta di ridare slancio ai jihadisti facendo leva sull'obbligo supremo di proteggere i Luoghi Santi (carta a colori 8 ). Quale jihad più legittimo e globalizzante di questo? A questo scopo occorre dare concretezza al pericolo, attirando gli americani in Arabia Saudita. Lo spettro dell'implosione del regime saudita, che segnerebbe l'avvento al potere degli islamisti più radicali, potrebbe spingere Washington a un intervento preventivo. Ecco la trappola di bin Laden.
    La crisi finale della Casa di Sa `ùd e dei regimi filoamericani del Golfo sembra matura. Invoca Osama nel proclama del 4 gennaio: Le persone oneste, preoccupate di questa situazione, come gli `ulamà', i capi più seguiti dal popolo, i dignitari, i notabili e i commercianti devono unirsi e radunarsi in un luogo sicuro fuori dell'ombra di questi regimi oppressivi e formare un consiglio degli Ahl al-Hall wa al- Aqd (letteralmente, «coloro che sciolgono e legano-, cioè i capi che nella tradizione islamica possono nominare o rimuovere un governo, n.d.r.).
    Lo scenario della Penisola arabica roccaforte jihadista angoscia Washington. Osama coglie la contraddizione di fondo dell'approccio di Bush: la destabilizzazione in nome della democrazia può consegnare il Medio Oriente ai jihadist, magari attraverso regolari elezioni.
    La preparazione della suprema guerra santa in Arabia Saudita è già avanzata. Lo dimostra ad esempio l'uscita su Internet del primo numero del manuale del perfetto combattente: al-Battàr Training Camp, campo d'addestramento online targato Comitato militare dei mujahidin della penisola arabica. Un vademecum in tre parti: inquadramento geopolitico sulle ragioni della guerra; istruzioni per fabbricare armi d'ogni genere; operazioni clandestine.
    Questa guerra santa, nella logica di Osama, sarà davvero speciale. Non implicherà l'afflusso di mujàhidin esterni. Bastano i sauditi. Al contrario, la liberazione della Terra delle due Moschee dall'empio regime dei Sa'ad e dall'occupazione dei «crociati», restituirà alla Penisola arabica la sua funzione di faro dell'islam. Rovesciando la logica del jihad afghano, la propagazione per cerchi concentrici da centripeta diventa centrifuga.
    Il jihad di nuovo tipo chiama in causa l'Iran e il fondamentalismo sciita. Da sempre bin Laden ha insistito sulla necessità di ricomporre le due maggiori anime dell'islam nella lotta al «Grande Satana, esprimendo considerazione e simpatia nei confronti del popolo iraniano. Dal 1992 la confraternita di Osama ha stabilito un rapporto speciale quanto sotterraneo con una parte del regime di Teheran. Frutto di tale collaborazione, fra l'altro, l'attentato alla base americana di al-Hùbar, nel 1996, che richiedeva la complicità delle locali comunità sciite. I terroristi sciiti hanno familiarizzato i colleghi sunniti con la loro specialità: gli attentati suicidi. Alla fine degli anni Novanta, dopo il riavvicinamento con Baghdad in funzione antiamericana, Teheran aveva anche favorito i contatti fra jihadisti e regime di Saddam. Nel mirino, il regime saudita. Così le cellule terroriste hanno potuto servirsi di aree di addestramento in zone prevalentemente sciite, come quella di Nàsiriyya, e degli ex campi dei mujàhidin Khalq. Questo legame dovrebbe permettere di mobilitare gli sciiti della Penisola nel contesto del nuovo jihad.
    Osama guarda lontano. Se cadessero nella trappola arabica, gli americani sarebbero costretti a sguarnire quattro fronti: il Pakistan, l'Afghanistan, l'Iraq e l'Egitto.
    Il Pakistan è già balcanizzato. Il ridotto di Islamabad, rifugio del generale Musharraf, è circondato da avamposti jihadisti, dal Kashmir conteso al Punjab e al Belucistan, dove le madrase sfornano migliaia di giovani fondamentalisti. Il perno del jihadismo pakistano è Karachi con il suo hinterland. Musharraf, stretto fra minaccia terrorista e pressione americana, manda le sue truppe speciali a caccia di bin Laden e soci nelle aree tribali del Nord-Ovest. Peraltro, il tentativo di modificare i curricula degli studi coranici sulla base di un pacchetto confezionato da Washington si sta ritorcendo contro il regime pakistano, come già contro quello saudita. Offese ed eccitate, le gerarchie religiose, financo le più moderate, protestano contro l'intollerabile intromissione nei loro affari.
    In Aghanistan, l'alleato migliore è uno fra i più scaltri signori della guerra, Gulbuddin Hekmatyar. Il quale sta ricucendo con l'Alleanza del Nord e sfruttando i suoi rapporti con l'Isi deviato e con diversi gruppi jihadisti. Alla base della nuova alleanza, la compartecipazione al circuito della droga, dall Asia centrale ai Balcani. Il ritorno di Hekmatyar sulla scena politica afghana è tanto più incisivo quanto più palese è la precarietà dell'uomo degli americani, il «sindaco di Kabul Hamid Karzai.
    In Iraq, guerriglia e terrorismo non sono affatto domati. Anzi, per dirottare i giovani militanti fondamentalisti dal proprio territorio, il regime saudita li lascia filtrare in Mesopotamia. Quasi un paradossale anticipc dell'irradiamento jihadista che sarebbe provocato dal collasso dei Sa `ùd. L'Iraq sarebbe inoltre la naturale porta d'ingresso per l'invasione americana dell'Arabia Saudita. Risultato: per coprire il fronte saudita si sguarnirebbe quello iracheno. La crisi è resa più delicata dalla vivace reazione della Lega Araba di fronte al rischio che i sunniti iracheni vengano compressi fra uno staterello curdo al Nord e una macroregione sciita al Centro-Sud.
    Quanto all'Egitto, potrebbe rivelarsi la prima vittima della retorica d mocraticista americana: la via più breve per arrivare allo Stato totalitar islamico è quella elettorale. Sulle orme del Fis algerino, i Fratelli musulmani rivendicano oggi il diritto di partecipare alle elezioni parlamenta come vero e proprio partito politico. La richiesta è frutto di una concerto zione fra tutte le anime della Fratellanza, nelle sue varie proiezioni trar snazionali.

    7. Quanto è pericoloso questo progetto per noi italiani ed europei? carattere più o meno fondamentalista dei governi nei paesi musulmani non è in sé un problema. Non necessariamente un regime islamista perderebbe di mira i nostri interessi o minaccerebbe la nostra sicurezza. Se dotato di un notevole grado di consenso, potrebbe anzi sanare qualche «buco nero», con grande vantaggio per noi. Tipico il caso dell'Iran: con g, ayatollah trattiamo e traffichiamo normalmente. Al contrario, l'Algeri, laica dei militari non è affatto sicura.
    Il pericolo nasce dal fatto che i jihadisti sono tra noi. E puntano c strutturare pezzi di territorio europeo - soprattutto alcune periferie urbane, teatro di massicce immigrazioni musulmane - in appendici del dar alislàm in versione fondamentalista.
    Il rapporto fra noi e loro non può prescindere dalla guerra al terrorismo. Per gli americani, dopo l'11 settembre, questa guerra ha due facce. Una strettamente difensiva: impedire nuovi attacchi sul territorio americano, in grado di produrre un effetto psicologico devastante. L'altra offensiva: far leva su tale minaccia per espandere l'egemonia americana su scala globale. Ciò spinge Washington ad accentuare la pressione sui regimi strategici nel mondo islamico, presi di mira dai jihadisti. La priorità è impedire che Pakistan, Arabia Saudita ed Egitto cadano nelle mani degli emuli di Osama. Il guaio è che gli americani non hanno soft power - influenza culturale e politica, classi dirigenti davvero affidabili - nelle società musulmane. Tanto meno nei tre paesi chiave. Per surrogare tali limiti di potenza, Washington ricorre a un'invasività ingenua e controproducente, come quando pretende la riscrittura dei curricula degli studi coranici. Di questo passo Bush rischia di suscitare anziché impedire la formazione di Stati islamici radicalmente antiamericani e antioccidentali. Non siamo troppo lontani da questa prospettiva in Arabia Saudita, Egitto, Pakistan, ma anche in Iraq, in Marocco o in Indonesia.
    Molti europei hanno reagito all'11 settembre mettendo la testa nella sabbia. La speranza era che dopo la guerra in Afghanistan e la caccia ai terroristi sulle montagne dell Hindukush, tutto sarebbe tornato come prima, o quasi. Non abbiamo considerato la profondità e l'imminenza della minaccia fondamentalista in casa nostra.
    Oggi non è facile assumere un punto di vista italiano e possibilmente europeo su come sconfiggere il progetto jihadista, necessario per contrattare con gli americani una revisione della guerra al terrorismo in un senso più confacente ai nostri interessi. A chi ha i jihadista in casa e alle frontiere conviene anzitutto rigettare l'ideologia dello scontro di civiltà». Inclinando alla retorica crociata otterremmo solo di compattare le masse islamiche intorno ai mullah più estremisti e renderemmo impraticabili le nostre periferie. La strategia dell'apartheid, coltivata dalle cellule radicali e paradossalmente incentivata dall'approccio laicista «alla francese», significa rinunciare al controllo di parte del nostro territorio, accendere focolai di guerriglia urbana e favorire i terroristi islamici.
    Se invece distinguessimo tra guerra al terrorismo e confronto con i musulmani in Europa, potremmo guadagnare su entrambi i fronti. Non possiamo fingere un'integrazione che non c'è. Dobbiamo rompere l'incomunicabilità fra noi e loro per stabilire le basi di una convivenza basata sul rispetto reciproco: riconoscimento delle rispettive identità culturali e osservanza delle nostre leggi. Altrimenti non potremo impedire che alcune moschee, centri di cultura islamica e circuiti di predicazione elettronica coltivino l'odio contro di noi.
    L'Europa produrrebbe così un modello di coesistenza fra culture comunque non assimilabili. A quel punto sarebbero gli stessi islamici “europei” a diffondere nei paesi d'origine un messaggio più pacato. I jihadista perderebbero una voce decisiva per trasmettere nel dar al-islam i loro appelli alla guerra santa.
    Così aiuteremmo anche gli americani. Già adesso, diversi paesi europei, tra cui l'Italia, hanno ottenuto nella lotta contro le cellule del terrore risultati più incisivi di quelli vantati dall'Fbi o dalla Cia. Se siamo riusciti a colpire alcune reti terroristiche è perché ne abbiamo interpretato la logica e penetrato gli ambienti.
    Un giorno anche la guerra al terrorismo islamico finirà. La qualità della pace dipenderà da come avremo ottenuto la vittoria. Se il mondo musulmano si convincerà che l'Occidente ha combattuto solo per rinnovarne l'umiliazione, non potremo apprezzare a lungo il sapore del trionfo.

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    L'America impari da Lawrence d'Arabia

    Un'analisi bilanciata degli effetti che la campagna di mesopotamia ha avuto silla posizione statunitense nel mondo. L'importante è che l'occupazione dell'iraq non finisca per facilitare il gioco di Osama. Quello che gli europei non capiscono

    di John Hulsman


    LE CONSEGUENZE DELLA GUERRA ALL'Iraq sulla guerra al terrorismo sono state superiori a quanto previsto dalla maggioranza dei governanti europei e inferiori alle aspettative dei dirigenti politici americani. In primo luogo, è bene chiarire che il legame tra al-Qa'ida e la tirannia di Saddam Hussein era minimo, considerata la grande differenza delle rispettive ideologie. Al-Qà`ida punta infatti a ristabilire l'unità religiosa dell'islam attorno a un califfato (presumibilmente guidato dallo stesso bin Laden). Il baatismo, ovvero l'ideologia del regime di Saddam, aveva per contro un'ispirazione secolare, socialista e panaraba. È pertanto difficile ipotizzare convergenze effettive in grado di vincolare nel lungo periodo due entità così diverse. È vero che il nemico comune era l'America, com'è vero che ci sono stati contatti tra Ansar al-Islàm (la cellula locale irachena affiliata ad al-Qà'ida) e il regime iracheno, contatti che, tuttavia, erano piuttosto superficiali. Tant'è che la collusione tra Saddam e al-Qà`ida, oggetto di non poche illazioni, non regge all'esame rigoroso dei fatti. Il che vuoi dire che la guerra all'Iraq non ha contribuito in misura significativa alla guerra contro al
    Qà'ida.
    Esiste certamente il pericolo di un rapporto negativo tra guerra all'Iraq e guerra al terrore. Se il futuro governo iracheno sarà privo di legittimità agli occhi dei suoi cittadini, se a dominare in un governo siffatto saranno gli esuli (non dimentichiamo che Galabi era stato l'ultima volta a Baghdad negli anni Cinquanta, quando a Brooklyn c'erano i Dodgers) vorrà dire che gli Stati Uniti saranno caduti in una trappola imperiale. Un governo privo di legittimità potrebbe infatti comportare una permanenza indefinita dell'amministrazione Bush in Iraq, il che, a sua volta, potrebbe rivelarsi un formidabile mezzo di reclutamento per al-Qà'ida, in quanto non farebbe che confermare che l'America è in mano ai »crociati imperialisti». L'alternativa, cioè il ritiro americano seguito dall'inevitabile crollo di un tale governo, farebbe il gioco di al-Qà'ida, confermando il declino della potenza americana, incapace di creare una effettiva alternativa pluralistica nella regione.
    Il governatore Bremer ha di fronte il compito cruciale di operare nel rispetto della realtà locale, di trattare con le élite irachene (che siano o meno di suo gradimento) evitando d'imporre soluzioni dall'alto. Al giornalista americano che gli chiedeva perché si servisse di arabi per costruire un ponte alla bell'e meglio, e non di ingegneri inglesi di prim'ordine, Lawrence d'Arabia rispose: t meglio che siano loro a costruirlo, sia pure in modo approssimativo, che non gli inglesi in modo egregio. Sono le loro usanze, la loro cultura ad essere in gioco e qui, per noi, il tempo sta per scadere». A questa formula dovrebbe ispirarsi l'occupazione americana in Iraq, poiché in caso contrario c'è poco da dubitare che l'organizzazione di bin Laden verrà galvanizzata dal fallimento politico di Washington.
    Ciò non toglie che vi sia stata una conseguenza positiva per la guerra al terrore: basti guardare alla nuova strategia adottata da Stati canaglia come la Siria e soprattutto la Libia, in parte come effetto del successo militare americano in Iraq. Non c'è dubbio che i motivi per cui Gheddafi ha deciso di rinunciare a dotarsi di armi di distruzione di massa siano più d'uno. Come non c'è dubbio che a spingerlo in questo senso siano stati il malessere economico della Libia e il desiderio di assicurare la successione al figlio. Ma è anche vero che Gheddafi temeva di poter essere il prossimo bersaglio dell'America; sembra che le immagini di Saddam umiliato dopo l'arresto abbiano colpito oltremodo il leader libico. Se gli Stati canaglia come la Libia, già terreno fertile per i terroristi internazionali come il gruppo di Abú Nidàl e Settembre nero, cambieranno strategia, per al-Qa'ida tutto sarà più difficile.

    2. Esaminiamo ora le conseguenze della guerra all'Iraq nel Grande Medio Oriente. Anche in questo caso, i successi sono superiori a quelli che i politici franco-tedeschi sono disposti ad ammettere e di gran lunga inferiori a quelli proclamati da Bush. Certo, la politica estera del presidente americano, in virtù di analisi geopolitiche diverse rispetto al passato, ha aperto in Medio Oriente una nuova èra. Abbiamo già visto il caso della Libia che, nel timore di subire un cambio di regime in stile Iraq, nonché per motivi di successione e per la necessità di investimenti diretti americani volti a risanare una industria del petrolio ormai obsoleta, ha aderito alle pressioni americane, rinunciando al progetto di dotarsi di un deterrente nucleare. Di qui il disgelo diplomatico intervenuto tra l'Occidente e il colonnello Gheddafi. Quanto all'Iran, il fatto che sia circondato da protettorati americani in Iraq e in Afghanistan ha certamente contribuito a indurlo a scendere a patti con l'Unione Europea per quanto riguarda il suo programma nucleare, anche se l'accordo appare seriamente compromesso. La Siria, a sua volta, nel tentativo estremo di scongiurare l'isolamento, il collasso economico e le ire degli Stati Uniti insediati a Baghdad, ha cercato di aprire trattative informali sulle Alture del Golan con Israele e di distendere i suoi rapporti con gli Usa. Cambiamenti attribuibili in tutta evidenza al successo della campagna militare in Iraq e ai suoi risultati.
    Di qui ad affermare che nella regione si è verificato quel cambiamento radicale con tanta sicurezza profetizzato dai neoconservatori americani, c'è una certa differenza. Le rivoluzioni democratiche auspicate per il Medio Oriente dai neoconservatori presenti nell'amministrazione Bush non si sono viste. Ciò dovrebbe essere motivo di delusione per loro. Il tentativo di trapiantare ideali democratici in paesi stranieri e non di rado ostili trova la sua giustificazione nella nozione che la democrazia liberale è la forma di governo migliore e più giusta. Resta che nessuno ha il diritto di obbligare un individuo, e ancor meno una regione, a praticare la libertà. Ecco cosa dice in proposito Samuel Huntington: «L'intrusione dall'esterno equivale ad imperialismo o colonialismo, e tutti e due sono una violazione dei valori americani»».
    Ma inseguire il sogno di una democrazia che pervada tutto il Medio Oriente in virtù di un Iraq pluralistico (una libera confederazione che consenta l'inclusione nel governo centrale di etnie largamente autonome come quelle degli sciiti, dei curdi e dei sunniti è probabilmente lo scenario ottimale) significa ignorare determinate realtà. Per funzionare adeguatamente, un regime deve rivestire legittimità agli occhi della popolazione, tanto più se si tratta di una democrazia. Il consolidamento di una struttura democratica vitale è un processo organico, intimamente legato a cultura e tradizioni del luogo. È un processo che procede dal basso e che raramente può essere imposto con successo dall'alto.
    A ciò si aggiunga che la strategia dei neoconservatori (che peraltro non è che un elemento della politica estera complessiva dell'amministrazione Bush) ignora un piccolo e scomodo segreto al centro dei problemi in Medio Oriente. E cioè che sono precisamente i regimi dell'Egitto, del Marocco, del Pakistan, della Giordania e dell'Arabia Saudita, vale a dire regimi corrotti, antidemocratici e non rappresentativi, ad essere i più filoamericani. E che l'opposizione di gran lunga più virulenta nei confronti di Washington viene dalla piazza araba. Oggi, una espansione della democrazia in Medio Oriente non farebbe che incentivare le posizioni antiamericane. Questo è il cerchio che i neoconservatori dell'amministrazione Bush non riescono a quadrare.
    Le tesi utopistiche circolate sulle due sponde dell'Atlantico prima della guerra all'Iraq - che questa avrebbe cambiato o tutto o niente - non si sono realizzate.

    3. Quanto alle conseguenze della guerra all'Iraq per l'Unione Europea in quanto attore globale, essa ha confermato che quando si tratta di questioni politico-militari, l'imperatore è nudo. Nonostante le sue dichiarazioni roboanti, per quanto riguarda l'Iraq l'Unione Europea si è rivelata un nano politico e militare. Né è il caso di prendere per buono il ritornello di rito, quasi religioso, recitato dall'Unione di fronte alle dimostrazioni della sua impotenza; il fallimento relativo all'Iraq non indurrà Bruxelles a compiere sforzi costruttivi in direzione di una maggiore coerenza, quasi che gli interessi nazionali dei suoi Stati membri potessero essere cancellati. Dopo l'Iraq, al contrario, gli eventi in Europa hanno ulteriormente confermato il persistere della sua incoerenza strategica.
    Gli euro-utopici, convinti che gli Stati non siano attori chiave nel sistema internazionale, contrariamente a quanto imporrebbe una visione realistica, specie in materia di pace e di guerra, hanno dovuto brutalmente aprire gli occhi nel caso dell'Iraq. Basata su interessi nazionali diversi, la vera storia diplomatica della crisi irachena non riguarda l'opposizione dell'Europa agli Stati Uniti, bensì quella dell'Europa all'Europa. La maggior parte dei governi dell'Europa centrorientale, più Spagna, Italia e Gran Bretagna, si sono schierati con l'amministrazione Bush per un cambio di regime, mentre Francia e Germania si sono dichiarate contrarie all'impresa. Alla fine, le due posizioni avevano poco a che vedere con una valutazione di Saddam Hussein e della minaccia che questi avrebbe potuto o meno rappresentare. Ad essere chiamate in causa, piuttosto, erano le valutazioni europee del potere americano all'indomani dell'11 settembre. La spaccatura su tale questione fondamentale resta la chiave (sottaciuta) con cui interpretare l'iter della crisi. E, in assenza di una sua soluzione, la questione della raison d étre della Ue non potrà trovare risposta.
    I problemi insorti dopo l'insuccesso dell'Unione Europea nell'affrontare con coerenza la crisi irachena, pur numerosi e gravidi di conseguenze in termini di vanificazione dei tentativi di promuovere l'unità della stessa (si vedano la rottura del Patto di stabilità, l'anemica crescita europea, l'incapacità di finanziare adeguatamente i programmi di difesa, con l'eccezione di Gran Bretagna e Francia) non sono così macroscopici come il suo fallimento costituzionale. Accantonare scelte strategiche di ampio respiro, e procedere per gradi, in attesa che gli orientamenti diventino più chiari e l'unanimità possa essere raggiunta, non serve più gli interessi dell'Unione. Di qui alcuni interrogativi di fondo, che investono la sua stessa esistenza: quali sono gli obiettivi dell'Unione Europea? Qual è il grado d'integrazione auspicato dagli Stati membri? E ancora, l'Unione si prefigge di sfidare gli Stati Uniti o di affiancarli? Quale sarà la sua struttura politica definitiva e in quale misura questa potrà contare su una effettiva legittimità democratica? Interrogativi che esigono una risposta se Bruxelles deve difendere un certo grado di coerenza. Il mancato avvio di un processo fondato su una costituzione frutto di accordo comune prelude ad un'Unione Europea destinata ad incidere solo marginalmente sul sistema internazionale. Non dimentichiamo che a Washington sono in molti a telefonare a Blair e ad Aznar (e anche al cancelliere Schròder e al presidente Chirac), ma nessuno, e posso testimoniarlo, ha chiesto il numero di Romano Prodi. Una realtà che la crisi irachena ha portato fortunatamente alla luce.

    4. Veniamo alle conseguenze della guerra in Iraq sui rapporti interatlantici. Come ha dimostrato indiscutibilmente lo strepitoso successo del programma in dodici fasi degli Alcolisti anonimi, non si può affrontare una crisi finché non si ammette l'esistenza del problema. Nel corso degli anni Novanta, i reciproci scambi di cortesie e i vaghi discorsi su un'<<Europa libera e unita>>, nascondevano di fatto crescenti difficoltà nei rapporti tra le due sponde dell'Atlantico, e gli Stati Uniti venivano considerati da molti uomini politici europei come parte del problema anziché della
    I soluzione delle spinose questioni internazionali.
    Le divergenze politiche fra Washington e gli alleati europei in questi ultimi anni hanno riguardato, tanto per fare alcuni esempi: la <<guerra delle banane»; i cibi geneticamente modificati; l'imposta introdotta dall'American Sales Corporation (Fsc); il rifiuto dell'Europa di riformare sostanzialmente la Politica agricola comune, con tutte le sue ripercussioni sui negoziati di Doha per la liberalizzazione del commercio internazionale; la legittimità morale della pena di morte; l'embargo verso Cuba, la Siria e l'Iran; il conflitto israelo-palestinese; il ruolo delle istituzioni internazionali in campo mondiale; l'uso della forza militare da parte dei vari Stati; lo scontro ideologico fra realisti e neoconservatori americani e wilsoniani europei; gli accordi di Kyóto; l'International Chamber of Commerce (Icc); le tariffe doganali americane sull'acciaio; il sistema di Difesa missilistica nazionale e l'abrogazione, da parte degli Stati Uniti, del trattato Abm; il contenzioso interno alla Nato circa la ripartizione degli oneri e delle responsabilità; la valutazione delle minacce internazionali; l'efficacia dei piani di ricostruzione nazionale; il governo dell'economia orientato all'equità sociale.
    Quest'elenco incompleto dovrebbe dimostrare chiaramente, anche agli occhi degli analisti più compiacenti, che la deriva dei rapporti interatlantici è un problema ben più serio dei cupi risentimenti verso il predominio americano cui si dà vanamente libero sfogo, seduti comodamente in un caffè di Parigi. L'amara verità è che durante la corsa alla guerra contro l'Iraq, dai continui sondaggi condotti in Europa emergeva una maggioranza molto più preoccupata del predominio incontrastato dell'America che non di Saddam Hussein. Le tensioni fra i due continenti, già in atto ben prima che la crisi irachena facesse affiorare il problema che abbiamo di fronte, derivano almeno in parte da contrapposizioni, d'interesse e di principio, fra i popoli del Vecchio e del Nuovo Mondo.
    Ma se l'America è andata sempre più rafforzandosi negli anni Novanta, l'Europa non è riuscita ad affermarsi come una potenza compatta sul piano economico, politico e militare. La percezione del risorgere di un'egemonia americana incontrollata, a fronte di un'Europa chiusa in se stessa e sempre più emarginata, spiega non solo le divergenze fra le due sponde dell'Atlantico, ma anche il violento rigetto delle politiche americane da parte di alcuni settori dell'opinione pubblica continentale.
    In ultima analisi, queste divergenze vertono in egual misura su questioni ideologiche e di potere. I gollisti europei non pensano soltanto che la politica estera americana sia sbagliata, ma sono sempre più consapevoli dell'impossibilità di influenzarla, sia pur marginalmente. E questo mutamento psicologico spiega sia il diffondersi di questo tipo di antiamericanismo sul Vecchio Continente, sia l'acuirsi della crisi dei rapporti interatlantici. Il gollismo, tuttavia, non è l'unica posizione europea sull'America dopo la guerra contro l'Iraq. Anche fra coloro che non approvano necessariamente la politica adottata dagli Stati Uniti nei confronti di Saddam, vi è chi comincia a nutrire qualche dubbio sulla saggezza dell'atteggiamento recalcitrante di Francia e Germania. Allo stato attuale, il presidente Chirac e il cancelliere Schrbder hanno meno influenza sull'unica superpotenza rimasta di quanto ne possa esercitare il mio assistente (almeno nell'amministrazione americana c'è qualcuno che legge le sue ricerche, mentre nessuno si cura delle missive francesi e tedesche).
    È proprio questa mancanza di unità dell'Europa - che vanifica i tentativi gollisti di sfidare gli Stati Uniti - ad offrire all'America un'occasione unica. Se il Vecchio Continente è più diviso che compatto, e l'unità europea è ancora di là da venire, ecco allora che una politica estera americana a geometria variabile, basata su convergenze puntuali, caso per caso, con gli alleati europei meglio disposti, diviene senz'altro possibile. Ed è visibilmente consona agli interessi degli Stati Uniti, in quanto consentirebbe loro di affrontare la crisi dei rapporti interatlantici mantenendo l'impegno verso un continente che ben di rado sarà interamente favorevole o totalmente contrario a specifiche iniziative politiche americane in campo internazionale. Questa posizione è una saggia via di mezzo fra il disinteresse a stabilire intese con gli alleati e la preoccupazione di permettere che un'Europa perpetuamente divisa tenti di affondare le iniziative diplomatiche e militari americane.

    5. Infine, le conseguenze della guerra in Iraq sul sistema internazionale. Diversamente dalla prima e dalla seconda guerra mondiale, e dalla fine della guerra fredda, la vittoria riportata in Iraq non ha modificato l'assetto fondamentale del sistema internazionale. Prima, durante e dopo l'intervento contro Saddam Hussein, gli Stati Uniti sono rimasti l'unica anche se non illimitata superpotenza. Nonostante la crisi diplomatica che ha preceduto la guerra, la vittoria militare fulminea e i faticosi sforzi postbellici per ricostruire un paese più stabile e pluralista, la vicenda irachena non ha modificato (in termini di polarità) la fisionomia del mondo. Nella migliore delle ipotesi, essa potrebbe gettar luce sullo stato di cose preesistente.
    Come si preannuncia il terzo millennio? Samuel Huntington ha giustamente definito l'èra del dopo-guerra fredda come un periodo uni-multipolare. Ed è proprio questa caratteristica strutturale che sta creando problemi a chi cerca di descrivere il ruolo dell'America all'interno dell'ordine mondiale dopo gli eventi dell'U settembre. Gli Stati Uniti, infatti, mal si adattano al mondo multipolare dei wilsoniani europei o a quello unipolare dei neoconservatori americani. Ed è proprio questa la difficoltà che debbono oggi affrontare.
    L'America è attualmente primus inter pares, alla stregua del presidente di un consiglio di amministrazione: tutti gli indicatori di potenza, politici, militari, economici, culturali o diplomatici confermano il suo primato. Fuorviati da questo, i neoconservatori trascurano il fatto non irrilevante che il consiglio è composto anche da altri membri che debbono essere comunque corresponsabilizzati. Laddove invece i wilsoniani commettono l'errore opposto di dimenticare che gli Stati Uniti rappresentano pur sempre la presidenza. Da questo punto di vista, l'America si trova in una situazione molto simile a quella della Gran Bretagna dopo Waterloo.
    Ed è ragionevole presumere che molti princìpi ispiratori che hanno guidato con successo l'azione degli statisti inglesi nel XIX secolo siano ancor validi per l'America all'alba del XXI.

    A) Dopo la sconfitta di un aspirante rivoluzionario all'egemonia (Napoleone, nel caso degli inglesi, l'Urss, in quello degli americani) la politica estera dovrebbe tendere innanzitutto a impedire che ne emerga un altro.
    B) La potenza predominante dovrebbe impegnarsi militarmente solo per far fronte a un pericolo su scala mondiale o regionale che minacci il mantenimento di uno status quo favorevole. Non vi è alcun bisogno di una politica estera iperattiva. E alla luce del concetto di sovraesposizione imperiale, non vi è nulla di più sconsigliabile.
    C) La reale minaccia rappresentata da una potenza che aspiri a strappare all'America l'egemonia esiste solo quando ci si trova di fronte un antagonista in grado di formare una coalizione che raggruppi larga parte di entrambi i settori della massa terrestre eurasiatica. Se si vuole mantenere un equilibrio delle forze, bisogna sempre puntare a un'alleanza contro la minaccia emergente fra la potenza predominante e quelle regionali più importanti.
    D) Data la struttura multipolare del mondo, ne consegue che il criterio principale da adottare in politica estera è quello di agire <<multilateralmente quando possibile, unilateralmente quando necessario». Le coalizioni dovrebbero avere un carattere volontario ed essere limitate al perseguimento di obiettivi di politica estera specifici e concreti.
    E) In condizioni di predominio economico incontrastato, le politiche volte ad aprire ulteriormente le vie di comunicazione internazionali (libero scambio, rotte marittime agibili, repressione della pirateria e del terrorismo) non solo favoriscono direttamente la potenza egemone, ma in pari tempo hanno effetti benefici su altri paesi, i quali saranno così più solidali con essa.
    F) La potenza egemone dovrebbe trarre vantaggio dalla sua posizione culturale predominante, cooptando direttamente le élite degli altri paesi e stabilendo in tal modo le norme di un proficuo scambio culturale, basato su un comune paradigma. Se l'America imparerà le lezioni della storia, ora che la vicenda irachena ha messo in luce la reale struttura del sistema internazionale, il mondo potrebbe diventare davvero migliore.

    (traduzione di Mario Baccianini)

  12. #37

    Predefinito Re: La Biblioteca di BackStage

    Anarchia

    Anarchia è parola che viene dal greco, e significa propriamente senza governo: stato di un popolo che si regge senza autorità costituite, senza governo.
    Prima che tale ordinamento incominciasse ad essere considerato come possibile e desiderabile da tutta una categoria di pensatori, e fosse preso a scopo da un partito, che è ormai diventato uno dei più importanti fattori delle moderne lotte sociali, la parola anarchia era presa universalmente nel senso di disordine, confusione; ed è ancor oggi adoperata in tal senso dalle masse ignare e dagli avversari interessati a svisare la verità.
    Noi non entreremo in disquisizioni filologiche, poiché la questione non è filologica, ma storica. Il senso volgare della parola non misconosce il suo significato vero ed etimologico; ma è un derivato di quel senso, dovuto al pregiudizio che il governo fosse organo necessario della vita sociale. e che per conseguenza una società senza governo dovesse essere in preda al disordine, ed oscillare tra la prepotenza sfrenata degli uni e la vendetta cieca degli altri.
    L’esistenza di questo pregiudizio e la sua influenza nel senso che il pubblico ha dato alla parola anarchia, si spiega facilmente.
    L’uomo, come tutti gli esseri viventi, si adatta e si abitua alla condizione in cui vive, e trasmette per eredità le abitudini acquisite. Così, essendo nato e vissuto nei ceppi, essendo l’erede di una lunga progenie di schiavi, l’uomo, quando ha incominciato a pensare, ha creduto che la schiavitù fosse condizione essenziale della vita, e la libertà gli è sembrata cosa impossibile. In pari modo, il lavoratore, costretto per secoli e quindi abituato ad attendere il lavoro, cioè il pane, dal buon volere del padrone, ed a vedere la sua vita continuamente alla mercé di chi possiede la terra ed il capitale, ha finito col credere che sia il padrone che dà da mangiare a lui, e vi domanda ingenuamente come si potrebbe fare a vivere se non vi fossero i signori.
    Così uno, il quale fin dalla nascita avesse avuto le gambe legate e pure avesse trovato modo di camminare alla men peggio, potrebbe attribuire la sua facoltà di muoversi precisamente a quei legami, che invece non fanno che diminuire e paralizzare l’energia muscolare delle sue gambe.
    Se poi agli effetti naturali dell’abitudine s’aggiunga l’educazione data dal padrone, dal prete, dal professore, ecc., i quali sono interessati a predicare che i signori ed il governo sono necessari; se si aggiunga il giudice ed il birro, che si forzano di ridurre al silenzio chi pensasse diversamente e fosse tentato a propagare il suo pensiero, si comprenderà come abbia messo radice, nel cervello poco coltivato della massa laboriosa, il pregiudizio della utilità, della necessità del padrone e del governo.
    Figuratevi che all’uomo dalle gambe legate, che abbiamo supposto, il medico esponesse tutta una teoria e mille esempi abilmente inventati per persuaderlo che colle gambe sciolte egli non potrebbe né camminare, ne vivere; quell’uomo difenderebbe rabbiosamente i suoi legami e considererebbe nemico chi volesse spezzarglieli.
    Dunque, poiché si è creduto che il governo fosse necessario e che senza governo non si potesse avere che disordine e confusione, era naturali era logico che anarchia, che significa assenza di governo, suonasse assenza di ordine.
    Né il fatto è senza riscontro nella storia delle parole. Nelle epoche e nei paesi, in cui il popolo ha creduto necessario il governo di un solo (monarchia), la parola repubblica, che è il governo dei più, è stata usata appunto nel senso di disordine e di confusione — e questo senso si ritrova ancora vivo nella lingua popolare di quasi tutti i paesi.
    Cambiate l’opinione, convincete il pubblico che il governo non solo non è necessario, ma è estremamente dannoso, ed allora la parola anarchia, appunto perché significa assenza di governo, vorrà dire per tutti: ordine naturale, armonia dei bisogni e degl’interessi di tutti, libertà completa nella completa solidarietà.
    Hanno dunque torto coloro che dicono che gli anarchici hanno malamente scelto il loro nome, perché questo nome e erroneamente inteso dalle masse e si presta ad una falsa interpretazione. L’errore non dipende dalla parola, ma dalla cosa; e le difficoltà che incontrano gli anarchici nella propaganda non dipendono dal nome che si danno, ma dal fatto che il loro concetto urta tutti gl’inveterati pregiudizi, che il popolo ha sulla funzione del governo, o, come pur si dice, dello Stato.

    Prima di procedere è bene spiegarsi su quest’ultima parola, la quale, a parer nostro, è davvero causa di molti malintesi.
    Gli anarchici, e noi fra loro, ci siamo serviti e ci serviamo ordinariamente della parola Stato, intendendo per essa tutto quell’insieme d’istituzioni politiche, legislative, giudiziarie, militari, finanziario, ecc. per le quali sono sottratte al popolo la gerenza dei propri affari, la direzione della propria condotta, la cura della propria sicurezza, e sono affidate, ad alcuni che, o per usurpazione o per delegazione, si trovano investiti del diritto di far le leggi su tutto e per tutti e di costringere il popolo a rispettarle, servendosi all’uopo della forza di tutti.
    In questo caso la parola Stato significa governo, o, se si vuole, è l’espressione impersonale, astratta di quello stato di cose, di cui il governo e la personificazione: e quindi le espressioni abolizione dello Stato, Società senza Stato, ecc. rispondono perfettamente al concetto che gli anarchici vogliono esprimere, di distruzione di ogni ordinamento politico fondato sull’autorità, e di costituzione di una società di liberi ed uguali, fondata sull’armonia degli interessi e sul concorso volontario di tutti al compimento dei carichi sociali.
    Però la parola Stato ha molti altri significati, e fra questi alcuni che si prestano all’equivoco, massime quando essa si adopera con uomini, cui la triste posizione sociale non ha dato agio di abituarsi alle delicate distinzioni del linguaggio scientifico, o, peggio ancora, quando si adopera con avversari in mala fede che hanno interesse a confondere e non voler comprendere.
    Cosi la parola Stato si usa spesso per indicare una data società, una data collettività umana, riunita sopra un dato territorio e costituente quello che si dice un corpo morale, indipendentemente dal modo come i membri di detta collettività sono aggruppati e dai rapporti che corrono tra di loro. Si usa anche semplicemente come sinonimo di società. E’ a causa di questi significati della parola Stato, che gli avversari credono, o piuttosto fingono di credere che gli anarchici intendono abolire ogni connessione sociale, ogni lavoro collettivo e ridurre gli uomini all’isolamento, cioè ad una condizione peggio che selvaggia.
    Per Stato s’intende pure l’amministrazione suprema di un paese, il potere centrale, distinto dal potere provinciale o comunale; e per questo altri credono che gli anarchici vogliono un semplice discentramento territoriale, lasciando intatto il principio governativo, e confondono così l’anarchia col cantonalismo e col comunalismo.
    Stato significa infine condizione, modo di essere, regime di vita sociale, ecc. e perciò noi diciamo, per esempio, che bisogna cambiare lo stato economico della classe operaia, o che lo stato anarchico è il solo stato sociale fondato sul principio di solidarietà, ed altre frasi simili, che in bocca a noi, che poi in altro senso diciamo di voler abolire lo Stato, possono a prima giunta sembrare barocche o contraddittorie.
    Per dette ragioni noi crediamo che varrebbe meglio adoperare il meno possibile l’espressione abolizione dello Stato e sostituirla con l’altra più chiara e più concreta abolizione del governo.
    In ogni modo è quello che faremo nel corso di questo lavoretto.
    Abbiamo detto che l’anarchia è la società senza governo.
    Ma è possibile, è desiderabile, è prevedibile la soppressione dei governi?
    Vediamo.
    Che cosa è il governo?
    La tendenza metafisica (che è una malattia della mente, per la quale l’uomo, dopo di avere per processo logico astratto da un essere le sue qualità, subisce una specie di allucinazione che gli fa prendere l’astrazione per un essere reale), la tendenza metafisica, diciamo, che malgrado i colpi della scienza positiva, ha ancora salde radici nella mente della più parte degli uomini contemporanei, fa sì che molti concepiscono il governo come un ente morale, con certi dati attributi di ragione, di giustizia, di equità, che sono indipendenti dalle persone che stanno al governo. Per essi il governo, e più astrattamente ancora lo Stato, è il potere sociale astratto; è il rappresentante, astratto sempre, degl’interessi generali; è l’espressione del diritto di tutti, considerato come limite dei diritti di ciascuno. É questo nodo di concepire il governo è appoggiato dagl’interessati, cui preme che sia salvo il principio di autorità, e sopravviva sempre alle colpe ed agli errori di coloro che si succedono nell’esercizio del potere.
    Per noi, il governo è la collettività dei governanti; ed i governanti — re, presidenti, ministri, deputati, ecc. — sono coloro che hanno la facoltà di fare delle leggi per regolare i rapporti degli uomini tra di loro, e farle eseguire; di decretare e riscuotere l’imposta; di costringere al servizio militare; di giudicare e punire i contravventori alle leggi; di sottoporre a regole, sorvegliare e sanzionare i contratti privati; di monopolizzare certi rami della produzione e certi servizi pubblici, o, se vogliono, tutta la produzione e tutti i servizi pubblici; di promuovere o ostacolare lo scambio dei prodotti; di far la guerra o la pace coi governanti di altri paesi, di concedere o ritirare franchigie, ecc., ecc. I governanti in breve, sono coloro che hanno la facoltà, in grado più o meno elevato, di servirsi della forza sociale, cioè della forza fisica, intellettuale ed economisti di tutti, per obbligare tutti a fare quello che vogliono essi. E questa facoltà costituisce, a parer nostro, il principio governativo, il principio di autorità.
    Ma quale è la ragion d’essere del governo?
    Perché abdicare nelle mani di alcuni individui la propria libertà, la propria iniziativa? Perché dar loro questa facoltà di impadronirsi, con o contro la volontà di ciascuno, della forza di tutti e disporne a loro modo? Sono essi tanto eccezionalmente dotati da potersi, con qualche apparenza di ragione, sostituire alla massa e fare gl’interessi, tutti gl’interessi degli uomini meglio di quello che saprebbero farlo gl’interessati? Sono essi infallibili ed incorruttibili al punto da potere affidare, con un sembiante di prudenza, la sorte di ciascuno e di tutti alla loro scienza e alla loro bontà?
    E quand’anche esistessero degli uomini di una bontà e di un sapere infiniti, quand’anche, pei un’ipotesi che non si è mai verificata nella storia e che noi crediamo impossibile a verificarsi, il potere governativo fosse devoluto ai più capaci ed ai più buoni, aggiungerebbe il possesso del governo qualche cosa alla loro potenza benefica, o piuttosto la paralizzerebbe e la distruggerebbe per la necessità, in cui si trovano gli uomini che sono al governo, di occuparsi di tante cose che non intendono, e soprattutto di sciupare il meglio della loro energia per mantenersi al potere, per contentare gli amici, per tenere a freno i malcontenti e per domare i ribelli?
    E ancora, buoni o cattivi, sapienti o ignari che siano i governanti, chi è che li designa all’alta funzione? Si impongono da loro stessi per diritto di guerra, di conquista, o di rivoluzione? Ma allora che garanzia ha il pubblico che essi s’ispireranno all’utilità generale? Allora è pura questione di usurpazione, ed ai sottoposti, se malcontenti, non resta che l’appello alla forza per scuotere il giogo. Sono scelti da una data classe, o da un partito? E allora certamente trionferanno gl’interessi e le idee di quella classe o di quel partito, e la volontà e gl’interessi degli altri saranno sacrificati.
    Sono eletti a suffragio universale? Ma allora il solo criterio è il numero, che certo non è prova né di ragione, né di giustizia, né di capacità. Gli eletti sarebbero coloro che meglio sanno ingarbugliare la massa; e la minoranza, che può anche essere la metà meno uno, resterebbe sacrificata. E ciò senza contare che l’esperienza ha dimostrato l’impossibilità di trovare un meccanismo elettorale, pel quale gli eletti siano almeno i rappresentanti reali della maggioranza.
    Molte e varie sono le teorie, con cui si è tentato spiegare e giustificare l’esistenza del governo. Però tutte sono fondate sui preconcetto, confessato o no, che gli uomini abbiano interessi contrari, e che vi sia bisogno di una forza esterna, superiore, per obbligare gli uni a rispettare gl’interessi degli altri, prescrivendo ed imponendo quella regola di condotta, in cui gl’interessi in lotta siano il meglio possibile armonizzati, ed in cui ciascuno trovi il massimo di soddisfazione col minimo di sacrifici possibili.
    Se dicono i teorici dell’autoritarismo, gl’interessi, le tendenze, i desideri di un individuo sono in opposizione con quelli di un altro individuo o magari di tutta quanta la società, chi avrà il diritto e la forza di obbligare l’uno a rispettare gl’interessi dell’altro? Chi potrà impedire al singolo cittadino di violare la volontà generale? La libertà di ciascuno, essi dicono, ha per limite la libertà degli altri; ma chi stabilirà questi limiti e chi li farà rispettare? Gli antagonisti naturali degl’interessi e delle passioni creano la necessità del governo, e giustificano l’autorità, che interviene moderatrice nella lotta sociale, e segna i limiti dei diritti e dei doveri di ciascuno.
    Questa è la teoria; ma le teorie per essere giuste debbono esser basate sui fatti e spiegarli
    e si sa bene come in economia sociale troppo spesso le teorie s’inventano per giustificare i fatti, cioè per difendere il privilegio e farlo accettare tranquillamente da coloro che ne sono le vittime.
    Guardiamo piuttosto ai fatti.
    In tutto il corso della storia, così come nel l’epoca attuale, il governo, o è la dominazione brutale, violenta, arbitraria di pochi sulle masse, e uno strumento ordinato ad assicurare il dominio ed il privilegio a coloro che, per forza, o per astuzia, o per eredità, hanno accaparrato tutti i mezzi di vita, primo tra essi il suolo, e se ne servono per tenere il popolo in servitù e farlo lavorare per loro conto.
    In due modi si opprimono gli uomini: o direttamente colla forza brutale, colla violenza fisica o indirettamente sottraendo loro i mezzi di sussistenza e riducendoli così a discrezione. Il primo modo è l’origine del potere, cioè del privilegio politico; il secondo è l’origine della proprietà, cioè del privilegio economico. Si può anche sopprimere gli uomini agendo sulla loro intelligenza e sui loro sentimenti, il che costituisce il potere religioso, o universitario; ma come lo spirito non esiste se non in quanto risultante delle forze materiali, così la menzogna ed i corpi costituiti per propagarla non hanno ragion di essere se non in quanto sono la conseguenza dei privilegi politici ed economici, ed un mezzo per difenderli e consolidarli.
    Nelle società primitive, poco numerose e dai rapporti sociali poco complicati, quando una circostanza qualsiasi ha impedito che si stabilissero delle abitudini, dei costumi di solidarietà, o ha distrutti quelli che esistevano e stabilito la dominazione dell’uomo sull’uomo — i due poteri politico ed economico si trovano raccolti nelle stesse mani, che possono anche essere quelle di un uomo solo. Coloro che colla forza han vinti ed impauriti gli altri, dispongono delle persone e delle cose dei vinti, e li costringono a servirli, a lavorare per loro ed a fare in tutto la loro volontà. Essi sono nello stesso tempo proprietari, legislatori, re, giudici e carnefici.
    Ma coll’ingrandirsi delle società, col crescere dei bisogni, col complicarsi dei rapporti sociali, diventa impossibile l’esistenza prolungata di un tale dispotismo. I dominatori, e per sicurezza e per comodità e per l’impossibilità di fare altrimenti, si trovano nella necessità da una parte di appoggiarsi sopra una classe privilegiata, cioè sopra un certo numero d’individui cointeressati nel loro dominio, e dall’altra di lasciare che ciascuno provveda come può alla propria esistenza, riservandosi per loro il dominio supremo, che è il diritto di sfruttare tutti il più possibile, ed è il modo di soddisfare la vanità di comando. Così all’ombra del potere, per la sua protezione e complicità, e spesso a sua insaputa e per causa che sfuggono al suo controllo, si sviluppa la ricchezza privata, cioè la classe dei proprietari. E questi, concentrando a poco a poco nelle loro mani i mezzi di produzione, le fonti vere della vita, agricoltura, industria, scambi, ecc. finiscono col costituire un potere a sé, il quale, per la superiorità dei suoi mezzi, e la grande massa d’interessi che abbraccia, finisce sempre col sottomettere più o meno apertamente il potere politico, cioè il governo, e farne il proprio gendarme.
    Questo fenomeno si è riprodotto più volte nella storia. Ogni volta che, con l’invasione o con qualsiasi impresa militare, la violenza fisica, brutale ha preso il disopra di una società, i vincitori hanno mostrato tendenza a concentrare nelle proprie mani governo e proprietà. Però sempre, la necessità per il governo di conciliarsi la complicità di una classe potente, le esigenze della produzione, l’impossibilità di tutto sorvegliare e tutto dirigere, ristabilirono la proprietà privata, la divisione dei due poteri, e con essa la dipendenza effettiva di chi ha in mano la forza, i governi, da chi ha in mano le sorgenti stesse della forza, i proprietari. Il governante finisce sempre, fatalmente, coll’essere il gendarme del proprietario.
    Ma mai questo fenomeno si era tanto accentuato quanto nei tempi moderni. Lo sviluppo della produzione, l’estendersi immenso dei commerci, la potenza smisurata che ha acquistato il denaro, e tutti i fatti economici provocati dalla scoperta dell’America, dall’invenzione delle macchine, ecc. hanno assicurato tale supremazia alla classe capitalistica, che essa, non contenta più di disporre dell’appoggio del governo, ha voluto che il governo uscisse dal proprio seno. Un governo che traeva la sua origine dal diritto di conquista (diritto divino, dicevano i re ed i loro preti) per quanto sottoposto dalle circostanze alla classe capitalistica, conservava sempre un contegno altero e disprezzante verso i suoi antichi schiavi ora arricchiti, e aveva delle velleità d'indipendenza e di dominazione. Quel governo era bensì il difensore, il gendarme dei proprietari, ma era di quei gendarmi che si credono qualche cosa, e fanno gli arroganti colle persone che debbono scortare e difendere, quando non le svaligi ed ammazzano alla prima svolta di strada; e la classe capitalista se ne è sbarazzata o se ne va sbarazzando, con mezzi più o meno violenti, per sostituirlo con un governo scelto da essa stessa, composto di membri della sua classe, continuamente sotto il suo controllo, e specialmente organizzato per difendere la classe contro le possibili rivendicazioni dei diseredati.
    Di qui l’origine del sistema parlamentare moderno.
    Oggi il governo, composto di proprietari dì gente a loro ligia, è tutto a disposizione dei proprietari, e lo è tanto che i più ricchi spesso disdegnano di farne parte. Rotschild non ha bisogno di essere né deputato, ne ministro; gli basta tenere alla sua dipendenza deputati e ministri.
    In molti paesi il proletariato ha nominalmente una partecipazione più o meno larga all’elezione del governo. E’ una concessione che la borghesia ha fatto, sia per avvalersi del concorso popolare nella lotta contro il potere reale e l’aristocrazia, sia per distogliere il popolo dal pensare ed emanciparsi col dargli un’apparenza di sovranità.
    Però, che la borghesia lo prevedesse o no quando per la prima volta concedeva al popolo il diritto al voto, il certo è che quel diritto si è mostrato affatto irrisorio, e buono solo a consolidare il potere della borghesia col dare alla parte più energica del proletariato la speranza illusoria di arrivare al potere.
    Anche col suffragio universale, e, potremmo dire, specialmente col suffragio universale, il governo è restato il servo e il gendarme della borghesia. Che se fosse altrimenti, se il governo accennasse a divenire ostile se la democrazia potesse mai essere altro che una lustra per ingannare il popolo, la borghesia minacciata nei suoi interessi s’affretterebbe a ribellarsi, ed adopererebbe tutta la forza e tutta l’influenza che le viene dal possesso della ricchezza, per richiamare il governo alla funzione di semplice suo gendarme.
    In tutti i tempi e in tutti i luoghi qualunque sia il nome che piglia il governo, qualunque sia la sua origine e la sua organizzazione, la sua funzione essenziale è sempre quella di opprimere e sfruttare le masse, di difendere gli oppressori e gli sfruttatori; ed i suoi organi principali, caratteristici, indispensabili sono il birro e l’esattore, il soldato ed il carceriere — ai quali si aggiunge immancabilmente il mercante di menzogne, prete o professore che sia, stipendiato o protetto dal governo per asservire gli spiriti e farli docili al giogo.
    Certamente a queste funzioni primarie, a questi organi essenziali del governo altre funzioni ed altri organi si sono aggiunti lungo il corso della storia. Ammettiamo puranco che mai o quasi ha potuto esistere, in un paese alquanto civilizzato, un governo che oltre le funzioni oppressive e spogliatrici, non se ne attribuisse altre utili o indispensabili alla vita sociale. Ma ciò non infirma il fatto che il governo di sua natura oppressivo e spogliatore, e che è, per l’origine e la posizione sua, fatalmente portato a difendere e rinforzare la classe dominante; anzi lo conferma ed aggrava.
    Il governo infatti si piglia la briga di proteggere, più o meno, la vita dei cittadini contro gli attacchi diretti e brutali; riconosce e legalizza un certo numero di diritti e doveri primordiali e di usi e costumi senza di cui impossibile vivere in società; organizza e dirige certi esercizi pubblici, come posta, strade, igiene pubblica, regime delle acque, bonifiche, protezioni delle foreste, ecc., apre orfanotrofi ed ospedali, e si compiace spesso di atteggiarsi, solo in apparenza s’intende, a protettore e bene fattore dei poveri e dei deboli. Ma basta osservare come e perché esso compie queste funzioni, per riscontrarvi la prova sperimentale, pratica che tutto quello che il governo fa è sempre ispirato dallo spirito di dominazione, ed ordinato a difendere, allargare e perpetuare i privilegi propri, e quelli della classe di cui egli è il rappresentante ed il difensore.
    Un governo non può reggersi a lungo senza nascondere la sua natura dietro un pretesto di utilità generale; esso non può far rispettare la vita dei privilegiati senza darsi l’aria di volerla rispettata in tutti; non può far accettare i privilegi di alcuni senza fingersi custode del diritto di tutti.
    «La legge» dice Kropotkine, e s’intende coloro che han fatta la legge, cioè il governo « ha utilizzato i sentimenti sociali dell’uomo per far passare insieme ai precetti di morale che l’uomo accettava, degli ordini utili alla minoranza degli sfruttatori, contro di cui egli si sarebbe ribellato ».
    Un governo non può volere che la società si disfaccia, poiché allora verrebbe meno a sé ed alla classe dominante il materiale da sfruttare; né può lasciare ch’essa si regga da sé senza intromissioni ufficiali, poiché allora il popolo si accorgerebbe ben presto che il governo non serve se non a difendere i proprietari che l’affamano, e si affretterebbe a sbarazzarsi del governo e dei proprietari.
    Oggi di fronte ai reclami insistenti e minacciosi del proletariato, i governi mostrano la tendenza ad intromettersi nelle relazioni tra padroni ed operai; con ciò tentano di deviare il movimento operaio, e di impedire, con qualche ingannevole riforma, che i poveri prendano da loro stessi tutto quello che spetta loro, cioè una parte di benessere eguale a quella di cui godono gli altri.
    Bisogna inoltre tenere in conto, da una parte che i borghesi, cioè i proprietari, stanno essi stessi continuamente a farsi la guerra ed a mangiarsi tra loro; e dall’altra parte che il governo, per quanto uscito dalla borghesia e servo e protettore di essa, tende, come ogni servo ed ogni protettore, ad emanciparsi ed a dominare il protetto. Quindi quel giuoco d’altalena, quel barcamenarsi, quel concedere e ritirare, quel cercare alleati tra il popolo, contro i conservatori, e tra i conservatori contro il popolo, che è la scienza dei governanti, e che fa illusione agl’ingenui ed ai neghittosi, i quali stanno sempre ad aspettare che la salvezza venga loro dall’alto.
    Con tutto questo il governo non cambia natura. Se si fa regolatore e garante dei diritti e dei doveri di ciascuno, esso perverte il sentimento di giustizia: qualifica reato e punisce ogni atto che offende o minaccia i privilegi dei governanti e dei proprietari, e dichiara giusto, legale, il più atroce sfruttamento dei miserabili, il lento e continuo assassinio morale e materiale, perpetrato da chi possiede a danno di chi non possiede. Se si fa amministratore dei servizi pubblici, esso mira ancora e sempre agl’interessi dei governanti e dei proprietari, e non si occupa degl’interessi della massa lavoratrice se non in quanto è necessario perché la massa consenta a pagare. Se si fa istitutore, esso inceppa la propagazione del vero, e tende a preparare la mente ed il cuore dei giovani, perché diventino o tiranni implacabili, o docili schiavi, secondo la classe a cui appartengono. Tutto nelle mani del governo diventa mezzo per sfruttare, tutto diventa istituzione di polizia, utile per tenere il popolo a freno .
    E doveva esser così. Se la vita degli uomini è lotta tra uomini vi sono naturalmente vincitori e perdenti, ed il governo che è il premio della lotta, ed un mezzo per assicurare ai vincitori i risultati della vittoria e perpetuarli, non andrà certo mai in mano a coloro che avranno perduto, sia che la lotta avvenga sul terreno della forza fisica o intellettuale, sia che avvenga sul terreno economico. E coloro i quali hanno lottato per vincere, cioè per assicurarsi condizioni migliori degli altri, per conquistare privilegi e dominio, non se ne serviranno certo per difendere i diritti dei vinti, ed imporre dei limiti all’arbitrio proprio ed a quello dei loro amici e partigiani.
    Il governo, o, come dicono, lo Stato giustiziere, moderatore della lotta sociale, amministratore imparziale degl’interessi del pubblico, è una menzogna — è un’illusione, un ‘utopia, mai realizzata e mai realizzabile.
    Se davvero gl’interessi degli uomini dovessero essere contrari gli uni agli altri, se davvero la lotta fra gli uomini fosse legge necessaria delle società umane e la libertà di uno dovesse trovare un limite nella libertà degli altri, allora ciascuno cercherebbe sempre di far trionfare gli interessi propri su quelli degli altri, ciascuno tenterebbe di allargare la propria libertà a scapito della libertà altrui, e si avrebbe un governo, non già perché sia più o meno utile alla totalità dei membri di una società averne uno, ma perché i vincenti vorrebbero assicurarsi i frutti della vittoria, sottoponendo solidamente i vinti, e liberarsi dal fastidio di star continuamente sulla difesa, incaricando di difenderli degli uomini, specialmente addestrati al mestiere di gendarmi. Allora l’umanità sarebbe destinata a perire, o a dibattersi perennemente tra la tirannide dei vincitori e la ribellione dei vinti.
    Ma per fortuna più sorridente è l’avvenire dell’umanità, perché più mite è la legge che la governa.
    Questa legge è la SOLIDARIETA’.
    L’uomo ha, come proprietà fondamentali necessarie, l’istinto della propria conservazione, senza del quale nessun essere vivo potrebbe esistere, e l’istinto della conservazione della specie, senza cui nessuna specie avrebbe potuto formarsi e durare. Egli è spinto naturalmente a difendere l’esistenza ed il benessere di se stesso e della propria progenitura, contro tutto e tutti.
    Due modi trovano in natura gli esseri viventi per assicurarsi l’esistenza e renderla più piacevole: uno è la lotta individuale contro gli elementi e contro gli altri individui della stessa specie o di specie diversa; l’altro è il mutuo appoggio, la cooperazione, che può anche chiamarsi l’associazione per la lotta contro tutti i fatti naturali contrari all’esistenza, allo sviluppo ed al benessere degli associati.
    Non occorre indagare in queste pagine, e noi potremmo per ragion di spazio, quanta parte hanno rispettivamente nell’evoluzione del regno organico questi due principi della lotta e della cooperazione.
    Ci basterà constatare come nell’umanità la cooperazione (forzata o volontaria) sia diventato il solo mezzo di progresso, di perfezionamento, di sicurezza; e come la lotta - resto atavico - sia diventata completamente inetta a favorire il benessere degli individui, e produca invece il danno di tutti, e vincitori e perdenti.
    L’esperienza, accumulata e tramandata dalle generazioni successive, ha insegnato all’uomo che unendosi agli altri uomini, la sua conservazione è più assicurata ed il suo benessere ingrandito. Così, in conseguenza della stessa lotta per l’esistenza, combattuta contro la natura ambiente e contro individui della stessa sua specie, si è sviluppato negli uomini l’istinto sociale, che ha completamente trasformato le condizioni della sua esistenza. In forza di esso l’uomo potette uscire dall’animalità, salire a potenza grandissima ed elevarsi tanto al disopra degli altri animali, che i filosofi spiritualisti han creduto necessario inventare per lui un’anima immateriale ed immortale .
    Molte cause concorrenti han contribuito alla formazione di questo istinto sociale, che, partendo dalla base animale dell’istinto della conservazione della specie (che è lo istinto sociale ristretto alla famiglia naturale) è arrivato ad un grado eminente in intensità ed in estensione, e costituisce ormai il fondo stesso della natura morale dell’uomo.
    L’uomo, comunque uscito dai tipi inferiori dell’animalità, essendo debole e disarmato per la lotta individuale contro le bestie carnivore, ma avendo un cervello capace di grande sviluppo, un organo vocale atto ad esprimere con suoni diversi le varie vibrazioni cerebrali, e delle mani specialmente adatte per dar forma voluta alla materia, dovette sentire ben presto il bisogno ed i vantaggi dell’associazione; anzi si può dire che solo allora potette uscire dall’animalità quando divenne sociale, ed acquistò l’uso della parola, che è nello stesso tempo conseguenza e fattore potente della sociabilità.
    Il numero relativamente scarso della specie umana, rendendo meno aspra, meno continua,meno necessaria la lotta per l’esistenza tra uomo ed uomo, anche al difuori dell’associazione, dovette favorire molto lo sviluppo dei sentimenti di simpatia e lasciar tempo che l’utilità del mutuo appoggio si potesse scoprire ed apprezzare.
    Infine la capacità acquistata dall’uomo, grazie alle sue qualità primitive applicate in cooperazione con un numero più o meno grande di associati, di modificare l’ambiente esterno ed adattano ai propri bisogni; il moltiplicarsi dei desideri che crescono coi mezzi di soddisfarli e diventano bisogni; la divisione del lavoro che è conseguenza della sfruttamento metodico della natura a vantaggio dell’uomo, han fatto sì che la vita sociale è diventata l’ambiente necessario dell’uomo, fuori del quale esso non può vivere, e, se vive, decade allo stato bestiale.
    E, per l’affinarsi della sensibilità col moltiplicarsi dei rapporti, e per l’abitudine impressa nella specie dalla trasmissione ereditaria per migliaia di secoli, questo bisogno di vita sociale, di scambio di pensieri e di affetti tra uomo e uomo è diventato un modo di essere necessario del nostro organismo, si è trasformato in simpatia, amicizia, amore, e sussiste indipendentemente dai vantaggi materiali che l’associazione produce, tanto che per soddisfano si affrontano spesso sofferenze di ogni genere ed anche la morte.
    Insomma i vantaggi grandissimi che l’associazione apporta all’uomo; lo stato d’inferiorità fisica, affatto proporzionato alla sua superiorità intellettuale, in cui egli si trova di fronte alle bestie se resta isolato; la possibilità per l’uomo di associarsi ad un numero sempre crescente d’individui ed in rapporti sempre più intimi e complessi fino ad allargare l’associazione a tutta l’umanità ed a tutta la vita, e forse più di tutto la possibilità per l’uomo di produrre, lavorando in cooperazione cogli altri, più di quello che gli occorre per vivere, ed i sentimenti affettivi che da tutto questo derivano, han dato alla lotta per l’esistenza umana un carattere affatto diverso dalla lotta che si combatte in generale dagli altri animali.
    Quantunque oggi si sa — e le ricerche dei moderni naturalisti ce ne apportano ogni giorno nuove prove — che la cooperazione ha avuto ed ha nello sviluppo del mondo organico una parte importantissima che non sospettavano coloro che volevano giustificare, ben a sproposito del resto, il segno della borghesia colle teorie darwiniane, pure il distacco tra la lotta umana e la lotta animale resta enorme, e proporzionale alla distanza che separa l’uomo dagli altri animali.
    Gli altri animali combattono, o individualmente, o più spesso in piccoli gruppi fissi o transitori, contro tutta la natura, compresi gli altri individui della loro stessa spese. Gli stessi animali più sociali, come le formiche, le api, ecc., sono solidali tra gli individui dello stesso formicaio o dello stesso alveare, ma sono o in lotta, o indifferenti verso le altre comunità della loro specie. La lotta umana invece tende ad allargare sempre più l’associazione tra gli uomini, a solidarizzare i loro interessi, a sviluppare il sentimento di amore di ciascun uomo per tutti gli uomini, a vincere e dominare la natura esterna coll’umanità e per l’umanità. Ogni lotta diretta a conquistare dei vantaggi indipendentemente dagli altri uomini o contro di essi, contraddice alla natura sociale dell’uomo moderno e tende a respingerlo verso l’umanità.
    La solidarietà, cioè l’armonia degli interessi e dei sentimenti, il concorso di ciascuno al bene di tutti e di tutti al bene di ciascuno, è lo stato in cui solo l’uomo può esplicare la sua natura e raggiungere il massimo sviluppo ed il massimo benessere possibile. Essa è la mèta verso cui cammina l’evoluzione umana; è il principio superiore che risolve tutti gli antagonismi attuali, altrimenti insolubili, e fa sì che la libertà di ciascuno non trovi il limite, ma il complemento, anzi le condizioni necessarie di esistenza, nella libertà degli altri.
    « Nessun individuo », diceva Michele Bakounine, « può riconoscere la sua propria umanità né per conseguenza realizzarla nella sua vita, se non riconoscendola negli altri e cooperando alla sua realizzazione per gli altri. Nessun uomo può emanciparsi altrimenti che emancipando con lui tutti gli uomini che lo circondano. La mia libertà è la libertà di tutti, poiché io non sono realmente libero, libero non solo nell’idea ma nel fatto, se non quando la mia libertà e il mio diritto trovano la loro conferma e la loro sanzione nella libertà e nel diritto di tutti gli uomini miei uguali ».
    « M’importa molto ciò che sono tutti gli altri uomini, perché, per quanto indipendente io sembri o mi creda per la mia posizione sociale, fossi pure Papa, Czar, Imperatore o anche primo ministro, io sono incessantemente il prodotto di ciò che sono gli ultimi tra loro: se essi sono ignoranti, miserabili, schiavi, la mia esistenza è determinata dalla loro schiavitù. Io, uomo illuminato od intelligente, per esempio, sono — se è il caso — stupido per la loro stupidaggine; io coraggioso sono schiavo per la loro schiavitù; io ricco tremo dinanzi alla loro miseria; io privilegiato impallidisco innanzi alla loro giustizia. Io che voglio esser libero, non lo posso, perché intorno a me tutti gli uomini non vogliono ancora esser liberi, e non volendolo, divengono contro di me degli strumenti di oppressione» .
    La solidarietà dunque è la condizione nella quale l’uomo raggiunge il massimo grado di sicurezza e di benessere; e perciò l’egoismo stesso, cioè la considerazione esclusiva del proprio interesse spinge l’uomo e le società umane verso la solidarietà; o per meglio dire, egoismo ed altruismo (considerazione degli interessi altrui) si confondono in un solo sentimento, come si confondono in uno l’interesse dell’individuo e l’interesse della società.
    Sennonché l’uomo non poteva d’un tratto solo passare dall’animalità all’umanità, dalla lotta brutale tra uomo e uomo, alla lotta solidale di tutti gli uomini affratellati contro la natura esteriore.
    Guidato dai vantaggi che offre l’associazione e la conseguente divisione del lavoro, l’uomo evolveva verso la solidarietà; ma la sua evoluzione incontrò un ostacolo che l’ha deviata e la devia ancora dalla mèta. L’uomo scoprì che poteva, almeno fino ad un certo punto e per i bisogni materiali e primitivi che allora solamente sentiva, realizzare i vantaggi della cooperazione sottomettendo a sé gli altri uomini invece di associarseli; e, siccome erano ancora potenti in lui gl’istinti feroci ed antisociali ereditati dalle bestie progenitrici, egli costrinse i più deboli a lavorare per lui, preferendo la dominazione alla associazione . Forse anche, nella più parte dei casi, fu sfruttando i vinti che l’uomo imparò per la prima volta a comprendere i benefizi dell’associazione, l’utile che l’uomo poteva ricavare dall’appoggio dell’uomo.
    Così la constatazione dell’utilità della cooperazione, che doveva condurre al trionfo della solidarietà in tutti i rapporti umani, mise capo invece alla proprietà individuale ed al governo, cioè allo sfruttamento del lavoro di tutti da parte di pochi privilegiati.
    Era sempre l’associazione, la cooperazione, fuori della quale non v’è più vita umana possibile; ma era un modo di cooperazione, imposto e regolato da pochi nel loro interesse particolare.
    Da questo fatto e derivata la grande contraddizione, che riempie la storia degli uomini, tra la tendenza ad associarsi ed affratellarsi per la conquista e l’adattamento del mondo esteriore ai bisogni dell’uomo, e per la soddisfazione dei sentimenti affettivi — e la tendenza a dividersi in tante unità separate ed ostili quanti sono gli aggruppamenti determinati da condizioni geografiche, quante sono le posizioni economiche, quanti sono gli uomini che sono riusciti a conquistare un vantaggio e vogliono assicurarselo ed aumentarlo, quanti sono quelli che sperano conquistare un privilegio, quanti sono quelli che soffrono di un’ingiustizia o di un privilegio e si ribellano e vogliono redimersi.
    Il principio del ciascun per sé, che è la guerra di tutti contro tutti, è venuto nel corso della storia a complicare, a deviare, a paralizzare la guerra di tutti contro la natura per il maggior benessere dell’umanità, che solo può avere esito completo fondandosi sul principio tutti per uno e uno per tutti.
    Immensi sono stati i mali che ha sofferto l’umanità per questo intromettersi della dominazione e dello sfruttamento in mezzo all’associazione umana. Ma malgrado l’oppressione atroce cui sono state sottomesse le masse, malgrado la miseria, malgrado i vizi, i delitti, la degradazione che la miseria e la schiavitù producono negli schiavi e nei padroni, malgrado gli odii accumulati, malgrado le guerre sterminatrici, malgrado l’antagonismo degl’interessi artificialmente creato, l’istinto sociale ha sopravvissuto e si è sviluppato. La cooperazione restando sempre la condizione necessaria perché l’uomo potesse lottare con successo contro la natura esteriore, restò pure come causa permanente dell’avvicinamento degli uomini e dello svilupparsi del sentimento di simpatia tra gli uomini. L’oppressione stessa delle masse ha affratellati gli oppressi fra loro; ed è stato solo in forza della solidarietà più o meno cosciente e più o meno estesa, che esisteva fra gli oppressi, che questi han potuto sopportare l’oppressione e che l’umanità a resistito alla cause di morte che si sono insinuate in mezzo ad essa.
    Oggi lo sviluppo immenso che ha preso la produzione, il crescere di quei bisogni che non possono soddisfarsi se non col concorso di gran numero di uomini di tutti i paesi, i mezzi di comunicazione, l’abitudine dei viaggi, la scienza, la letteratura, i commerci, le guerre stesse, hanno stretto e vanno sempre più stringendo l’umanità in un corpo solo, le cui parti, solidali tra loro, possono sola trovare pienezza e libertà di sviluppo nella salute delle altre parti e del tutto.
    L’abitante di Napoli è tanto interessato alla bonifica dei fondaci della sua città, quanto al miglioramento delle condizioni igieniche delle popolazioni delle sponde del Gange, di dove gli viene il colera. Il benessere, la libertà, l’avvenire di un montanaro perduto fra le gole degli Appennini, non solo dipendono dallo stato di benessere o di miseria in cui si trovano gli abitanti del suo villaggio, non solo dipendono dalle condizioni generali del popolo italiano, ma dipendono pure dallo stato dei lavoratori in America o in Australia, dalla scoperta che fa uno scienziato svedese, dalle condizioni morali e materiali dei Cinesi, dalla guerra o dalla pace che si fa in Africa, da tutte insomma le circostanze grandi e piccine che in punto qualunque del mondo agiscono sopra un essere umano.
    Nelle condizioni attuali della società, questa vasta solidarietà che unisce insieme tutti gli uomini è in gran parte incosciente, poiché sorge spontanea dall’attrito degl’interessi particolari, mentre gli uomini si preoccupano punto o poco degl’interessi generali. E questa è la prova più evidente che la solidarietà è legge naturale dell’umanità, che si esplica e s’impone malgrado tutti gli ostacol,. malgrado tutti gli antagonismi creati dall’attuale costituzione sociale.
    D’altra parte le masse oppresse, che non si sono mai completamente rassegnate all’oppressione ed alla miseria, e che oggi più che mai si mostrano assetate di giustizia, di libertà, di benessere, incominciano a capire che esse non potranno emanciparsi se non mediante l’unione, la solidarietà con tutti gli oppressi, con tutti gli sfruttati del mondo tutto. Ed esse capiscono pure che condizione imprescindibile della loro emancipazione è il possesso dei mezzi di produzione, del suolo degli strumenti di lavoro, l’osservazione dei fenomeni sociali, dimostra che questa abolizione sarebbe di utile immenso agli stessi privilegiati, se solo volessero rinunziare al loro spirito di dominazione concorrere con tutti al lavoro per il benessere comune.
    Ora dunque, se un giorno le masse oppresse si rifiuteranno di lavorare per gli altri, se leveranno ai proprietari la terra e gli strumenti di lavoro vorranno adoperarli per conto e profitto proprio cioè di tutti, se esse non vorranno più subire dominazione né di forza brutale, né di privilegio economico, se la fratellanza fra i popoli, il sentimento di solidarietà umana rafforzato dalla comunanza d’interessi avrà messo fine alle guerre ed alle conquiste quale ragione di esistere avrebbe più un governo?
    Abolita la proprietà individuale, il governo che è il suo difensore, deve sparire. Se sopravvivesse esso tenderebbe continuamente a ricostituire, sotto una forma qualsiasi, una classe privilegiata ed oppressiva.
    E l’abolizione del governo, non significa, non può significare il disfacimento della connessione sociale. Bene al contrario, la cooperazione che oggi è forzata, che oggi è diretta al vantaggio di pochi, sarebbe libera, volontaria e diretta al vantaggio di tutti; e perciò diventerebbe tanto più intensa ed efficace.
    L’istinto sociale, il sentimento di solidarietà sì svilupperebbe al più alto grado: e ciascun uomo farebbe tutto quello che può per il bene degli altri uomini, tanto per soddisfare ai suoi sentimenti affettivi, quanto per beninteso interesse.
    Dal libero concorso di tutti, mediante l’aggrupparsi spontaneo degli uomini secondo i loro bisogni e le loro simpatie, dal basso all’alto, dal semplice al composto, partendo dagl’interessi più immediati per arrivare a quelli più lontani e più generali, sorgerebbe un’organizzazione sociale, che avrebbe per scopo il maggior benessere e la maggiore libertà di tutti, abbraccerebbe tutta l’umanità in fraterna comunanza e si modificherebbe e migliorerebbe a seconda del modificarsi delle circostanze e degli insegnamenti dell’esperienza.
    Questa società di liberi, questa società di amici è l’Anarchia.
    Noi abbiamo finora considerato il governo quale è, quale deve necessariamente essere, in una società fondata sul privilegio, sullo sfruttamento e l’oppressione dell’uomo da parte dell’uomo, sull’antagonismo degl’interessi, sulla lotta intrasociale, in una parola sulla proprietà individuale.
    Abbiamo visto come lo stato di lotta, lungi dall’essere una condizione necessaria della vita dell’umanità, è contrario agli interessi degli individui e della specie umana; abbiamo visto come la cooperazione, la solidarietà è legge del progresso umano, ed abbiamo conchiuso che abolendo la proprietà individuale ed ogni predominio, il governo perde ogni ragione di essere e si deve abolire.
    « Però (ci si potrebbe dire) cambiato il principio su cui è fondata oggi l’organizzazione sociale, sostituita la solidarietà alla lotta, la proprietà comune alla proprietà individuale, il governo cambierebbe natura ed invece di essere il protettore ed il rappresentate degli interessi di una classe, sarebbe, poiché classi non ve ne sono più, il rappresentante degli interessi di tutta la società. Esso avrebbe missione di assicurare e regolare nell’interesse di tutti, la cooperazione sociale, compiere i servizi pubblici d’importanza generale, difendere la società dai possibili tentativi diretti a ristabilire il privilegio, e prevenire e reprimere gli attentati, da chiunque commessi, contro la vita, il benessere e la libertà di ciascuno.
    Vi sono nella società delle funzioni troppo necessarie, che richiedono troppa costanza, troppa regolarità, per poter essere lasciati alla libera volontà degl’individui, senza pericolo di vedere andare ogni cosa a soqquadro.
    Chi organizzerebbe e chi assicurerebbe, se non vi fosse un governo, i servizi di alimentazione,di distribuzione, d’igiene. di posta, telegrafo, ferrovie, ecc? Chi curerebbe l’istruzione popolare? Chi intraprenderebbe quei grandi lavori di esplorazioni, di bonifiche, d’intraprese scientifiche, che trasformano la faccia della terra, e centuplicano le forze dell’uomo?
    Chi veglierebbe alla conservazione ed all’aumento del capitale sociale per tramandarlo arricchito e migliorato all’umanità avvenire?
    Chi impedirebbe la devastazione delle foreste, lo sfruttamento irrazionale e quindi l’impoverimento del suolo?
    Chi avrebbe mandato di prevenire e reprimere i delitti, cioè gli atti antisociali?
    E quelli che, mancando alla legge di solidarietà, non volessero lavorare? E quelli che spargessero l’infezione in un paese, rifiutandosi di sottomettersi alle regole igieniche riconosciute utili dal, la scienza? E se vi fossero di quelli che, matti o no, volessero bruciare il raccolto, o violare i bambini, o abusare sui più deboli della loro forza fisica?
    Distruggere la proprietà individuale e abolire i governi esistenti, senza poi ricostruire un governo che organizzasse la vita collettiva ed assicurasse la solidarietà sociale, non sarebbe abolire i privilegi e portare sul mondo la pace ed il benessere; ma sarebbe distruggere ogni vincolo sociale, respingere l’umanità verso la barbarie, verso il regno del ciascuno per sè, che è il trionfo della forza brutale prima, del privilegio economico dopo ».
    Queste sono le obbiezioni che ci oppongono gli autoritari. anche quando sono socialisti, cioè quando vogliono abolire la proprietà individuale ed il governo di classe che ne deriva.
    Rispondiamo.
    Prima di tutto non è vero che cambiate le condizioni sociali, il governo cambierebbe di natura e di funzione. Organo e funzione sono termini inseparabili. Levate ad un organo la sua funzione, e, o l’organo muore o la funzione si ricostituisce. Mettere un esercito in un paese in cui non ci siano nè ragioni, nè paure di guerra interna od esterna ed esso provocherà la guerra , o, se non ci riesce, si disfarà. Una polizia dove non ci siano delitti da scoprire e delinquenti da arrestare, provocherà, inventerà i delitti ed i delinquenti, o cesserà di esistere.
    In Francia esiste da secoli un’istituzione, oggi aggregata all’amministrazione delle foreste, la lupatteria (louveterie) i cui ufficiali hanno incarico di provvedere alla distruzione dei lupi ed altre bestie nocive. Nessuno sarà meravigliato apprendendo che è appunto a causa di questa istituzione che i lupi esistono ancora in Francia, e nelle stagioni rigorose vi fanno strage. Il pubblico si occupa poco di lupi, perché vi sono i lupattieri che vi debbono pensare; ed i lupattieri fanno sì la caccia,ma la fanno intelligentemente, risparmiando i nidi e dando tempo alla riproduzione, per non rischiare di distruggere una specie così interessante. I contadini francesi infatti hanno poca fiducia in questi lupattieri, e li considerano piuttosto come i conservatori dei lupi. E si capisce: che farebbero i « luogotenenti di lupatteria » se non vi fossero più lupi?.
    Un governo, cioè un numero di persone incaricato di far le leggi ed abilitato a servizi della forza di tutti per obbligare ciascuno a rispettarle, costituisce già una classe privilegiata e separata dal popolo. Esso cercherà istintivamente, come ogni corpo costituito, di allargare le sue attribuzioni di sottrarsi al controllo del popolo, di imporre le sue tendenze e di far predominare i suoi interessi particolari. Messo in una posizione privilegiata, il governo già si trova in antagonismo colla massa, dalla cui forza dispone.
    Del resto un governo anche volendo, non potrebbe contentar tutti, se pur riuscisse a contentar qualcuno. Dovrebbe difendersi contro i malcontenti, e quindi dovrebbe cointeressare una parte del popolo per esserne appoggiato. E così ricomincerebbe la vecchia storia della classe privilegiata che si costituisce colla complicità del governo, e che, se questa volta non s’impossesserebbe del suolo, accapparrerebbe certo delle posizioni di favore, appositamente create, e non sarebbe meno oppressiva né meno sfruttatrice della classe capitalistica.
    I governanti, abituati ai comando, non vorrebbero ritornare nella folla, e se non potessero conservare il potere nelle loro mani, si assicurerebbero almeno delle posizioni privilegiate per quando dovranno passarlo in mano di altri. Userebbero di tutti i mezzi che ha il potere, per far eleggere a loro successori gli amici loro, ed esserne poscia a loro volta appoggiati e protetti. E così il governo passerebbe e ripasserebbe nelle stesse mani, e la democrazia, che è il preteso governo di tutti, finirebbe, come sempre, in oligarchia, che è il governo di pochi, il governo di una classe. E che oligarchia strapotente, oppressiva, assorbente sarebbe mai quella che avrebbe a su carico, cioè a sua disposizione, tutto il capitale sociale, tutti i servizi pubblici, dall’alimentazioni alla fabbricazione dei fiammiferi, dalle università ai teatri d’operette!
    Ma, supponiamo pure che il governo non costituisce già da sé una classe privilegiata, e potesse vivere senza creare intorno a se una nuova classe di privilegiati e restando il rappresentante, il servo, se si vuole, di tutta la società. A che servirebbe esso mai? In che cosa ed in che modo aumenterebbe esso la forza, l’intelligenza, lo spirito di solidarietà, la cura del benessere diluiti e dell’umanità futura, che in un dato momento si trovano esistenti in una data società?
    E’ sempre la vecchia storia dell’uomo legato, che essendo riuscito a vivere malgrado i ceppi, erede di vivere a causa dei ceppi. Noi siamo abituati a vivere sotto di un governo, che accaparra tutte quelle forze, quelle intelligenze, quelle volontà, che può dirigere ai suoi fini; ostacola, paralizza, sopprime quelle che gli sono inutili od ostili — e c’immaginiamo che tutto ciò che si fa nella società si fa per opera del governo, e che senza governo non ci sarebbe più nella società ne forza, nè intelligenza, nè buona volontà. Così (lo abbiamo già detto) il proprietario che s’è impossessato della terra la fa coltivare per il suo profitto particolare. lasciando al lavoratore lo stretto necessario perché esso possa e voglia continuare a lavorare — ed il lavoratore asservito pensa che non potrebbe vivere senza il padrone, come se questi creasse la terra e le forze della natura.
    Che cosa può aggiungere di suo il governo alle forze immorali e materiali che esistono in una società? Sarebbe esso per caso come il Dio della Bibbia che crea dal nulla?
    Siccome nulla si crea nel mondo che suole chiamarsi materiale, così nulla si crea in questa forma più complicata del mondo materiale che è il mondo sociale. E perciò i governanti non possono disporre che delle forze che esistono nella Società meno quelle grandissime che l’azione governativa paralizza e distrugge, e meno le forze ribelli, e meno tutto ciò che si consuma negli attriti, necessariamente grandissimi in un meccanismo così artifizioso. Se qualche cosa ci mettono del loro, è come uomini e non come governanti che possono farlo. E di quelle forze, materiali e morali, che restano a disposizione del governo, solo una parte piccolissima riceve una destinazione realmente utile alla società. Il resto, o è consumato in attività repressiva per tenere a freno le forze ribelli, o è altrimenti stornato dallo scopo di utilità generale ed adoperato a profitto di pochi ed a danno della maggioranza degli uomini.
    Si è fatto un gran discorrere sulla parte che hanno rispettivamente, nella vita e nel progresso delle società umane, l’iniziativa individuale e l’azione sociale; e si è riuscito, coi soliti artifizii del linguaggio metafisico, ad imbrogliare talmente le cose, che poi sono apparsi audaci coloro i quali hanno affermato che tutto si regge e cammina nel mondo umano per opera dell’iniziativa individuale. In realtà è questa una verità di senso comune, che appare evidente non appena si cerca di rendersi conto delle cose che le parole significano. L’essere reale è l’uomo, è l’individuo: — la società o collettività — e lo Stato o governo che pretende rappresentarla — se non sono vuote astrazioni, non possono essere che aggregati d’individui. Ed è nell’organismo di ciascun individuo che hanno necessariamente origine tutti i pensieri e tutti gli atti umani, i quali, da individuali, diventano pensieri ed atti collettivi quando sono o si fanno comuni a molti individui. L’azione sociale, dunque, non e nè la negazione, nè il complemento dell’iniziativa individuale, ma è la risultante delle iniziative, dei pensieri e delle azioni di tutti gli individui che compongono la società: — risultante che, posta ogni altra cosa eguale, è più o meno grande secondo che le singole forze concorrono allo stesso scopo, o sono divergenti od opposte. E se invece, come fanno gli autoritarii, per azione sociale s’intende l’azione governativa, allora essa è ancora la risultante di forze individuali, ma solo di quegl’individui che fanno parte del governo, o che per la loro posizione possono influire sulla condotta del governo.
    Quindi, nella contesa secolare tra libertà ed autorità, o, in altri termini, tra socialismo e stato di classe, non è questione veramente di alterare i rapporti tra la società e l’individuo; non è questione di aumentare l’indipendenza individuale a scapito dell’ingerenza sociale, o questa a scapito di quella. Ma si tratta piuttosto di impedire che alcuni individui possano opprimere altri; di dare a tutti gli individui gli stessi diritti e gli stessi mezzi di azione; e di sostituire l’iniziativa di pochi, che produce necessariamente l’oppressione di tutti gli altri. Si tratta insomma, sempre e poi sempre, di distruggere la dominazione e lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo, in modo che tutti siano interessati al benessere comune, e le forze individuali, invece di esser soppresse o di combattersi ed elidersi a vicenda, trovino la possibilità di uno sviluppo completo, e si associno insieme per il maggior vantaggio di tutti.
    Da quanto abbiamo detto risulta che l’esistenza di un governo, anche se fosse, per seguire la nostra ipotesi, il governo ideale dei socialisti autoritarii, lungi dal produrre un aumento delle forze produttive, organizzatrici e protettrici della società, le diminuirebbe immensamente, restringendo l’iniziativa a pochi, e dando a questi pochi il diritto di tutto fare, senza potere, naturalmente, dar loro il dono di tutto sapere.
    Infatti, se levate nella legislazione e nell’opera tutta di un governo tutto ciò che è inteso a difendere i privilegiati e che rappresenta la volontà dei privilegiati stessi, che cosa vi resta che non sia
    il risultato dell’attività di tutti? « Lo stato », diceva Sismondi, « è sempre un potere conservatore che autentica, regolarizza, organizza le conquiste del progresso » (e la storia aggiunge che le dirige a profitto e della classe privilegiata) « non mai le inaugura. Esse hanno sempre origine dal basso, nascono dal fondo della società, dal pensiero individuale, che poi si divulga, diventa opinione, maggioranza, ma deve sempre incontrare sui suoi passi e combattere nei poteri costituiti la tradizione, la consuetudine, il privilegio e l’errore. ».
    Del resto per comprendere come una società possa vivere senza governo, basta osservare un pò a fondo nella stessa società attuale, e si vedrà come in realtà la più gran parte, la parte essenziale della vita sociale, si compie anche oggi al di fuori dell’intervento governativo, e come il governo non interviene che per sfruttare le masse, per difendere i privilegiati, e per il resto viene a sanzionare, ben inutilmente, tutto quello che s’è fatto senza di lui, e spesso, malgrado e contro di lui. Gli uomini lavorano, scambiano, studiano, viaggiano, seguono come l’intendono le regole della morale e dell’igiene, profittano dei progressi della scienza e dell’arte, hanno rapporti infiniti tra di loro, senza che sentano bisogno di qualcuno che imponga loro il modo di condursi. Anzi sono appunto quelle cose in cui il governo non ha ingerenza, che camminano meglio, che dan luogo a minori contestazioni e si accomodano, per la volontà di tutti, in modo che tutti ci trovino utile e piacere.
    Nè il governo è più necessario per le grandi imprese e per quei servizi pubblici che richiedono il concorso regolare di molta gente di paesi e condizioni differenti. Mille di queste imprese sono oggi stesso, l’opera di associazioni di privati, liberamente costituite, e sono, a confessione di tutti, quelle che meglio riescono. Nè parliamo delle associazioni di capitalisti, organizzate a scopo di sfruttamento, quantunque esse pure dimostrino la possibilità e la potenza della libera associazione, e come essa può estendersi fino ad abbracciare gente di tutti i paesi ed interessi immensi e svariatissimi. Ma parliamo a preferenza di quelle associazioni che, ispirate dall’amore per propri simili, o dalla passione della scienza, o anche semplicemente dal desiderio di divertirsi e di farsi applaudi re, meglio rappresentano gli aggruppamenti quali saranno in una società in cui, abolita la proprietà individuale e la lotta intestina fra gli uomini, ciascuno troverà il suo interesse nell’interesse di tutti, e la sua migliore soddisfazione nel far il bene, e piacere agli altri. Le società e i congressi scientifici, l’associazione internazionale di salvataggio, l’associazione della Croce Rossa, le Società geografiche, le organizzazioni operaie, i corpi di volontari che accorrono al soccorso in tutte le grandi calamità pubbliche, sono esempi, tra mille, di questa potenza dello spirito di associazione che si manifesta sempre quando si tratta di un bisogno o di una passione veramente sentita, e non manchino i mezzi che se l’associazione volontaria non copre il mondo e non abbraccia tutti i rami dell’attività materiale e morale, si è a causa degli ostacoli messi dai governi, degli antagonismi creati dalla proprietà privata, e dell’impotenza e dell’avvilimento, in cui l’accaparramento della ricchezza da parte di pochi riduce la gran maggioranza degli uomini.
    Il governo s’incarica, per esempio, del servizio delle poste, delle ferrovie, ecc. Ma in che cosa aiuta realmente questi servizi? Quando il popolo, messo in grado di poterne godere, sente il bisogno di questi servizi, pensa ad organizzarli, e gli uomini tecnici non hanno bisogno di un brevetto governativo per mettersi al lavoro. E più il bisogno è generato ed urgente, più abbonderanno i volontari per compierlo. Se il popolo avesse facoltà di pensare alla produzione ed alla alimentazione, oh! non temete ch’egli si lasci morire di fame aspettando che un governo abbia fatte delle leggi in proposito. Se governo vi dovesse essere, esso sarebbe ancora costretto di aspettare che il popolo abbia prima tutto organizzato, per poi venire con delle leggi a sanzionare ed a sfruttare quello che era già fatto. E’ dimostrato che l’interesse privato è il gran movente di tutte le attività: ebbene, quando l’interesse di tutti sarà l’interesse di ciascuno (e lo sarà necessariamente se non esiste la proprietà individuale) allora tutti agiranno, e se le cose si fanno adesso che interessano a pochi, tanto più e tanto meno si faranno quando interesseranno a tutti. E si capisce a stento come vi sia della gente che crede che l’esecuzione ed il regolare andamento dei servizi pubblici indispensabili alla vita sociale, sieno meglio assicurati se fatti per gli ordini di un governo, anziché direttamente dai lavoratori, che, o per propria elezione, o per accordi cogli altri, han prescelto quel genere di lavoro e lo eseguiscono sotto il controllo immediato di tutti gl’interessati.
    Certamente in ogni grande lavoro collettivo vè bisogno di divisione di lavoro, di direzione tecnica, di amministrazione, ecc. Ma malamente gli autoritari giocano sulle parole per dedurre la ragion di essere del governo dalla necessità, ben reale, di organizzare il lavoro. Il governo, è bene ripeterlo, è l’insieme degl’individui che hanno avuto o si son preso il diritto ed i mezzi di far le leggi e di forzare la gente ad ubbidire; l’amministratore, l’ingegnere, ecc., sono invece uomini che ricevono o si assumono l’incarico di fare un dato lavoro e lo fanno. Governo significa delegazione di potere, cioè abdicazione della iniziativa e della sovranità di tutti nelle mani di alcuni; amministrazione significa delegazione di lavoro, cioè incarico dato e ricevuto, scambio libero di servigi fondato sopra liberi patti. Il governante è un privilegiato, poichè ha il diritto di comandare agli altri e di servirsi delle forze degli altri, per far trionfare le sue idee ed i suoi desideri particolari; l’amministratore, il direttore tecnico, ecc., sono lavoratori come gli altri, quando, s’intende, lo sieno in una società in cui tutti hanno mezzi uguali di svilupparsi e tutti sieno o possano essere ad un tempo lavoratori intellettuali e manuali, e non vi restino altre differenze fra gli uomini che quelle derivanti dalla diversità naturale delle attitudini, e tutti i lavoratori, tutte le funzioni diano un diritto eguale a godere dei vantaggi sociali. Non si confonda la funzione governativa con la funzione amministrativa, che sono essenzialmente diverse, e che, se oggi si trovano spesso confuse, è solo a causa del privilegio economico e politico.
    Ma affrettiamoci a passare alle funzioni, per le quali il governo è considerato, da tutti coloro che non sono anarchici, come veramente indispensabile: la difesa esterna ed interna di una società, vale a dire la guerra, la polizia e la giustizia.
    Aboliti i governi e messa la ricchezza sociale a disposizione di tutti, presto spariranno tutti gli antagonismi tra i vari popoli e la guerra non avrà più ragione di esistere. Diremo inoltre che nello stato attuale del mondo, quando la rivoluzione si farà in un paese, se non troverà eco sollecito, dappertutto troverà certo tanta simpatia che nessun governo oserà mandare le truppe all’estero col rischio di vedersi scoppiare la rivoluzione in casa. Ma ammettiamo pure che i governi dei paesi non ancora emancipati volessero e potessero tentare di rimettere in servitù un popolo libero; avrà questo bisogno di un governo per difendersi? Per far la guerra ci vogliono uomini che abbiano le condizioni geografiche e tecniche necessarie, e soprattutto masse che vogliono battersi. Un governo non può aumentare la capacità degli uni, nè la volontà ed il coraggio delle altre. E l’esperienza storica e insegna come un popolo che voglia davvero difendere il proprio paese sia invincibile: ed in Italia si sa da tutti come, innanzi ai corpi di volontari (formazione anarchica) crollino i troni e svaniscono gli eserciti regolari, composti d’uomini forzati od assoldati
    E la polizia? E la giustizia? Molti s’immaginano che se non vi fossero carabinieri, poliziotti e giudici ognuno sarebbe libero di uccidere, di stuprare, di danneggiare gli altri a suo capriccio; e che gli anarchici, in nome dei loro principi, vorrebbero rispettata quella strana libertà, che viola e distrugge la libertà e la vita degli altri. Quasi credono che noi, dopo avere abbattuto il governo e la proprietà individuale, lasceremmo poi ricostruire tranquillamente l’uno e l’altra, per rispetto alla libertà di coloro che sentissero il bisogno di essere governanti e proprietari. Strano modo davvero d’intendere le nostre idee! È vero che così riesce più facile sbarazzarsi con una scrollata di spalle, dell’incomodo di confutarle.
    La libertà che noi vogliamo, per noi e per gli altri, non è la liberta assoluta, astratta, metafisica, che in pratica si traduce fatalmente in oppressione del debole; ma è la libertà i reale, la liberta possibile, che è la comunanza cosciente degl’interessi, la solidarietà volontaria. Noi proclamiamo la massima FA QUEL CHE VUOI, ed in essa quasi riassumiamo il nostro programma, perché — ci vuole poco a capirlo,riteniamo che in una società armonica, in una società senza il governo e senza proprietà, ognuno VORRÀ’ QUEL CHE DOVRA’ .
    Ma se, o per le conseguenze, dell’educazione ricevuta dalla presente società o per malore fisico, o per qualsiasi altra causa, uno volesse fare del danno a noi ed agli altri, noi ci adopereremmo, se ne può essere certi, ad impedirglielo con tutti i mezzi a nostra portata. Certo, siccome noi sappiamo che l’uomo è la conseguenza del proprio organismo e dell’ambiente cosmico e sociale in cui vive; siccome non confondiamo il diritto sacro della difesa col preteso assurdo diritto di punire; e siccome nel delinquente, cioè in colui che commette atti antisociali, non vedremmo già lo schiavo ribelle, come avviene al giudice di oggi, ma il fratello ammalato e necessitoso di cura, così noi non metteremmo odio nella repressione, ci sforzeremmo di non oltrepassare la necessità della difesa, e non penseremmo a vendicarci ma a curare, a redimere l’infelice con tutti i mezzi che la scienza ci insegnerebbe. In ogni modo, comunque l’intendessero gli anarchici (ai quali potrebbe accadere come a tutti i teorici di perder di vista la realtà, per correr dietro ad un sembiante di logica) è certo che il popolo non intenderebbe lasciare attentare impunemente al suo benessere ed alla sua libertà, e, se la necessità si presentasse, provvederebbe a difendersi contro le tendenze antisociali di alcuni. Ma per farlo, a che serve della gente che faccia il mestiere di far le leggi; e dell’altra gente che viva cercando ed inventando contravventori alle leggi? Quando il popolo riprova davvero una cosa e la trova dannosa, riesce ad impedirla sempre, meglio che non tutti i legislatori, i birri e di giudici di mestiere. Quando nelle insurrezioni il popolo ha voluto, ben a torto del resto, far rispettare la proprietà privata, l’ha fatta rispettare come non avrebbe potuto un esercito di birri.
    I costumi seguono sempre i bisogni ed i sentimenti della generalità; e sono tanto più rispettati quanto meno sono soggetti alla sanzione della legge, perché tutti ne veggono ed intendono la utilità, e perché gl’interessati, non illudendosi sulla protezione del governo, pensano a farli rispettare da loro. Per una carovana che viaggia nei deserti dell’Africa, la buona economia dell’acqua è questione di vita o di morte per tutti: e l’acqua in quelle circostanze diventa cosa sacra e nessuno si permette di sciuparla. I cospiratori hanno bisogno del segreto, ed il segreto è serbato, o l’infamia colpisce chi lo viola. I debiti di giuoco non sono garantiti dalla legge, e tra i giocatori è considerato e considera se stesso disonorato, chi non li paga.
    E’ forse a causa dei gendarmi che non si uccide più di quello che si fa? La maggior parte dei comuni d’Italia non veggono i gendarmi che di tratto in tratto; milioni di uomini vanno per i monti e le campagne, lontani dall’occhio tutelare dell’autorità, in modo che si potrebbe colpirli senza il menomo pericolo di pena: eppure non sono meno sicuri di coloro che vivono nei centri più sorvegliati. E la statistica dimostra come il numero dei reati risente a pena l’effetto delle misure repressive, mentre varia rapidamente col variare delle condizioni economiche e dello stato dell’opinione pubblica.
    Le leggi punitive, del resto, non riguardano che i fatti straordinari, eccezionali. La vita quotidiana si svolge al di fuori della portata del codice ed è regolata, quasi inconsciamente, per tacito e volontario assenso di tutti, da una quantità di usi e costumi, ben più importanti alla vita sociale che gli articoli del codice penale, o meglio rispettati, quantunque completamente privi di ogni sanzione che non sia quella naturale della disistima in cui incorrono i violatori, e del danno che dalla disistima deriva.
    E quando avvenissero tra gli uomini delle contestazioni, l’arbitrato volontariamente accettato, o la pressione dell’opinione pubblica non sarebbero forse più atti a far aver ragione a chi l’ha, anzi che una magistratura irresponsabile, che ha il diritto di giudicare su tutto e su tutti, ed è necessariamente incompetente e quindi ingiusta?.
    Come il governo in genere non serve che per la protezione delle classi privilegiate, così la polizia e la magistratura non servono che per la repressione di quei reati che non sono considerai tali dal popolo, e solo offendono i privilegi de governo e dei proprietari. Per la vera difesa sociale, per la difesa del benessere e della libertà di tutti, non v’è nulla di più pernicioso che la formazione di queste classi che vivono col pretesto di difendere tutti, si abituano a considerare ogni uomo come una selvaggina da mettere in gabbia, vi colpiscono senza saper perché, per l’ordine d un capo, quali sicari incoscienti e prezzolati.
    Ebbene sia, dicono alcuni: l’anarchia può essere una forma perfetta di convivenza sociale, ma noi non vogliamo fare un salto nel buio. Diteci dunque dettagliatamente come sarà organizzata la vostra società. E qui segue tutta una serie di domande, che sono molto interessanti se si tratta di studiare i problemi che s’imporranno alla società emancipata, ma che sono inutili, o assurde,o ridicole se si pretende averne da noi una soluzione definitiva. Con quali metodi si educheranno i bambini? Come si organizzerà la produzione? Ci saranno ancora delle grandi città, o la popolazione si distribuirà egualmente su tutta la superficie della terra? E se tutti gli abitanti della Siberia vorranno passar l’inverno a Nizza? E se tutti vorranno mangiare pernici e bere vino del Chianti? E chi farà il minatore o il marinaio? E chi vuoterà i cessi? E i malati saranno assistiti a domicilio o all’ospedale? E chi stabilirà l’orario delle ferrovie? E come si farà se a un macchinista vengan le coliche mentre il treno sta in marcia?... E così di seguito fino a pretendere che noi possedessimo tutta la scienza e l’esperienza di là da venire, e che, in nome dell’anarchia, prescrivessimo agli uomini futuri a che ora debbono andare a letto, e quali giorni si debbono tagliare i calli.
    Veramente se i nostri lettori aspettano da noi una risposta a queste domande, o almeno a quelle tra esse che sono veramente serie ed importanti, che sia più che la nostra opinione personale di questo momento, vuol dire che siamo mal riusciti nel nostro scopo di spiegar loro che cosa è l’anarchia.
    Noi non siamo più profeti degli altri: e se pretendessimo dare una soluzione ufficiale a tutti i problemi che si presenteranno nella vita della società futura, noi intenderemmo l’abolizione del governo in un senso strano davvero. Noi ci dichiareremmo governo, e prescriveremmo, a mo’ dei legislatori religiosi, un codice universale pei presenti e pei futuri. Fortuna che, non avendo noi roghi e prigioni per imporre la nostra Bibbia, l’umanità potrebbe ridere impunemente di noi e delle nostre pretese!
    Noi ci preoccupiamo molto di tutti i problemi della vita sociale, e per l’interesse della scienza e perché facciam conto di vedere l’anarchia attuata e di concorrere come potremo all’autorizzazione della nuova società. Abbiamo quindi le nostre soluzioni, che, secondo i casi, ci appaiono definitive o transitorie — e ne diremmo qui qualche cosa, se non ce lo vietasse lo spazio. Ma il fatto che noi oggi, coi dati che possediamo, pensiamo in un dato modo sopra una data questione, non vuol dire è così che si farà in avvenire . Chi può prevedere le attività che si svilupperanno nell’umanità quando essa sarà ‘emancipata dalla miseria e dall’oppressione, quando non vi saranno più schiavi nè padroni, e la lotta contro gli altri uomini, e gli odii ed i rancori che ne derivano, non saranno più una necessità dell’esistenza? Chi può prevedere i progressi della scienza, i nuovi mezzi di produzione, di comunicazione, ecc.?
    L’essenziale è questo: che si costituisca una società in cui non sia possibile lo sfruttamento e la dominazione dell’uomo sull’uomo; in cui tutti abbiano la libera disposizione dei mezzi di esistenza, di sviluppo e di lavoro, e tutti possano concorrere, come vogliono e sanno all’organizzazione della vita sociale. In tale società tutto sarà fatto necessariamente nel modo che meglio soddisfaccia ai bisogni di tutti, date le cognizione e le possibilità del momento; e tutto si trasformerà in meglio, a seconda che crescano le cognizioni ed i mezzi.
    In fondo, un programma che tocca le basi della costituzione sociale non può far altro che indicare un metodo. Ed è il metodo quello che soprattutto differenzia i partiti e determina la loro importanza nella storia. A parte il metodo, tutti dicono di volere il bene degli uomini e molti lo vogliono davvero; i partiti spariscono e con essi sparisce ogni azione organizzata e diretta ad un fine determinato. Bisogna dunque soprattutto considerare l’anarchia come un metodo.
    I metodi dai quali i diversi partiti, non anarchici, si aspettano e dicono di aspettarsi, il maggior bene di ciascuno e di tutti, si possono ridurre a due, quello autoritario e quello così detto liberale. Il primo, affida a pochi la direzione della vita sociale e mette capo allo sfruttamento ed all’oppressione della massa da parte di pochi. Il secondo s’affida alla libera iniziativa degl’individui e proclama, se non l’abolizione, la riduzione del governo al minimo di attribuzioni possibile però siccome rispetta la proprietà individuale ed è tutto fondato sul principio del ciascun per sè e quindi della concorrenza fra gli uomini, la sua libertà non è che la libertà dei forti, pei proprietari, di opprimere e sfruttare i deboli, quelli che non hanno nulla; e, lungi dai produrre l’armonia, tende ad aumentare sempre più la distanza tra i ricchi ed i poveri, e mette capo esso pure allo sfruttamento ed alla dominazione cioè all’autorità. Questo secondo metodo, cioè il liberalismo in teoria è una specie di anarchia senza socialismo, e perciò non è che una menzogna, poichè la libertà non è possibile senza l’eguaglianza, e l’anarchia vera non può esistere fuori della solidarietà, fuori del socialismo. La critica che i liberali fanno del governo, si riduce a volergli levare un certo numero di attribuzioni e chiamare i capitalisti a contendersele, ma non può attaccare le funzioni repressive che formano la sua essenza; poichè senza il gendarme il proprietario non potrebbe esistere, e anzi la forza repressiva del governo deve sempre crescere, a misura che crescono per opera della libera concorrenza la disarmonia e la disuguaglianza.
    Gli anarchici presentano un metodo nuovo; l’iniziativa libera di tutti ed il libero patto, dopo che, abolita rivoluzionariamente la proprietà individuale, tutti sono stati messi in condizione eguale di poter disporre delle ricchezze sociali. Questo metodo, non lasciando adito alla ricostituzione della proprietà individuale, deve condurre, per la via della libera associazione, al trionfo completo del principio di solidarietà.
    Così considerate le cose, si vede che tutti i problemi che si mettono avanti per combattere le idee anarchiche, sono invece un argomento in favore dell’anarchia, questa perchè sola indica la via per la quale essi possono trovare sperimentalmente quella soluzione che corrisponde meglio ai dettami della scienza ed ai bisogni ed ai sentimenti di tutti.
    Come si educheranno i bambini? Non lo sappiamo. E poi? I genitori, i pedagogisti, e tutti coloro che s’interessano alle sorti delle nuove generazioni, si riuniranno, discuteranno, s ‘accorderanno o si divideranno in diverse opinioni, e metteranno in pratica i metodi che crederanno i migliori. E colla pratica quel metodo, che davvero è migliore, finirà coi trionfare.
    E così per tutti i problemi che si presenteranno.
    Risulta da quello che abbiamo detto finora, che l’anarchia, quale l’intende il partito anarchico,
    e quale solo può essere intesa, è basata sul socialismo. Anzi se non fossero quelle scuole socialiste, che scindono artificiosamente l’unità naturale della questione sociale e ne considerano solo qualche parte staccata, e se non fossero gli equivoci coi quali si cerca d’intralciare la via alla rivoluzione sociale, noi potremmo dire addirittura che anarchia è sinonimo di socialismo, poichè l’una e l’altro significano l’abolizione della dominazione e dello sfruttamento dell’uomo sull’uomo, sia che vengano esercitati mediante la forza della baionette sia mediante l’accaparramento dei mezzi di vivere.
    L’anarchia, al pari del socialismo, ha per base. per punto di partenza, per ambiente necessario l’eguaglianza di condizioni; ha per faro la solidarietà; e per metodo la libertà. Essa non è la perfezione, essa non è l’ideale assoluto che, come l’orizzonte, si allontana sempre a seconda che ci avanziamo; ma è la via aperta a tutti i progressi. a tutti i perfezionamenti, fatti nell’interesse di tutti.
    Assodato che l’anarchia è il modo di convivenza sociale che solo lascia aperta la via al raggiungimento del maggior bene possibile degli uomini, poiché essa sola distrugge ogni classe interessata a tenere oppressa e misera la massa; assodato che l’anarchia è possibile e poichè in realtà non fa che sbarazzare l’umanità di un ostacolo, il governo, contro cui ha dovuto sempre lottare per avanzare nel suo penoso cammino, gli autoritarii si ritirano nelle loro ultime trincee; dove sono rinforzati da molti che pur essendo caldi amatori di libertà e di giustizia, han paura della libertà, e non sanno decidersi ad immaginare un’umanità che viva e cammini senza tutori e senza pastori, e, incalzati dalla verità, domandano pietosamente che si rimetta la cosa al più tardi, al più tardi possibile.
    Ecco la sostanza dagli argomenti che in questo punto della discussione ci vengono opposti.
    Questa società senza governo, che si regge per mezzo della cooperazione libera e volontaria; questa società, che s’affida in tutto all’azione spontanea dagl’interessi ed è tutta fondata sulla solidarietà e sull’amore, è certamente, essi dicono, un ideale bellissimo ma, come tutti gl’ideali, sta nelle nuvole. Noi ci troviamo in una umanità che ha sempre vissuto divisa in oppressi ed oppressori; e se questi sono pieni dello spirito di dominazione ed hanno tutti i vizii dei tiranni, quelli sono rotti al servilismo ed hanno i vizii anche peggiori che produce la schiavitù. Il sentimento della solidarietà è lungi dall’essere dominante tra gli uomini attuali, e se è vero che gli uomini sono e diventano sempre più solidali tra loro, è anche vero che quello che più si vede e più lascia l’impronta sul carattere umano è la lotta per l’esistenza, che ciascuno combatte quotidianamente contro tutti, è la concorrenza che incalza tutti, operai e padroni, e fa che ogni uomo diventi il lupo dell’altr’uomo. Come mai potranno questi uomini, educati, in una società basata sull’antagonismo delle classi e degl’individui, trasformarsi d’un tratto e divenire capaci di vivere in una società in cui ciascuno farà quel che vorrà, e dovrà, senza coercizione esterna, per impulso della propria natura, volere il bene degli altri? E con che coraggio, con che semino affidereste voi le sorti della rivoluzione, le sorti della umanità, ad una turba ignorante, anemizzata dalla miseria, abbrutita dal prete, che oggi sarà stupidamente sanguinaria, e domani si farà goffamente raggirare da un furbo, o piegherà servilmente il collo sotto il calcagno del primo uomo d’armi che oserà farsi padrone? Non sarà più prudente avviarsi all’ideale anarchico passando per una repubblica democratica o socialista? Non sarà necessario un governo educatore, composto dei migliori, per preparare le generazioni ai destini futuri?
    Anche queste obiezioni non avrebbero ragion di essere se noi fossimo riusciti a farci capire ed a convincere i lettori in quello che abbiamo detto più avanti; ma in ogni modo, anche a costo di doverci ripetere, sarà bene rispondervi.
    Noi ci troviamo sempre di fronte al pregiudizio che il governo sia una forza nuova, sorta non si sa di dove, che aggiunga per se stesso qualche cosa alla somma delle forze e delle capacità di coloro che lo compongono e di coloro che gli ubbidiscono. Invece tutto ciò che si fa nell’umanità, si fa dagli uomini; ed il governo, come governo, non ci mette di suo che la tendenza a far di tutto un monopolio a favore di un dato partito o di una data classe, e la resistenza contro ogni iniziativa che sorge fuori della sua consorteria.
    Abolire l’autorità, abolire il governo non significa distruggere le forze individuali e collettive che agiscono nell’umanità, ne le influenze che gli uomini esercitano a vicenda gli uni su gli altri:questo sarebbe ridurre l’umanità allo stato di ammasso di atomi staccati ed inerti, cosa che è impossibile, e che, se mai fosse possibile, sarebbe la distruzione di ogni società, la morte dell’umanità.
    Abolire l’autorità, significa abolire il monopolio della forza e dell’influenza; significa abolire quello stato di cose per cui la forza sociale, cioè la forza di tutti, è stata strumento del pensiero, della volontà, degl’interessi di un piccolo numero d’individui, i quali mediante la forza di tutti, sopprimono, a vantaggio proprio e delle proprie idee, la libertà di ciascuno; significa distruggere un modo di organizzazione sociale col quale i avvenire resta accaparrato, tra una rivoluzione e l’altra, a profitto di coloro che sono stati i vincitori di un momento.
    Michele Bakounine in uno scritto pubblicato nel 1872, dopo aver detto che i grandi mezzi d’azione dell’Internazionale erano la propaganda delle sue idee e l’organizzazione dell’azione naturale dei suoi membri sulle masse, aggiunge:
    « A chiunque pretendesse che un’azione così organizzata sarebbe un attentato contro la libertà delle masse, un tentativo di creare un nuovo potere autoritario, noi risponderemmo ch’egli non è che un sofista ed uno sciocco. Tanto peggio per quelli che ignorano la legge naturale e sociale della solidarietà umana, al punto da immaginare che un’assoluta indipendenza mutua degl’individui e delle masse sia una cosa possibile, o almeno desiderabile. Desiderarla significa volere la distruzione della società, poichè tutta la vita sociale non altra cosa che questa indipendenza mutua, incessante degl’individui e delle masse. Tutti gl’individui, sieno pure i più intelligenti ed i più forti anzi soprattutto i più intelligenti ed i più forti ne sono, in ogni istante della loro vita, nello stesso tempo i produttori ed i prodotti. La stessa libertà di ogni individuo non è che la risultante, riprodotta continuamente, di questa massa d’influenze materiali, intellettuali e morali, esercitate sopra di lui da tutti gl’individui che lo circondano dalla società in mezzo a cui egli nasce, si sviluppa e muore. Volere sfuggire a questa influenza, in nome di una libertà trascendentale, divina, assolutamente egoista e bastante a se stessa, è la tendenze al non essere; volere rinunziare ad esercitarla sugli altri, significa rinunciare ad ogni azione sociale, all’espressione perfino dei suoi pensieri e dei suoi sentimenti, e si risolve pure nel non essere questa indipendenza, tanto vantata dagl’idealisti e dai metafisici, e la libertà individuale, concepita in questo senso, sono dunque il niente.
    « Nella natura, come nella società umana, che non è altra cosa che questa stessa natura, tutto ciò che vive, non vive che alla condizione suprema d’intervenire, nel modo più positivo e tanto potentemente quanto lo comporta la sua natura, nella vita degli altri. L’adozione di questa influenza mutua sarebbe la morte. E quando noi rivendichiamo la libertà delle masse, non pretendiamo per nulla abolire nessuna delle influenze naturali che individui o gruppi d’individui esercitano su di esse: ciò che noi vogliamo è l’abolizione delle influenze artificiali, privilegiate, legali, ufficiali ».
    Certamente, nello stato attuale dell’umanità, quando la grande maggioranza degli uomini, oppressa dalla miseria ed istupidita dalla superstizione, giace nell’abbiezione, le sorti umane dipendono dall’azione di un numero relativamente scarso d’individui ; certamente non si potrà da un momento all’altro far sì che tutti gli uomini si elevino al punto da sentire il dovere, anzi il piacere di regolare tutte le proprie azioni in modo che ne derivi agli altri il maggior bene possibile. Ma se oggi le forze pensanti e dirigenti dell’umanità sono scarse, non è una ragione per paralizzarne ancora una parte e per sottoporne molte ad alcune di esse. Non è una ragione per costituire la società in modo che, grazie all’inerzia che producono le posizioni assicurate, grazie alla eredità, al protezionismo, allo spirito di corpo, ed a tutta quanta la meccanica governativa, le forze più vive e le capacità più reali finiscono col trovarsi fuori del governo e quasi prive d’influenza sulla vita sociale; e quelle che giungono al governo, trovandosi spostate dal loro ambiente, ed interessate anzitutto a restare al potere, perdano ogni potenza di fare e solo servano di ostacolo agli altri.
    Abolita questa potenza negativa che è il governo, la società sarà quello che potrà essere, ma tutto quello che potrà essere, dato le forze e le capacità del momento. Se vi saranno uomini istruiti e desiderosi di spandere l’istruzione, essi organizzeranno le scuole e si sforzeranno per far sentire a tutti l’utile ed il piacere d’istruirsi. E se questi uomini non vi fossero o fossero pochi, un governo non potrebbe crearli; solo potrebbe, come infatti avviene oggi, prendere quei pochi, sottrarli al lavoro fecondo, metterli a redigere regolamenti che bisogna imporre coi poliziotti, e da insegnanti intelligenti e passionati farne degli uomini politici, cioè degli inutili parassiti, tutti preoccupati d’imporre le loro fisime e di mantenersi al potere .
    Se vi saranno medici ed igienisti ,essi organizzeranno il servizio di sanità. E se non vi fossero,il governo non potrebbe crearli; solo potrebbe ,per il sospetto,tropo giustificato, che il popolo ha contro tutto ciò che viene imposto,levar credito ai medici esistenti,e farli massacrare come avvelenatori quando vanno a curare i colerosi. Se vi sono ingegneri, macchinisti, ecc. organizzeranno le ferrovie. E se non vi fossero, ancora una volta il governo non potrebbe crearli.
    La rivoluzione, abolendo il governo e la proprietà individuale, non creerà forze che non esistono; ma lascerà libero campo all’esplicazione di tutte le forze, di tutte le capacità esistenti, distruggerà ogni classe interessata a mantenere le masse nell’abbrutimento, e farà in modo che ognuno potrà agire ed influire in proporzione della sua capacità, e conformemente alle sue passioni ed ai suoi interessi.
    E questa è la sola via per la quale le masse possano elevarsi, poichè è solo colla libertà che uno s’educa ad esser libero, come è solo lavorando che uno può imparare a lavorare. Un governo, quando non avesse altri inconvenienti, avrebbe sempre quello di abituare i governati alla soggezione, e di tendere a diventare sempre più opprimente e farsi sempre più necessario.
    D’altronde, se si vuole un governo che debba educare le masse ed avviarle all’anarchia, bisogna pure indicare quale sarà l’origine, il modo di formazione di questo governo.
    Sarà la dittatura dei migliori? Ma chi sono i migliori? E chi riconoscerà loro questa qualità? La maggioranza sta d’ordinario attaccata a vecchi pregiudizii, ed ha idee ed istinti già sorpassati da una minoranza meglio favorita; ma fra le mille minoranze che tutte credono di aver ragione, e tutte possono averla in qualche parte, da chi e con qual criterio si sceglierà, per mettere la forza sociale a disposizione di una di esse, quando solo l’avvenire può decidere fra le parti in litigio? Se pigliate cento partigiani intelligenti della dittatura, voi scoprirete che ciascuno di loro crede che egli dovrebbe, se non essere proprio il dittatore, o uno dei dittatori, almeno trovarsi molto vicino alla dittatura. Dunque dittatori sarebbero coloro che, per una via o per un’altra, riuscissero ad imporsi; e, coi tempi che corrono, si può esser sicuri che tutte le loro forze sarebbero impiegate nella lotta per difendersi contro gli attacchi degli avversarii, lasciando in dimenticanza ogni velleità educatrice, se mai ne avessero avute.
    Sarà invece un governo eletto a suffragio universale, e quindi l’emanazione più o meno sincera del volere della maggioranza? Ma se voi considerate questi bravi elettori come incapaci di provvedere da loro stessi ai propri interessi, come mai essi sapranno scegliersi i pastori che debbono guidarli e come potranno risolvere questo problema di alchimia sociale, di far uscire l’elezione di un genio dal voto di una massa di imbecilli? E che ne sarà delle minoranze che pur sono la parte più intelligente, più attiva, più avanzata di una società?
    Per risolvere il problema sociale a favore di tutti non vi è che un mezzo: scacciare rivoluzionariamente i detentori della ricchezza sociale, mettere tutto a disposizione di tutti, e lasciare che tutte le forze, tutte le capacità, tutte le buone volontà esistenti fra gli uomini agiscano per provvedere ai bisogni di tutti.
    Noi combattiamo per l’anarchia e per il socialismo, perchè crediamo che l’anarchia ed il socialismo si debbano attuare subito, vale a dire che si deve nell’atto stesso della rivoluzione scacciare il governo, abolire la proprietà ed affidare i servizi pubblici, che in quel caso abbracceranno tutta la vita sociale, all’opera spontanea, libera, non ufficiale, non autorizzata di tutti gl’interessati e di tutti i volenterosi.
    Vi saranno certamente difficoltà ed inconvenienti; ma essi saranno risoluti, e solo potranno risolversi anarchicamente, cioè mediante l’opera diretta degl’interessati ed i liberi patti.
    Noi non sappiamo se alla prossima rivoluzione trionferanno l’anarchia ed il socialismo; ma certamente se dei programmi cosiddetti di transazione trionferanno, sarà perchè noi, per questa volta, saremo stati vinti, e mai perchè avremo creduto utile lasciare in vita una parte del mal sistema, sotto cui geme l’umanità.
    In ogni modo avremo sugli avvenimenti quell’influenza che ci verrà dal nostro numero, dalla nostra energia, dalla nostra intelligenza e dalla nostra intransigenza. Anche se sarem vinti, la nostra opera non sarà stata inutile, poichè più saremo stati decisi a raggiungere l’attuazione di tutto il nostro programma, e meno proprietà e meno governo vi sarà nella nuova società. E avrem fatto opera grande, perchè il progresso umano si misura appunto dalla diminuzione del governo e dalla diminuzione della proprietà privata.
    E se oggi cadremo senza piegar bandiera, possiamo esser sicuri della vittoria di domani.

    Di Errico Malatesta

  13. #38
    Mental Ray
    ospite

    Predefinito Re: La Biblioteca di BackStage

    Mi sento di consigliare il libro "Centomila gavette di ghiaccio".
    Non ricordo l'autore.
    Racconta la campagna italiana in russia seguendo la brigata( ) "Giulia". Davvero bello.

  14. #39
    Il Nonno L'avatar di memex
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    Predefinito Re: La Biblioteca di BackStage

    Mental Ray ha scritto mar, 13 aprile 2004 alle 13:49
    Mi sento di consigliare il libro "Centomila gavette di ghiaccio".
    Non ricordo l'autore.
    Racconta la campagna italiana in russia seguendo la brigata( ) "Giulia". Davvero bello.

    Giulio Bedeschi

  15. #40

    Predefinito Re: La Biblioteca di BackStage

    25 aprile (www.cronologia.it)


    La data del 25 aprile rappresenta un giorno fondamentale per la storia della giovane repubblica italiana. E’ l’anniversario della rivolta armata partigiana e popolare contro le truppe di occupazione naziste tedesche e contro i loro fiancheggiatori fascisti della Repubblica Sociale Italiana.

    Il 25 aprile 1945 segna il culmine del risveglio della coscienza nazionale e civile italiana impegnata nella riscossa contro gli invasori e come momento di riscatto morale di una importante parte della popolazione italiana dopo il ventennio di dittatura fascista.

    Alla liberazione dell’Italia dalla dittatura si poté arrivare grazie al sacrificio di tanti giovani ragazzi e ragazze che, pur appartenendo ad un ampio ed eterogeneo schieramento politico (dai comunisti ai militari monarchici, passando per i gruppi cattolici, socialisti ed azionisti), si chiamavano con un solo nome: partigiani; combatterono al fianco di molti soldati provenienti da paesi diversi e lontani (dagli Stati Uniti all’Australia, senza dimenticare Inglesi e Francesi), ma tutti accolti come alleati.
    La stessa storia dell’Italia repubblicana fonda interamente le proprie basi nell’esperienza dell’antifascismo che Piero Calamandrei definì “quel monumento che si chiama ora e sempre Resistenza”, elemento base di una nuova religione civile della nascitura giovane democrazia repubblicana. Si è parlato più volte e da più parti della Resistenza come di “un secondo Risorgimento i cui protagonisti furono le masse popolari” (S. Pertini).

    Non è intenzione di chi scrive fornire una ricostruzione storica dei fatti e dei protagonisti, ma semplicemente sfatare una teoria storiografica revisionista che, negli ultimi anni, è molto di moda: la Resistenza come “guerra civile”.

    Benché la Resistenza non sia stato un fatto coinvolgente la maggioranza degli italiani, ma solo quella relativa degli abitanti delle aree centro-settentrionali, essa non è stata affatto una guerra di italiani contro italiani, come, in Spagna nel 1936, si era avuto uno scontro di spagnoli contro spagnoli.
    Infatti vi fu lo scontro tra soldati e combattenti italiani contro gli invasori tedeschi ed i collaboratori repubblichini, i primi, nel rispetto della pluralità politica, combattevano in nome della democrazia liberale o socialista che fosse, i secondi combattevano a fianco delle SS hitleriane sostenitrici della necessità di conquistare uno “spazio vitale” per la Germania nazista.
    Chi scrive non vuole assolutamente cadere nella retorica resistenziale, ma è fortemente concorde col fatto che la Resistenza fu un momento edificante in cui si affrontarono i sostenitori della libertà, della democrazia e della giustizia sociale contro gli adulatori della tirannide di cui furono essi stessi le prime vittime, se di “guerra civile” si vuole parlare la si deve intendere come “per la civiltà” (Dante Livio Bianco), come “una guerra politica, popolare ….. .Una guerra democratica, in duplice senso, in quanto democratico è il suo metodo ed è democratico il suo ultimo, l’abbattimento di una dittatura e l’instaurazione di un regime fondato sulla partecipazione popolare al potere” (Norberto Bobbio, ora in D. L. Bianco, Guerra partigiana, Einaudi, Torino 1973, p. VIII).

    Con ciò non si vuole fare un discorso relativo alle singole persone che combatterono su entrambi i fronti in buona fede che vanno sempre e comunque rispettate, se non altro per i dolori e le sofferenze che furono costretti a subire. Premesso tale rispetto per tutti i morti mi sembra lecito oppormi a quanto proposto da più parti (politiche e non) di trasformare il 25 aprile nel giorno della pacificazione nazionale per ricordare i morti: i morti, tutti i morti, si commemorano il 2 novembre e la questione della pacificazione nazionale è già stata risolta, in chiave politica dall’amnistia promossa dall’allora Guardasigilli Palmiro Togliatti e, in chiave storiografica e letteraria da uno dei capi del Comitato di Liberazione Nazionale Alta Italia, il compianto senatore Leo Valiani, che, nel pubblicare il suo diario del periodo clandestino, nella dedica iniziale scrive “A Duccio Galimberti, per tutti i caduti,/ della nostra parte e dell’altra”, volendo così separare gli aspetti personali ed umani ( e umanitari?) della questione da quelli politici e storici. Ciò che più rammarica è che la Resistenza, lungi dall’essere un momento corale di unità popolare e nazionale, sia divenuta “la resistenza incompiuta o interrotta destinata, come tutti i conati, a indicare una meta ideale più che non a prescrivere un risultato”(Norberto Bobbio, ora in D. L. Bianco, Guerra partigiana, op. cit., p. XI).

    La Resistenza doveva divenire il “mito fondatore” su cui basare la Repubblica democratica scaturita dalle scelte dell’Assemblea costituente figlia della stessa esperienza partigiana, purtroppo ciò non è avvenuto completamente, ma quei valori di uguaglianza, democrazia e giustizia sociale, contenuti nella Prima Parte della nostra Costituzione sono sempre validi, attuabili ed a essi ogni democratico deve fare riferimento nella propria azione quotidiana.

  16. #41
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    Predefinito Re: La Biblioteca di BackStage

    Premessa

    Continuo a postare pezzi di Limes perchè ultimamente mi trovo particolarmente in sintonia con la rivista ( ). Spero che non vi dispiaccia troppo. Ma tanto un buon saggio vale l'altro, percui, anche se dispiace a voi, a me poco importa .
    C'ho messo mezzora a scannerizzare tutto a 300dpi e a fare l'ocr; le "carte colorate" a cui si fa riferimento sono delle carte non particolarmente utili al fine della comprensione del testo; se ogni tanto, senza senso apparente, nel testo compare qualche numero è perchè riferito ad una nota bibliografica (che ovviamente non mi sono sbattuto dal riportare). Se ci sono degli errori potete correggerli e postarmi il testo rivisto; se pensate che ci siano troppi errori - "la pisella, la prossima volta fatevelo voi l'ocr!"

    _-_-_-_-_-_-_-_-_-_-_-_-_-_-_-_-_-_-_-_- _-

    Ultima cosa; il testo non è l'editoriale
    (che questa volte era più tecnico che brillante, e brillanti, si sa, sono i teorici e Mughini: non i tecnici).

    Come si diventa il Numero Uno
    Limes volume 2 2004
    Fabrizio Maronta e David Polansky

    Noi siamo fermamente convinti che, come nazione e come individui,i nostri interessi, sebbene scrupolosamente soppesati,non siano in nessun caso scindibili dai nostri obblighi morali;ed è in base a tale convinzione che agiamo.
    Thomas Jefferson, Secondo discorso d'insediamento, 4/3/1805


    IL PRIMATO ECONOMICO-MILITARI: DI
    cui gli Stati Uniti godono nel mondo rappresenta una realtà storica di per sé eccezionale, inedita. Non meno eccezionale è il processo di costruzione e affermazione di tale primato; specialmente se si considera che l'America, nel corso della sua storia, è stata costantemente caratterizzata da una relazione quanto mai ambivalente e problematica con i tradizionali canoni della geopolitica che informano il comportamento delle nazioni.
    La nascita degli Stati Uniti infatti, avviene in assenza di una preesistente tradizione culturale, ovvero di un'identità nazionale definita e strutturata. Per la maggior parte delle potenze - e per quelle europee in particolare - la nazione non è affatto una mera astrazione, bensì il frutto di innumerevoli elementi storici che, insieme, concorrono alla progressiva formazione di una radicata identità collettiva e di connessi interessi specifici, nella cui difesa si concretizza la nozione di «ragion di Stato». I neonati Stati Uniti al contrario, pur possedendo una società civile pienamente sviluppata, mancavano di una siffatta tradizione storica alla quale fare riferimento per definire la propria identità e le proprie priorità geopolitiche (carta a colori 1). L'essenza della nazione statunitense, molto più che nella sua storia, risiede pertanto nei princìpi ideali enunciati dai padri fondatori, la cui completa negazione minerebbe alla base la legittimità della nazione stessa.
    Ma come ha potuto una realtà nazionale costruita su princìpi astratti assurgere a superpotenza? E con quali criteri essa conduce la propria politica estera?
    La mentalità dei primi coloni era in gran parte aliena alle astratte teorie illuministiche sul diritto naturale, di cui i padri costituenti si riveleranno viceversa imbevuti. Pressati da ben più prosaiche ed immediate esigenze, quali la sicurezza e il reperimento dei mezzi di sostentamento, i coloni erano profondamente influenzati dalla dura realtà dell'ambiente naturale nordamericano, nei cui immensi spazi largamente disabitati essi erano tuttavia liberi di perseguire il proprio benessere e la propria realizzazione personale.
    La vita quotidiana di questi individui contribuirà enormemente a determinare il carattere della nazione americana nel suo complesso, in maniera per molti aspetti rivoluzionaria. I futuri cittadini statunitensi si lasciavano definitivamente alle spalle gli oppressivi sistemi feudali delle loro terre d'origine. Al contrario dei loro contemporanei europei, essi producevano beni su cui non gravava alcun obbligo verso signori e proprietari terrieri; inoltre, possedevano le terre, i mezzi di produzione e la totalità dei prodotti finali, e ad essi spettava la difesa di se stessi e delle loro proprietà.
    L'insieme di tali circostanze concorreva dunque all'affermarsi fra i coloni stessi di un'etica della responsabilità individuale che, nel tempo, diverrà una componente fondamentale del carattere nazionale, il metro con cui gli statunitensi giudicheranno costantemente il loro paese, da un punto di vista politico, sociale e morale. Qualsiasi linea politica - interna o estera - non conforme a tale principio, sarebbe stata fonte di scetticismo e diffidenza nell'opinione pubblica americana, pur rivelandosi efficace e vantaggiosa per il paese. È dunque in questa forte e radicata componente ideale, in quanto tale incompatibile con la realtà dei rapporti internazionali, che trova origine quella tendenza all'isolazionismo propria dell'America, tentazione permanente - sebbene non sempre prevalente - della sua politica estera. Di qui, peraltro, l'assoluta marginalità di qualsiasi considerazione di politica estera precedente all'indipendenza, pur in presenza di un progressivo, sostanziale affrancamento delle colonie dalla madrepatria britannica.
    Così, quando nel 1754 il congresso di Albany cercò di unire le colonie su questioni «esterne» di comune interesse, quale l'acquisizione di nuove terre e le trattative di pace con gli indiani, i potenziali vantaggi di un'alleanza non riuscirono a compensare il rifiuto dell'inasprimento fiscale necessario a finanziare iniziative comuni: nella leva fiscale si vedeva infatti la fonte di un eccessivo potere centrale, che nessuna colonia era al tempo disposta a tollerare.
    Parimenti, il divampare della guerra dei Sette anni (1756-1763) nel nuovo continente produsse scarso effetto sui coloni, troppo occupati a difendersi gli uni dagli altri per aspirare ad un coinvolgimento in una disputa coloniale di stampo europeo. Al punto che, nel difendere le proprie colonie dalle truppe francesi, gli inglesi poterono contare su una scarsissima assistenza degli stessi coloni e dei loro alleati
    indiani.
    La guerra d'indipendenza scaturita dall'omonima Dichiarazione e protrattasi dal 1776 al 1781 rappresenta un fulgido esempio del carattere quasi <<accidentale>> della geopolitica statunitense, ai cui risultati sembra potersi pienamente applicare la qualifica di <<conceived on a fit of concepiti, <<Gconcepiti soprappensiero>>) precedentemente coniata per l'impero britannico (carte a colori 2 e 2a).
    Il fatto che i coloni concepissero e combattessero la guerra a tutela della loro tradizione di autogoverno, non già di specifici interessi economici e geostrategici, non precluse loro l'adozione di tattiche spregiudicate al fine di ottenere la vittoria. Tale fu sicuramente l'invio di Benjamin Franklin a Parigi con lo scopo di dar vita ad un'alleanza franco-statunitense contro il Regno Unito - proposito che ribaltava la posizione assunta dalle colonie appena venti anni prima, nella guerra dei Sette anni. Allo stesso modo, l'entrata in vigore della costituzione (l'ultimo Stato a ratificarla fu il Rhode Island, nel 1790), se da un lato istituzionalizzò definitivamente i princìpi e le modalità su cui si era andata strutturando la vita nelle colonie, dall'altro fornì una solida base giuridica alle acquisizioni territoriali de facto realizzate dai coloni nel passato.
    La mancanza di un esecutivo centrale forte, conseguenza del carattere spiccatamente federale del nuovo Stato, permise alle singole entità federate e al paese nel suo complesso di definire e perseguire i propri interessi con notevole flessibilità. A trarne vantaggio furono soprattutto le comunità geograficamente più periferiche, la cui influenza sulla definizione dell'indirizzo politico nazionale, specialmente in politica estera, si rivelò nel complesso molto superiore al loro peso demografico ed economico. In questo periodo fondativo, singoli individui o gruppi (soprattutto coloni), che generalmente non condividevano mire e finalità del governo centrale, erano ancora in grado di costituirsi come attori geopolitici autonomi. D'altronde, l'incontrollabile attività di colonizzazione che aveva luogo alle frontiere rappresentava per Washington la garanzia di una costante espansione del territorio nazionale.

    L'espansioneL'espansione territoriale degli Stati Uniti traeva dunque impulso da spinte e ragioni interne, più che da fattori ambientali esterni. Mentre la condivisione di uno spazio limitato, e la conseguente contiguità geografica, avevano portato le numerose nazioni europee a sviluppare precocemente una chiara percezione dei rispettivi rapporti di forza, l'assenza di sostanziali minacce ai propri confini permise per lungo tempo agli Stati Uniti di prescindere dal fattore geografico (dimensioni e collocazione del paese) in sede di definizione della politica estera nazionale. In un certo senso, l'espansione statunitense ha avuto luogo in una sorta di «vuoto» geopolitico, il che ha profondamente influenzato il modo in cui l'America pensa le altre nazioni e interagisce con esse.
    Quando, nel 1800, la Francia si impossessò della Louisiana - che al tempo si estendeva per buona parte degli attuali Stati Uniti centrali - sottraendola alla Spagna, un allarmato presidente Jefferson si trovò costretto a riconsiderare la relazione Washington impegnata nel non facile compito di garantire legittimità alle iniziative di coloni militanti e generali indipendenti. Così, nel 1821, con il Trattato Adams-Onis la Spagna cedeva la Florida agli Stati Uniti, i quali vi insediavano Jackson come loro primo governatore.
    La maggior conquista territoriale americana sul continente iniziò in maniera pressoché analoga. Quando, nel 1821, il Messico si rese indipendente dalla Spagna, il suo vastissimo territorio comprendeva gli attuali Stati del Texas e della California e la macroregione del Southwest. Ciò poneva Città del Messico sulla traiettoria dei coloni statunitensi presenti in quei territori, i quali agivano animati da quello che in seguito, nel 1845, un editorialista del New Yòrk Times avrebbe definite ,manifest destiny (<<destino manifesto>>). Tale «teoria» dava veste ufficiale a ciò che per lungo tempo era stato il principio sotteso all'incessante attività di colonizzazione: la convinzione che i coloni americani, in quanto liberi cittadini di uno Stato sovrano che promuoveva il loro benessere e la loro felicità, avessero pieno diritto ad appropriarsi di quanta terra fossero effettivamente in grado di controllare e sfruttare.
    Inizialmente, il governo messicano permise ai coloni anglosassoni di insediarsi nei territori scarsamente popolati dei Texas orientale. Ben presto tuttavia, queste prime comunità avanzarono una crescente domanda di rappresentanza politica, cui si associò di lì a poco la pretesa di estendere ai territori messicani da esse occupati tutte le principali garanzie dell'ordinamento giuridico e costituzionale statunitense. La crescente tensione fra coloni e governo messicano raggiunse il culmine con l'avvento al potere del generale messicano Santa Anna, che chiuse ogni residuo spiraglio ad una soluzione negoziale. Il 2 marzo del 1836 il Texas si dichiarò indipendente, scatenando l'immediata reazione militare di Città del Messico. I cotoni texani ebbero facilmente ragione delle truppe messicane e la nuova repubblica indipendente - sotto la presidenza del generale Sam Houston, artefice della vittoria - apri presto i negoziati per l'annessione agli Stati Uniti (carta a colori 3).
    Quando, nel 1845, il Texas venne ammesso a far parte dell'Unione, le mire territoriali dei coloni texani trovarono un nuovo, vigoroso impulso. Essi aspiravano infatti ad estendere il Texas statunitense, allora delimitato dal Nueces River, fino all'attuale confine rappresentato dal Rio Grande. A supporto di tale disegno Washington inviò nel territorio conteso un piccolo contingente capeggiato dal generale Zachary Taylor, provocando l'ira del governo messicano. Una piccola schermaglia fra soldati americani e truppe messicane attestate al confine forni il casus belli. Alla base del determinante appoggio di Washington alle pretese dei coloni vi era, ancor più dell'entrata del Texas nella federazione statunitense, il fatto che la sovranità nominale del Messico sulla regione contesa non si fosse mai tradotta in un effettivo controllo del territorio. Laddove gli elementi fondamentali dello Stato sono la sovranità, la popolazione e il territorio, un approccio geopolitico porta a ritenere che la prima discenda dal controllo degli altri due. A ben vedere, il principio di autodeterminazione su cui vennero fondati gli Stati Uniti e in nome del quale fu combattuta la guerra d'indipendenza, trae origine dalla medesima considerazione. E sebbene sia profondamente riduttivo ricondurre la fondazione degli Stati Uniti a ragioni puramente geopolitiche, rimane il fatto che i princìpi enunciati in quella sede si sono rivelati molto spesso conformi al perseguimento di strategie ed interessi specifici della nazione americana, durante tutta la sua storia.
    Dopo aver facilmente sconfitto le truppe messicane, gli Stati Uniti sostituirono al governo di Santa Anna un esecutivo filoamericano, con il quale nel 1848 fu firmata la pace. Il Trattato di Guadalupe-Hidalgo sancì l'annessione all'Unione di un territorio immenso, comprendente California, New Mexico e Texas occidentale: il paese era ora una potenza continentale, delimitata da due oceani e proiettata, suo malgrado, in una nuova dimensione in cui sarebbe stata obbligata a condurre una propria politica estera (carta a colori 4).
    Prima di misurarsi con le potenze straniere tuttavia, gli Stati Uniti avrebbero dovuto fronteggiare le drammatiche tendenze centrifughe interne. Nella notevole flessibilità normativa, territoriale ed economica garantita dall'ordinamento federale, si era infatti progressivamente esacerbata la questione - di per sé particolarmente dirimente - della schiavitù. L'assenza di qualsiasi intervento in merito da parte del debole potere centrale aveva contribuito nel tempo ad una inesorabile deriva del dibattito interno circa la presenza della schiavitù nei nuovi Stati federati, sicché si assisteva al moltiplicarsi degli episodi di violenza fra sostenitori di opposte posizioni.
    Quando Abraham Lincoln venne eletto presidente nel novembre del 1860 sulla base di un programma politico volto a contenere il ricorso alla schiavitù, gli Stati meridionali 1 abbandonarono la federazione con atto unilaterale dando vita alla Confederazione degli Stati americani, la cui costituzione fu approvata il 7 febbraio 1861. Tecnicamente, la costituzione americana prevedeva l'abbandono della federazione da parte di uno o più membri, dunque la secessione degli Stati del Sud era da considerarsi pienamente legittima. Ciò nondimeno, un atto giuridicamente ineccepibile aveva portato ad un risultato - la rottura dell'unità nazionale - geopoliricamente inaccettabile, lasciando ciò che rimaneva degli Stati Uniti di fronte al gravoso compito di ridefinire una coerente visione nazionale. Una visione che tenesse conto degli esiti di una scelta federale estrema, straordinariamente efficace nel garantire la libera iniziativa individuale, ma assolutamente inadatta ad assicurare nel tempo la tenuta del patto costituzionale.
    Non appena divenne chiaro che i sudisti si apprestavano ad impugnare le armi per difendere la loro scelta secessionista, Lincoln richiamò 75 mila riservisti e non esitò ad usare il pugno di ferro con il piccolo Maryland, Stato di confine fra Nord e Sud che oscillava fra la fedeltà agli Stati Uniti e l'adesione alla Confederazione. Nella capitale Baltimora, occupata dalle truppe governative, l'istituzione della legge marziale e la sospensione dell'habeas corpus permisero di detenere un gran numero di confederati, in assenza di prove e di un regolare processo a loro carico.
    Al contempo però, il massiccio ricorso alla coscrizione obbligatoria da parte di Washington generava un profondo e diffuso malumore negli Stati del Nord rimasti fedeli all'Unione, nelle cui città si moltiplicavano manifestazioni e disordini. Per la prima volta un forte esecutivo centrale poneva serie limitazioni alla libertà individuale dei cittadini statunitensi, nell'ambito di un'energica azione mirante a difendere l'unità politico-territoriale dello Stato. Primo presidente a concepire ed attuare una compiuta strategia nazionale, Lincoln è dunque il capostipite dei moderni capi di Stato americani, i cui sforzi sono volti a plasmare e indirizzare il paese in base alle rispettive visioni politiche (carta a colori 5).
    Nell'aprile del 1865, al termine della guerra civile, un'America esausta e demoralizzata entrò in una lunga fase di isolamento durata quasi 25 anni, durante i quali la politica estera fu totalmente ignorata e nessuna nuova acquisizione territoriale fu compiuta. In questo periodo, gli Stati Uniti sperimentarono una straordinaria crescita economica e demografica, che si tradusse in un sostanziale aumento della dotazione militare e, dunque, in un rinnovato desiderio di protagonismo internazionale.
    Contrariamente alle previsioni, le circostanze favorevoli ad un'azione militare non si produssero nelle regioni occidentali di più recente acquisizione, bensì sul versante atlantico, che aveva visto la nascita degli Stati Uniti e sulla cui stabilità geopolitica erano in pochi a dubitare.
    Al tempo, la Spagna praticava una politica particolarmente oppressiva e brutale nelle sue colonie, soprattutto a Cuba, suscitando lo sdegno di molti membri dell'establishment statunitense, sempre più favorevoli ad un intervento militare americano contro il paese iberico.
    Il 15 febbraio 1898, nel pieno dei negoziati fra Spagna e Stati Uniti volti ad evitare lo scontro armato, l'incrociatore Maine, ancorato nel porto dell'Avana, esplose uccidendo 260 ufficiali statunitensi. Sebbene le cause dell'incidente non fossero mai chiarite, l'avvenimento comportò l'interruzione dei colloqui e il riconoscimento dell'indipendenza di Cuba da parte americana. La risposta della Spagna fu l'immediata dichiarazione di guerra.
    Sebbene Cuba fosse la causa prima del conflitto, questo finì per coinvolgere la totalità dei possedimenti coloniali spagnoli, portando per la prima volta l'azione militare statunitense a sud dell'equatore. Al termine delle ostilità, nell'agosto del 1898, gli Stati Uniti si ritrovarono in possesso di Puerto Rico, Guam e delle Filippine, nonché con il pieno controllo di Cuba. L'intervento umanitario in favore dell'isola caraibica e una rinnovata fedeltà alla Dottrina Monroe 2 si erano rapidamente tradotti in un sostanziale incremento della proiezione geopolitica statunitense, che ora aveva carattere continentale (carta a colori 6).
    La giovane nazione espansionista diviene così potenza «imperiale". Ciò, unitamente all'annessione delle Hawaii nel luglio dello stesso anno - che fa degli Stati Uniti un attore rilevante nel Pacifico - obbliga il paese a ridefinire radicalmente le proprie priorità geostrategiche e lo stesso concetto di interesse nazionale.

    L'attore geopolitico
    Nel creare le basi del proprio autogoverno, gli Stati Uniti avevano negato alla radice la legittimità di buona parte dell'eredità politica europea, il cui elemento centrale era costituito dal primato dell'interesse nazionale. Ad orientare la politica del giovane paese non sarebbero stati né la tradizione né la realtà geopolitica contingente, bensì i princìpi della razionalità umana, radicati nella natura stessa dell'uomo.
    Dunque, la storia della geopolitica statunitense non concerne solo l'evoluzione di specifici interessi e priorità, ma anche (soprattutto) la nascita e l'affermazione del concetto stesso di interesse nazionale in una nazione di immigrati di varia provenienza, malgrado l'iniziale rigetto dei princìpi su cui esso si fonda (carta a colori 7). Questa circostanza è all'origine di una profonda tensione fra ethos nazionale e condotta geopolitica, che percorre tutta la storia degli Stati Uniti.
    Con la rilevante eccezione di Alexander Hamilton, i primi pensatori americani non miravano a comporre il conflitto apparentemente insanabile fra garanzia delle libertà individuali ed efficace perseguimento dell'interesse nazionale. Essi facevano propria la teoria lockiana secondo la quale regimi fondati sul consenso dei governati, come gli Stati Uniti, erano intrinsecamente pacifici, in quanto svincolati dagli imperativi della raison d état e dalle tradizionali logiche della politica europea. Tale ottica non escludeva l'esistenza di un interesse nazionale americano, ma implicava che esso fosse qualitativamente diverso da quello degli altri Stati, in quanto il suo perseguimento rimaneva inestricabilmente legato alla tutela delle libertà personali.
    La prima teoria geostrategica statunitense scaturì appunto da queste premesse. A fronte del pericolo d'invasione da parte delle maggiori potenze del tempo, gli Stati Uniti furono spinti a salvaguardare la propria libertà d'azione mediante la creazione di uno spazio di sicurezza esclusivo, che garantisse le libertà individuali dei cittadini americani da eventuali ingerenze esterne.
    Il risultato fu la Dottrina Monroe, enunciata per la prima volta dal presidente James Monroe nel discorso annuale al Congresso del 1823. In base ad essa, qualsiasi tentativo di uno Stato straniero di estendere la propria influenza sul continente americano sarebbe stato considerato una minaccia diretta alla sicurezza degli Stati Uniti, i quali avrebbero agito di conseguenza. Con la Dottrina Monroe, che adottava il concetto di «sfere di influenza» proprio della dottrina realista classica, gli Stati Uniti esprimevano per la prima volta una compiuta linea di politica estera.
    Da un punto di vista geostrategico, la Dottrina Monroe si presentava alquanto rudimentale, laddove si preoccupava di garantire al paese il più vasto margine di protezione possibile senza tuttavia formulare obiettivi specifici. Più che a una strategia di lungo periodo, essa assomigliava ad un brillante escamotage per evitare di formularne una. Ciò non impedì alla dottrina in questione di rivelarsi particolarmente efficace nel garantire al paese ancora in formazione la sicurezza di cui esso necessitava. Tuttavia, sul finire dell'Ottocento il suo approccio prettamente «insulare» non era più applicabile ad uno Stato che si apprestava ad emergere come po
    tenza globale 3.
    Sebbene Theodore Roosevelt sia a ragione considerato l'artefice di un nuovo corso della politica estera statunitense, le considerazioni che lo ispiravano erano tutt'altro che rivoluzionarie. Lo stesso fiducioso, incoercibile «americanismo» che aveva animato, fra gli altri, Alexander Hamilton, John Quincy Adams, Henry Clay ed Andrew Jackson era vivo in questo energico presidente, la cui ottica era però affatto nuova, ben più consona alle esigenze di una grande potenza in ascesa.
    Durante tutto il XIX secolo, l'America aveva coniugato idealismo teorico e realismo pratico nell'inespressa ma ferma convinzione che il modo migliore per affermare i propri principi fosse promuovere i propri interessi, a quel tempo limitati al continente americano. Ora, di fronte al carattere extracontinentale di siffatti interessi, Roosevelt si limitò ad enunciare esplicitamente ciò che per lungo tempo era stato praticato: che la grandezza della nazione statunitense richiedeva politiche idonee alla tutela dei suoi interessi.
    Il primo passo in tal senso fu la revisione della Dottrina Monroe, cui Roosevelt aggiunse il suo noto Corollario, in base al quale gli Stati Uniti potevano trovarsi costretti, «sebbene riluttanti e solo in casi di flagrante ingiustizia, ad esercitare funzioni di polizia internazionale' 4. I successivi interventi a Cuba, Panamà e Repubblica Dominicana ne risultarono così pienamente legittimati.
    Con Roosevelt, la concezione statunitense della giustizia internazionale esula dal mero rispetto della legalità, cui per tutto l'Ottocento era stata confinata, e si incentra sulla creazione di un ordine mondiale stabile, in cui le grandi potenze - in particolare gli Stati Uniti - vedessero tutelati i rispettivi interessi. Per questa via, concetti classici della politica estera europea fino ad allora esclusi dal dibattito statunitense, quali 'sfere d'influenza' o «equilibrio dei poteri», entrano a far parte dell'armamentario geopolitico americano. È in questa prospettiva che Roosevelt rifiuta di prestare aiuto alla Germania per bloccare l'espansione francese in Nordafrica, in quanto considera la Germania, non la Francia, la maggior minaccia nel medio periodo. Parimenti, in Asia ignora l'occupazione della Corea da parte del Giappone e sostiene l'aggressione di quest'ultimo alla Russia, convinto che l'impero zarista sia la minaccia più temibile nell'area; la mediazione statunitense porterà nel 1905 alla firma dell'accordo russo-giapponese, che sancisce un nuovo assetto dei rapporti fra i due paesi da cui gli Stati Uniti mirano a trarre il massimo vantaggio 5.
    Una così rapida evoluzione della geopolitica statunitense richiedeva tuttavia un radicale ripensamento del concetto di «eccezionalità» della nazione americana, fortemente radicato nella mentalità del paese. Paese che si percepisce qualitativamente differente dagli altri, in virtù dell'intrinseca giustezza dei propri princìpi e istituzioni, più che quantitativamente superiore, in base alle proprie ingenti risorse materiali. Il principio secondo il quale «noi non siamo solo la grande America, siamo l'America buona» 6, viene ora messo duramente alla prova dalla spregiudicata politica estera di Roosevelt, la quale non mancherà di provocare una 'reazione idealistica», mirante a connettere i princìpi fondanti della nazione alla ormai imprescindibile pratica geopolitica.

    Ritorno all'idealismo
    L'introduzione negli Stati Uniti del vituperato realismo europeo, aveva acuito il conflitto fra le necessità della politica estera e gli ideali universali di libertà e uguaglianza a fondamento della nazione americana. Nonostante la vasta popolarità di Roosevelt, queste tensioni si rivelavano sempre più insostenibili in un paese che vedeva i princìpi a fondamento della propria politica interna sistematicamente smentiti in sede di politica estera. Se fino ad allora tale contraddizione non era esplosa, ciò si doveva soprattutto al fatto che per lungo tempo molta parte della politica estera statunitense non era stata percepita come tale dall'opinione pubblica interna, restia a considerare il proprio paese come parte integrante del sistema di relazioni internazionali. Dopo la presidenza Roosevelt, questa situazione non fu tuttavia ulteriormente tollerabile.
    Fu Woodrow Wilson l'artefice di una profonda revisione degli assiomi su cui, dai tempi dell'espansione territoriale ottocentesca, si era andata costruendo la politica estera statunitense. Sebbene Wilson non negasse affatto all'America il rilevante ruolo internazionale che essa aveva ormai stabilmente assunto, egli era convinto che la grandezza degli Stati Uniti non risiedesse tanto nella loro forza, bensì nell'affermazione dei loro ideali a livello mondiale, a beneficio del genere umano.
    < Il nostro entusiasmo per la libertà individuale e per il libero arbitrio dei popoli non è confinato alle sole vicende che ci riguardano direttamente. Tale entusiasmo è presente dovunque vi sia un popolo che provi a percorrere il difficile sentiero dell'indipendenza e della giustizia» 7. Da questo momento dunque, la politica estera statunitense sarebbe stata guidata dagli stessi criteri che informavano quella interna, il che equivaleva nei fatti ad una rifondazione politica del paese, i cui princìpi fondanti venivano rivalutati nell'ottica di un radicale mutamento degli orizzonti politici e morali nazionali.
    Allo scoppio della prima guerra mondiale nel 1914, Roosevelt e Henry Cabot Lodge sostennero l'assoluta necessità di un immediato coinvolgimento americano, per contrastare la soverchiante forza militare tedesca. Wilson, tuttavia, rifiutò un intervento motivato da considerazioni meramente strategiche. Analogamente ai padri fondatori, egli vedeva nei conflitti europei il frutto delle aberranti scelte di leader non democratici, cui gli Stati Uniti potevano - o meglio dovevano - sottrarsi, a dimostrazione della loro superiorità politico-morale. Il conflitto come scelta dunque, non già come necessità: gli Stati Uniti potevano andare in guerra solo sulla base della volontà ampiamente condivisa di sostenere la democrazia e la pace, nel generale interesse dei popoli.
    Nell'ottica di Wilson, il rovesciamento delle dinastie europee - obiettivo primario delle potenze vincitrici, Stati Uniti in testa - mirava non tanto alla stabilità dell'ordine postbellico, quanto soprattutto a garantire ai popoli coinvolti il pieno esercizio del diritto all'autodeterminazione, indipendentemente dalle conseguenze di ciò sull'assetto geopolitico mondiale. Del resto, tali conseguenze non potevano che rivelarsi positive, laddove l'autodeterminazione dei popoli veniva considerata un'imprescindibile esigenza morale dalla quale sarebbero scaturite pace e stabilità. Quest'approccio conciliante e idealizzato alle dinamiche internazionali, tipicamente statunitense, appariva senz'altro antitetico alla sofferta idea europea di politica internazionale come costante scelta fra opposti inconciliabili.
    In reazione al nuovo carattere spiccatamente internazionalista dell'idealismo americano, nel periodo fra le due guerre le tradizionali tendenze isolazioniste riemersero con forza, determinando un totale ripiegamento del paese sul continente. Sarebbe stata l'ultima volta: dall'attacco di Pearl Harbor del 7 dicembre 1941 fino ad oggi, gli Stati Uniti non hanno più potuto sottrarsi al preminente ruolo internazionale cui la loro oggettiva importanza li obbliga. Tuttavia, questo non implica affatto che il paese abbia definitivamente fatto proprio un approccio squisitamente geopolitico agli affari internazionali.
    Dal punto di vista degli Stati Uniti, ora conquistati agli ideali wilsoniani, la seconda guerra mondiale fu una disastrosa, esatta replica della prima: una Germania dittatoriale e i suoi alleati determinati a sovvertire la naturale armonia dei rapporti internazionali, cui si contrapponeva l'inevitabile reazione dei popoli colpiti nel loro diritto alla libertà. Da qui l'intervento statunitense, dal 1941 al 1945, al fine di eliminare il flagello nazifascista e ripristinare il precedente ordine mondiale.
    Nel corso del conflitto, gli Stati Uniti si trovarono coinvolti in misura crescente nella definizione dell'ordine postbellico. Ciò implicava tuttavia la formulazione da parte dell'America di una strategia di lungo periodo, in cui il ruolo del paese risultasse ben definito e i suoi interessi tutelati al meglio; cosa che gli stessi Stati Uniti erano piuttosto restii a fare. Il leader britannico Churchill in particolare reclamava la necessità di avanzare in profondità nell'Est europeo, onde limitare il più possibile l'insediamento delle truppe sovietiche nella regione. Tali impellenze strategiche non producevano però grande effetto sulla tradizionale avversione statunitense a conciliare obiettivi politici e militari, che nel conflitto rimasero infatti ben distinti: il ruolo dell'esercito era di sconfiggere il nemico, mentre ai politici spettava la definizione di un equilibrio postbellico giusto, tale in quanto basato sui princìpi americani. Al principio della guerra fredda, il contrasto non era dunque fra due nazioni portatrici di opposte visioni geostrategiche, bensì tra una nazione che esprimeva una tale visione e un'altra che ne era affatto priva. Stalin aveva precisi obiettivi territoriali, per i quali era fermamente deciso a negoziare; al contrario, Franklin Delano Roosevelt e più tardi Truman non avevano all'inizio altri scopi al di là dell'instaurazione di un ordine mondiale stabile e pacifico, cui erano convinti di poter pervenire mediante negoziati improntati alla correttezza e alla buona fede. La relativa ingenuità di tali posizioni trova ragione in precise circostanze storiche: durante tutto il periodo della loro straordinaria espansione territoriale, gli Stati Uniti non erano mai stati considerati una seria minaccia dalle grandi potenze europee; ora, nonostante il conflitto appena conclusosi, l'America non riusciva (ancora) a vedere nella mera esistenza di una nazione una minaccia alla propria sicurezza.
    Ciò aiuta a comprendere perché, nell'ottica americana, la guerra fredda non fu mai considerata un esito inevitabile - come i dettami della Realpolitik portavano a ritenere - bensì il risultato della deliberata aggressione sovietica, frutto di una precisa scelta espansionistica maturata in gran parte in epoca staliniana. Del resto, la lunga durata del confronto fu anche diretta conseguenza dell'iniziale rinuncia statunitense a far valere la propria superiorità militare, anche quando ormai le intenzioni dell'Unione Sovietica si erano chiaramente palesate.
    Nel primo dopoguerra, gli Stati Uniti vantavano infatti rispetto all'Urss una netta superiorità economica e tecnologica, alleati più forti, una situazione politica interna molto più stabile e il monopolio dell'arma nucleare. Ciò nonostante, essi rifiutarono di sfruttare questa posizione di vantaggio per tentare di imporre un ordine mondiale ad essi vantaggioso. Al contrario, l'America adottò una postura sostanzialmente difensiva, che rispondeva al bisogno del paese di dare piena giustificabilità morale al proprio ruolo internazionale, di fronte all'aggressività dimostrata dai sovietici. Paradossalmente, fu proprio la persistente negazione di un approccio geopolitico e la reiterata fedeltà agli astratti ideali di libertà e giustizia a trascinare gli Stati Uniti in un duro confronto internazionale durato mezzo secolo, dominato dalla divisione del mondo in sfere d'influenza e dal precario equilibrio fra i due arsenali bellici più devastanti che l'umanità avesse mai conosciuto.
    Nel 1947, a due anni dalla fine della guerra e di fronte al persistere dell'atteggiamento ostile da parte di Stalin, apparve su Foreign Affairs un articolo di George Kennan che fugava ogni residuo dubbio circa le intenzioni sovietiche. «Le origini della condotta sovietica», questo il titolo dello scritto, divenne in breve tempo la base della strategia del «contenimento». In esso si argomentava che l'ideologia comunista avrebbe irrimediabilmente spinto l'Unione Sovietica ad uno scontro permanente con il mondo capitalista e, in particolare, con gli Stati Uniti. «Date queste premesse, è chiaro che l'elemento portante della politica statunitense verso l'Unione Sovietica deve essere un paziente ma fermo sforzo di lunga durata che assicuri il contenimento delle tendenze espansionistiche russe». Nell'ottica di un confronto la cui natura era essenzialmente ideologica, Kennan tracciò le linee guida di una strategia che non mirava a conseguire un primato geopolitico, bensì a dimostrare l'intrinseca superiorità del modello capitalista e delle istituzioni democratiche.
    «Il problema è piuttosto fino a che punto gli Stati Uniti sono capaci di creare fra i popoli l'impressione di essere un paese che sa ciò che vuole, un paese che riesce a fronteggiare con successo i suoi grandi problemi interni e le sfide internazionali di una grande potenza, riuscendo a promuovere i propri ideali a dispetto delle molteplici correnti ideologiche avverse» 9.
    La strategia del contenimento non era perciò una mera riedizione del concetto europeo di equilibrio della potenza; essa era piuttosto uno strumento per scardinare le strutture portanti dell'ideologia comunista, da cui l'espansionismo russo traeva origine. Nell'ottica americana, «il conflitto fra Stati Uniti e Unione Sovietica non traeva origine dallo scontro di due differenti interessi nazionali - i quali, in quanto tali, potevano essere negoziati - ma dal cronico deficit di moralità che affliggeva l'establishment sovietico. Pertanto, il fine ultimo degli Stati Uniti non era tanto garantire il costante equilibrio delle rispettive potenze, quanto trasformare radicalmente la società sovietica» io
    La strategia del contenimento si rivelò a tal punto efficace nel prevedere il corso della guerra fredda e il collasso dell'Unione Sovietica, che retrospettivamente è facile non tener conto di quanto rivoluzionaria essa fosse al momento della sua concezione. Fino ad allora infatti, gli unici ammonimenti circa il possibile emergere di un ordine mondiale postbellico sfavorevole alle democrazie capitalistiche erano venuti da Winston Churchill. Il 9 ottobre 1948, in un discorso a Llandudno, nel Galles, il leader britannico disse: la questione è: cosa accadrebbe se [i sovietici] si dotassero della bomba atomica e costruissero un imponente arsenale nucleare? (...) Nessuno dotato di buonsenso può escludere che ciò avvenga in un tempo relativamente breve. Dovremmo pertanto trarre le dovute conclusioni e prendere una decisione definitiva in merito. Dovremmo evitare di starcene improvvidamente seduti sul bordo del baratro, aspettando che accada qualcosa - senz'altro qualcosa di estremamente negativo per noi. Le nazioni occidentali hanno molte più probabilità di pervenire pacificamente ad un accettabile assetto internazionale se impongono le loro giuste condizioni forti del monopolio atomico; ovvero prima che anche i sovietici si impadroniscano dell'energia nucleare» 11. La strategia del contenimento non delineava precise aree d'influenza statunitensi nel mondo, lasciando così aperta la possibilità di un diretto impegno americano in qualsiasi area del globo in cui la minaccia dell'espansione comunista si manifestasse concretamente. Se nell'immediato dopoguerra il campo di battaglia era stata l'Europa, gli eventi successivi - segnatamente la rivoluzione maoista in Cina e la crisi di Suez, in cui l'Urss ebbe un ruolo determinante - dimostrarono il carattere globale dell'espansionismo sovietico, spingendo gli Stati Uniti ad estendere enormemente lo sforzo anticomunista.
    Da un punto di vista americano, il carattere globale dello scontro era peraltro logica conseguenza della sua natura morale e ideologica. Circoscrivere l'impegno antisovietico a specifiche regioni avrebbe infatti rappresentato per gli Stati Uniti un'inaccettabile abdicazione al ruolo di difensori delle libere democrazie che essi avevano deciso di assumere (carta a colori 8 ).
    La guerra in Vietnam non fu dunque combattuta dagli Stati Uniti a difesa degli opinabili interessi nazionali in Indocina, bensì per arginare l'espansione del comunismo nella penisola, obiettivo questo che non era in discussione. Parallelamente, il crescente dissenso interno relativamente alla campagna vietnamita non originava da una mutata valutazione del pericolo comunista da parte dell'opinione pubblica americana, bensì dai dubbi di questa circa l'aderenza dell'azione americana agli imperativi morali che avevano spinto il paese alla guerra, e più in generale, al confronto con l'Unione Sovietica. «L'establishment americano (...) avrebbe semplicemente potuto dichiararsi contrario alla guerra in Vietnam in quanto tale guerra si stava rivelando impossibile da vincere, per lo meno ad un prezzo accettabile. Avrebbe potuto dichiarare la guerra un errore, magari compiuto con le migliori intenzioni, ma pur sempre mal gestito. Tuttavia non fu così che l'establishment (...) liberale spiegò il proprio fallimento: piuttosto, quella classe politica finì col disconoscere un'intera visione del mondo. Il Vietnam non divenne solo una guerra persa per una giusta causa; esso divenne la metafora di quanto di sbagliato vi era in America, il simbolo dell'eccessiva, erronea fiducia dell'America nella propria superiorità materiale e morale» 12.
    Lo shock del Vietnam portò dunque l'America ad identificare i limiti della propria forza militare con i limiti delle proprie convinzioni morali e dello stesso concetto di giustizia di cui essa si considerava paladina.
    Fu in questo clima di profonda crisi dell'idealismo statunitense che Richard Nixon e il suo segretario di Stato Henry Kissinger inaugurarono una breve, controversa stagione della politica estera americana caratterizzata da un approccio fortemente realista. Quest'approccio ridimensionava il carattere fondamentalmente morale del contenimento, in favore di una strategia regionalizzata che mirava a coniugare la deterrenza della minaccia sovietica con gli specifici interessi statunitensi in ogni singola area del globo. Giunti alla Casa Bianca con la promessa di porre fine alla guerra del Vietnam, Nixon e Kissinger diedero il via ad una rapida escalation del conflitto, al fine di obbligare i vietnamiti a negoziare il ritiro delle truppe statunitensi. > Il primo ritiro su larga scala delle truppe americane nella storia degli Stati Uniti ebbe certamente luogo in circostanze umilianti. (...) Tuttavia, in tal modo (Nixon e Kissinger, n.d.r.) riuscirono a migliorare notevolmente la posizione geopolitica dell'America rispetto alla Cina, all'Unione Sovietica e al mondo arabo» .
    In effetti, questo nuovo approccio geostrategico contribuì molto alla distensione dei rapporti con l'Unione Sovietica, con la quale si arrivò alla firma del primo accordo per la limitazione degli armamenti nucleari; consentì inoltre l'instaurazione di un dialogo con la Cina, che mise gli Stati Uniti in grado di sfruttare a proprio vantaggio le divisioni sino-sovietiche; infine, alla vigilia della guerra dello Yom Kippur, permise agli stessi Stati Uniti di allontanare Egitto e Siria dall'orbita sovietica.
    La politica di Kissinger rifletteva un pragmatismo in gran parte estraneo ai princìpi del tradizionale idealismo americano, in base ai quali: Ogni uomo di Stato deve cercare di conciliare ciò che considera giusto con ciò che ritiene possibile. Ciò che si considera giusto dipende dalla struttura e dalle caratteristiche interne dello Stato; ciò che può ritenersi possibile dipende dalle risorse del paese, dalla sua posizione geografica, e dalle risorse, posizione geografica e struttura interna degli altri Stati, 14. A dispetto dei suoi risultati positivi, questo estremo realismo generò aspre controversie negli Stati Uniti e non tardò a produrre una reazione politico-ideologica, concretatasi nel ritorno ad una politica estera fortemente idealistica, le cui massime espressioni furono l'umanitarismo di Carter e la successiva rivoluzione reaganiana. La stagione di Reagan in particolare sancì il ritorno ai fondamenti morali della strategia del contenimento, cui si accompagnò un repentino abbandono sia del pragmatismo geostrategico kissingeriano che dello slancio pacifista di Carter.
    L'aggressiva politica antisovietica di Reagan prendeva le mosse dalla ferma convinzione che la guerra fredda fosse una realtà inevitabile, in quanto le sue radici affondavano nella natura stessa del regime sovietico: pertanto, l'unico evento in grado di porre fine al confronto sarebbe stato il definitivo annientamento dell'Unione Sovietica.
    L'azione di Reagan in tal senso risulta straordinariamente emblematica dell'approccio statunitense alla politica estera: le tattiche non di rado brutali da lui impiegate (quali il finanziamento di gruppi terroristici in Nicaragua e in Afghanistan, o l'avvio di un intenso programma di riarmo nucleare dai costi esorbitanti) erano poste al servizio di una visione prettamente idealistica, in cui financo la pace e la stabilità internazionale erano sacrificabili sull'altare della lotta all'impero del Male.

    Vivere senza geopolitica?
    Se l'imperativo morale che aveva guidato la geopolitica statunitense del XIX secolo era stato la garanzia della libertà del cittadino americano, nel XX secolo tale imperativo estende la sua portata di pari passo con l'aumento della potenza statunitense, la cui finalità ultima diviene così l'affermazione delle libertà democratiche a livello globale. Nell'un caso come nell'altro tuttavia, la politica estera statunitense manca di una visione geostrategica di lungo periodo che individui e persegua uno specifico interesse nazionale, questa nozione essendo rimasta sostanzialmente estranea al pensiero americano.
    Il carattere contingente, quasi fortuito della geopolitica statunitense non è valso ad evitare al paese due accuse ricorrenti. Da un lato l'America è sovente tacciata di imperialismo. Dall'altro lato essa, che fa professione di sincero idealismo pur praticando costantemente una politica di dominio globale, è accusata di profonda ipocrisia.
    Fino a che punto tali accuse sono fondate? Fino a che punto esse sono l'inevitabile conseguenza della statura politica, economica e militare degli Stati Uniti? Sebbene dalla fine della guerra fredda l'America detenga un incontestabile primato mondiale, durante tutti gli anni Novanta essa ha sistematicamente evitato di tradurre siffatto primato in una visione geostrategica di lungo periodo, in tal modo rinunciando a sfruttare fino in fondo i vantaggi connessi alla sua posizione. Gli attacchi dell'11 settembre 2001 hanno generato l'ovvia reazione americana, che a sua volta ha rinfocolato il profondo antiamericanismo presente in molte società, comprese quelle occidentali.
    Non vi è alcun dubbio che gli Stati Uniti, come qualsiasi altra nazione, abbiano degli interessi specifici, come è indubbio che numerose politiche statunitensi, pur ispirate da alti princìpi ideali, si siano nei fatti rivelate conformi a tali interessi. Altra cosa però è suggerire (e dimostrare) che gli ideali su cui si fonda la nazione americana siano interamente funzionali agli interessi di questa, o che storicamente siffatti ideali siano serviti solo a giustificare il perseguimento di finalità contingenti, più o meno nobili.
    L'incolmabile distanza fra astratti princìpi e necessità storiche crea una tensione permanente, che si manifesta nella tormentata e sovente ambigua relazione degli Stati Uniti con la propria politica estera. In un certo senso, la storia della politica estera americana può essere letta come un costante tentativo di prescindere dalla realtà geopolitica; tentativo che puntualmente si dimostra vano.

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    Predefinito Re: La Biblioteca di BackStage

    Lezione del prof. GIAN LUIGI FALABRINO, docente nel Dams, facoltà di lettere Genova-Imperia
    e al Politecnico di Torino, facoltà di architettura



    ETICA E LEGALITÀ

    Prefazione al volume "Cybertà", antologia di racconti a cura di Emauele Biondi e Maria Grazia Mazzocchi, Libri Scheiwiller 2003 (Il direttore ringrazia vivamente l'editore e i curatori dell'opera per avergli
    consentito di usare sotto forma di lezione la prefazione del professor Falabrino).



    Questo libro di fantasociologia, o fantapolitica, sembra ricollegarsi, involontariamente, alla linea della sociologia apocalittica di quasi cinquant'anni fa che diede molte opere, le più celebri delle quali sono Fahrenheit 431 di Ray Breadbury, dal quale fu tratto il film di François Truffaut (1961) e La settima vittima di Robert Sheckley; divenuta La decima vittima nel film di Elio Petri (1965). Tutta questa fantasociologia americana si rifaceva a sua volta al modello insuperato, Il mondo nuovo di Aldous Huxley (1933). E' interessante notare che da Huxley in avanti, e fino agli autori di questo volume di racconti, l'avvenire lontano si presenta con visioni cupe e pessimistiche, caratterizzate da due filoni principali e quasi sempre coincidenti: l'eccesso di tecnologia, vista come spersonalizzante, nemica dell'anima, strumento di dominio per classi o gruppi oligarchici; e la vita sociale, contraddistinta dalla lotta per la sopravvivenza, homo homini lupus, oppure da una ferrea organizzazione tirannica.

    Eppure in questo libro circola, talvolta implicitamente, talaltra resa esplicita dai racconti, anche quando i fatti narrati appaiono più cupi e disperati, la domanda se anche in un futuro dominato dall'organizzazione e dalla tecnologia sia possibile una forma di legalità, che non sia soltanto la legge del più forte e del dominatore di turno, ma abbia la sua radice nell'etica. Il pessimismo di molti fra questi racconti, e di tutta la fantasociologia, nasce dalla consapevolezza dei mali enormi che il mondo ha attraversato nel Novecento, dalle delusioni dei grandi ideali le cui applicazioni pratiche si sono rivoltate contro quella stessa umanità che volevano servire, e infine da una delusione recentissima, della quale bisognerà cominciare ad avere coscienza: la scoperta della sostanziale crisi della democrazia liberale, al di là della sopravvivenza dei riti elettorali, e nella tendenza diffusa alla democrazia populista. La volontà generale di Rousseau contro la libertà dell'individuo, contro l'eguaglianza di fronte alla legge e la fraternità nell'ordine sociale. Una scoperta che non si rifà alle vecchie teorie di Marx ma alle brucianti esperienze di questo inizio di secolo.

    Il pessimismo sul presente e sul futuro è più che giustificato, sia sul piano degli sviluppi della situazione internazionale dopo l'11 settembre 2001, sia sul piano della legalità nel nostro Paese, dove la conduzione della cosa pubblica come fatto privato di Berlusconi non è più consolante. Anche perciò questo libro di racconti è in qualche modo "figlio" de Il piacere della legalità (1): titolo controcorrente, addirittura provocatorio, come mi disse un giornalista della radio vaticana, ancor prima di leggerlo. E anche perché quel volume contiene, fra gli altri, un saggio di Rosaria Trovato su Perché la legalità, dal sottotitolo molto invogliante: Eichmann e Socrate: obbedire o non obbedire a una legge ingiusta. Proprio da questo saggio è opportuno cominciare una riflessione sul rapporto tra etica e legalità.

    Citando La banalità del male di Hanna Arendt, la Trovato ricorda che Eichmann, nel processo intentatogli in Israele dopo che gli agenti segreti lo avevano rapito in Argentina, si era difeso sostenendo che si era limitato ad eseguire gli ordini, ovvero a obbedire alla legge: "L'enfasi della Arendt non cadeva sull'obbedienza alla legge, ma piuttosto sulla normalità, persino banalità di un uomo il cui comportamento simbolizzava il male che il secolo ventesimo ha prodotto". Obbedire alla legge non è quindi per sé un valore, se la legge è ingiusta, e a questo punto si configura un'opposizione fra diritto positivo e diritto naturale. "Sembra quindi di dover concludere che l'importante non sia tanto obbedire alla legge, quanto piuttosto saper discriminare se la legge sia giusta, e osservare solo quelle leggi che sono giuste", come hanno fatto due grandi uomini come Thoreau e Gandhi.

    Ma non ci sono stati soltanto questi obiettori "morali" alla legge. Il contrasto fra la morale e la legge della città è antichissimo ed è presente nella tragedia classica, sia pure in modi diversi. Ne I Sette a Tebe Eschilo contrappone due forme di diritto, il diritto individuale di Polinice, estromesso dal governo della città, e il diritto della polis a difendersi, anche se governata da un tiranno. Pancaldi e Trombino nella loro antologia sulla giustizia da Omero a Platone, dicono che "Sul rapporto con la polis si fonda la virtù educativa della tragedia eschilea," e citano Farrington per il quale "nelle opere giunte fino a noi, Eschilo si occupò del tentativo di render sicure le basi della democrazia ateniese" (2).
    Confesso a questo proposito una piccola storia personale: quando studiai I Sette a Tebe, non ricordo se in quinta ginnasio o in prima liceo, a me ragazzo che pochi anni prima avevo avuto idee molto confuse fra l'8 settembre 1943, l'occupazione nazista, i richiami fascisti all'onore, le invocazioni alla democrazia, la scoperta di Giustizia e Libertà, clandestina anche durante l'occupazione jugoslava di Trieste dove vivevo (una confusione eguale a quella di tanti ragazzi che erano più vecchi di me di sei, sette, dieci anni), a me - dicevo - la tragedia di Eschilo sembrò in un primo momento l'apologo della situazione italiana di pochi anni prima. Polinice, cioè il re Vittorio Emanuele col suo governo, era la legittimità formale, ma si serviva degli eserciti stranieri per combattere Creonte-Mussolini, cioè Tebe-Italia, la Patria, alla cui retorica eravamo stati educati. E (udite, udite!) tentai, con l'ingenua e infantile presunzione di un sedicenne, di riscrivere la tragedia in chiave "moderna". Non ci riuscii, naturalmente, ma l'esperimento mi servì a riflettere: fermo restando il giudizio, poi confermato dagli studi storici, sulla doppiezza e vigliaccheria di Vittorio Emanuele e Badoglio, il parallelo fra Creonte e Mussolini era tutt'altro che perfetto, perché anche il tiranno era alleato di altri stranieri, e di che genere! E, meno che alleato, servo impotente, fino al punto da non poter neppure protestare per la sostanziale annessione alla Germania del Voralpenland (le province ex austriache di Trento e Bolzano più quella di Belluno) e delle altre province ex austriache dell'Adriatisches Kustenland (Trieste, Gorizia, Pola e Fiume, più Udine). Imparai così che i grandi problemi morali, le scelte che impegnano la vita, non possono mai essere soltanto fra due diritti.

    E proprio un'altra tragedia greca lo conferma, l'Antigone di Sofocle. Antigone è uno dei personaggi più alti della letteratura mondiale, ed è un fatto notabile ed originale che in un'epoca nella quale la donna non contava socialmente nulla (come la stessa sorella, Ismene, ricorda ad Antigone nella tragedia, per esortarla a non trasgredire la legge di un sovrano), Sofocle, vissuto per tutto il quinto secolo avanti Cristo, affidi proprio ad una donna la legge morale da osservare a costo della morte, contro la legge del tiranno. Anche in Sofocle, Polinice, figlio di Edipo e fratello di Eteocle, accampando diritti sulla sovranità di Tebe, cerca di conquistare la città, ma i due fratelli si uccidono a vicenda. Creonte, zio dei giovani e tiranno di Tebe, ordina la sepoltura di Eteocle che aveva combattuto per la patria, e la morte per chi cercasse di seppellire Polinice. Antigone, sorella dei due eroi contrapposti, sceglie la sepoltura di Polinice e la morte: "Io lo seppellirò ... E avrò compiuto un delitto santo". Un delitto santo: per la prima volta nella storia della civiltà compare questa contraddizione enorme e che sarà fruttuosa nel futuro delle società umane. Intanto, Antigone lo compie, questo delitto santo, perché, come afferma davanti al tiranno, lei obbedisce alle leggi inalterabili, non scritte, "quelle che nessuno sa quando comparvero" e alle quali non si può venir meno per l'arroganza di un uomo. E a Creonte che, condannandola, sostiene che "Il nemico non è un amico, neppure da morto", Antigone risponde "Io esisto per amare, non per odiare", affermazione che sembra l'anticipazione del Cristianesimo e anche l'implicita base per la speranza di una società fondata sulle leggi morali (3).

    Ma è un'anticipazione che per il momento non ha sèguito. Però la democrazia ateniese comincia a distinguere fra il diritto democratico (le leggi sono giuste se fatte dai cittadini) e l'autorità dei tiranni. Su questa distinzione si fonda il paradosso della morte di Socrate. Il filosofo, condannato a morte ingiustamente, rifiuta la possibilità di fuggire e quindi di violare la legge che lo obbliga a subire la pena. Perché non fugge e rimane a bere la cicuta, pur proclamandosi innocente, e quindi vittima di una legge che, per ciò che lo riguarda, è ingiusta?

    Ritorniamo al saggio di Rosaria Trovato: Eichmann, essa scrive, era sottoposto ad una legge ingiusta e quindi avrebbe dovuto disobbedire, Socrate, "che viveva nella prima democrazia della storia" ha obbedito alla legge, perché la domanda fondamentale alla quale dovremmo rispondere, è: "Viviamo in un paese in cui ci è data libertà d'influire sulla legge prendendo parte all'attività politica sia passivamente che attivamente, cioè da elettore o da eletto?" La Trovato, sostenendo che la legge l'abbiamo fatta noi, perché abbiamo scelto "chi ci comanda" e perché possiamo sostituirlo, conclude che la legge va rispettata "quando contribuiamo a farla, perché in quel caso ci appartiene".

    Eppure, questa conclusione mi appare del tutto insoddisfacente. La legge della maggioranza non è di per sé garanzia di eticità e di giustizia¸ perché le maggioranze parlamentari si possono pronunciare contro il diritto, contro la Costituzione e a favore degli interessi di un capo (Italia docet). Forse la pena di morte è ingiusta in Cina perché le leggi vi sono promulgate da una dittatura del partito comunista, ed è giusta negli Stati Uniti perché il presidente federale, il parlamento ed i governatori sono liberamente eletti? E, attenzione: spesso la democrazia è puramente formale: Hitler, che nel marzo 1932 aveva ottenuto il 37 per cento dei voti e che nell'ottobre era sceso al 33 per cento, una volta andato al potere con un governo di coalizione per l'insipienza e la complicità dei cattolici e dei liberali, riesce con minacce, intimidazioni e violenze ad avere la maggioranza assoluta (marzo 1933): basta ciò a legittimare le leggi che ne sono seguite? Lo stesso Bush jr. è stato eletto per una differenza di circa 500 voti, contesi e contestati, ma attribuiti a lui da un giudice operante nello stato governato dal fratello del candidato presidente.

    D'altra parte, la tesi della Trovato ricalca quella dello stesso Socrate, così come ci viene riportata da Platone nell'Apologia di Socrate e nel Critone. Debbo ammettere di essere stato un cattivo studente di filosofia, perché non avevo mai capito come Socrate potesse avere subìto la condanna ad opera di una legge, alla cui promulgazione certamente anch'egli come cittadino aveva partecipato, ma che nel suo caso era applicata ingiustamente; e soprattutto non capivo come, da Platone in poi, l'obbedienza di Socrate fosse portata ad esempio di comportamento morale. Riflettendoci da adulto, ho intuito come le possibilità di spiegare questo comportamento sono più d'una. Intanto, a rischio di fare una psicanalisi a fumetti, potrebbe venire il sospetto che dentro di sé Socrate sentisse che le accuse di corruzione dei giovani, ampiamente riportate nei pettegolezzi di Alcibiade, non fossero così infondate, e che quindi il filosofo volesse espiare, più o meno consciamente. Ma non abbiamo alcun elemento che ci permetta di praticare questa ipotesi più romanzesca che psicanalitica.
    Le possibilità d'interpretazione del paradosso socratico sono altre. Intanto, il lato più noto dell'etica greca, il sottofondo comune al sentire di tutti i greci antichi, come ricorda Armando Carlini nell'Introduzione all'Etica nicomachea, è "l'indissolubile vincolo tra i concetti di bellezza e di bontà, riuniti talora esplicitamente nel termine "kalokagazìa", a tradurre il quale nessuna lingua moderna è sufficiente.Lo spirito greco. amava la vita, ma senza foga, ritenendola dolce finché fosse bella: se no, meglio morire... Quella bellezza era verità, se sentita come ritmo del discorso; virtù, se azione armonica in se stessa".

    Su questo sottofondo comune, s'innestava senza contrasti la concezione dell'uomo greco come cittadino, della polis come più importante degli uomini che la compongono: "nella politica - dice ancora Carlini - sboccavano tutte le attività del cittadino ateniese o spartano, a cui la città era più cara dei figli medesimi e di se stesso, perché essa era la madre e l'educatrice degli uomini liberi.. I giudizi di approvazione e di disapprovazione, di bontà e di malvagità, con cui noi indichiamo la sfera etica della nostra attività interna, coincidevano con l'esser degni di pubblico onore o disprezzo, sì che l'azione virtuosa si distingueva dalla viziosa per il carattere costante di lode o di biasimo che l'accompagnava" (4).

    Dunque, la caratteristica, ed il limite, della civiltà greca era il prevalere della polis sul cittadino, retaggio del più antico prevalere della tribù sui suoi componenti, come l'antropologia dei popoli primitivi ci ha dimostrato. La rivoluzione morale e l'era moderna nascono con il precetto evangelico: Ama il prossimo tuo come te stesso, dove l'enfasi e la chiave del concetto sono nel come te stesso: tu, uomo, non sei più soltanto cittadino, ma sei persona, e come tale sei davvero la misura di tutte le cose, anche del giusto e dell'ingiusto. Nasce da qui la possibilità di un diritto naturale, fondamento del diritto positivo o sua condanna, quando il diritto positivo si allontana dal primato della persona. Nasce cioè il primato dell'etica sulla legalità e sulla politica.
    Ernst Troelsch ha ricordato che la teoria del diritto naturale era stato adottato dalla Patristica latina e poi dalla Chiesa cattolica in quanto mediazione fra l'etica cristiana e la vita sociale. La Riforma protestante ha accentuato il valore dell'individuo, "facendo del fedele un figliuolo di Dio, superiore a tutti gl'interessi mondani, e della coscienza un asilo inaccessibile, dove nessun profano, lo stato compreso, può penetrare" (5). E poiché la ragione è la caratteristica della natura umana, il diritto naturale è il diritto razionale. Come dice De Ruggiero, "si vien formando, intorno al nucleo della personalità, un sistema sempre più complesso di diritti, che reintegra, di fronte e contro l'assolutismo monarchico, le antiche libertà e immunità medievali; anzi, le universalizza, rendendone partecipi tutti gli uomini in quanto uomini. Infatti, perché naturali, quei diritti sono innati". Lo Stato nasce dalla convenzione, dal patto sociale, ma ha di fronte l'uomo con diritti innati: è il principio dal quale discenderà lo Stato liberale.

    Dopo i primi accenni giusnaturalisti in Bodin e in Althusius, Alberto Gentile e Ugo Grozio hanno dato forma moderna al giusnaturalismo, cominciando a trattare dello stato di guerra, quando il diritto naturale si oppone all'uso senza limiti della forza. Era anche un modo per sottrarre lo Stato e la vita civile alla continue guerre confessionali, fra cattolici e protestanti: se ne poteva uscire solo fondando lo Stato su basi naturali, pre-confessionali, e negando che fosse giusta la guerra di religione. Ma Grozio va più in là: ammette la validità dei trattati fra persone che professano religioni diverse, perché il diritto di natura è comune a tutti gli uomini; e alla legge naturale accompagna il concetto di religione naturale, che è il fondamento di tutte le religioni positive, e che consiste in quattro princìpi: Dio è unico, è invisibile, è provvidenza e giudice, è creatore di ogni cosa.
    Ma il giusnaturalismo seicentesco contiene due tendenze contraddittorie. Da una parte, fonda lo Stato sulla base del contratto sociale, sul presupposto utilitaristico di Hobbes, cioè sulla natura egoistica dell'uomo, homo homini lupus, il cui sviluppo porterà alla volontà generale di Rousseau, dalla quale deriveranno a loro volta tante perniciose deformazioni del concetto di democrazia. Dall'altra, il giusnaturalismo accoglie "la tradizione stoico-cristiana della scintilla divina immanente nell'anima dell'individuo umano. Qui il giusnaturalismo attribuisce all'uomo dei diritti che sono inalienabili, riconosce cioè nella coscienza dell'individuo una sovrana dignità e autorità morale, cui non può abdicare. Qui si forma cioè il concetto etico della personalità, che non è semplicemente quello giuridico della persona." (6).

    Il giusnaturalismo trova la sua applicazione politica nella Dichiarazione dell'indipendenza americana (1776) e nella Dichiarazione dei diritti dell'uomo (1789). E' il momento nel quale l'ideale morale detta i princìpi generali alla legislazione giuridica. I mangiapreti della Rivoluzione francese, con i loro "immortali princìpi" di Liberté, Egalité, Fraternité, tanto aborriti (a torto) da Benedetto Croce, hanno dato un'interpretazione moderna e politico-sociale alla preminenza che Cristo assegnava alla persona umana, e hanno dato una veste razionale alla centralità e superiorità dell'uomo rispetto alla tribù e alle sue leggi, quando non sono fondate sull'etica.

    Certo, sappiamo tutti come quella filosofia razionalista sembrasse debole e poco realistica ai continuatori di Machiavelli, ai super-realisti che ammiravano la durezza della storia. Ma che alternative hanno saputo offrire? Herder rivaluta la lingua e le canzoni popolari nelle quali si esprime l'anima profonda delle nazioni, cui appartengono gli individui; in Hegel la Nazione si fa Stato, e l'appartenenza diventa subordinazione. Le critiche al razionalismo illuminista, la filosofia della storia che tutto giustifica, con realismo anche cinico, e con la teoria dello Spirito del mondo (Weltgeist) che di volta in volta coincide con lo spirito del popolo dominatore (Volkgeist), hanno portato il Novecento a tutte le dittature possibili: dello Stato, della classe, del partito, con il corollario di infinite ingiustizie e ferocie.

    E quando i critici chiedono ai giusnaturalisti qual è l'ideale, qual è la legge morale universale, dimenticano che uno dei meriti dello storicismo (che pure ne ha avuto), come del romanticismo, è stato proprio quello di distruggere l'idea classica delle norme prefissate, così delle regole etico-giuridiche come dei canoni estetici. Come dice Antoni, nella vita etica la regola "è sempre astratta, sempre inadeguata alla situazione concreta, perché sempre la coscienza è chiamata a rispondere direttamente e senza sussidio alcuno dinanzi alla novità della situazione": la coscienza, cioè l'individuo, la persona, sostenuta dai princìpi dell'89 che non sono norme giuridiche, ma criteri per interpretare e dirigere il comportamento proprio e altrui, e per informare di sé le norme giuridiche, a vantaggio dell'intera collettività.

    Paolo Vita Finzi, in un libro di molti anni fa ma tuttora vitalissimo per l'esattezza delle diagnosi e delle denunce, aveva dimostrato come la cultura europea di fine Ottocento e principio Novecento fosse stata una cultura dei "delusi della libertà": storicisti, marxisti, nazionalisti e imperialisti, sostenitori dello slancio vitale bergsoniano, assertori della libertà dello Spirito e non dell'individuo, si affannavano a criticare e a irridere i "sacri princìpi dell'89" e tutta la "paccottiglia democratica" delle elezioni, dei parlamenti, dei diritti civili (7). La guerra del '14 avrebbe dovuto dimostrare dove stava portando la delusione della libertà e la guerra come normale relazione fra gli Stati, ma Benedetto Croce, ancora nel 1917, si dichiarava grato a Marx "per aver conferito a renderci insensibili alle alcinesche seduzioni della dea Giustizia e della dea Umanità" (8).
    E se più tardi, nella Storia d'Europa e nella Storia d'Italia, sembrò che Croce facesse in continuazione l'elogio dell'altra dea, la Libertà, i suoi studiosi più attenti (Mautino e Cajumi, per esempio: il secondo gli dedicò un articolo dal titolo Croce precursore del fascismo) vi hanno sempre visto il predominio della libertà dello Spirito su quella della persona (9).

    Abbiamo visto, nel Novecento, dove hanno portato il culto della forza e della Storia, dove ha portato il disprezzo della persona. Oggi il mondo occidentale si dichiara democratico e pratica in buona misura i diritti inalienabili della persona. Ma il pessimismo odierno, il pessimismo di tanti fra gli autori di questo libro, ha almeno due cause: fuori del mondo occidentale premono masse povere, invidiose della ricchezza dei paesi industriali, e fanatismi religiosi e terroristici fino al sacrificio della propria vita oltre che allo sterminio del nemico; nel nostro mondo "democratico" serpeggia di nuovo una diversa volontà di potenza, se non altro la potenza del denaro con la correlativa etica del successo ad ogni costo. Legalité di fronte alla legge e la fraternité solidaristica sono messe in crisi quotidianamente dalla nuova lotta di classe condotta dall'alto, che impoverisce le classi medie e toglie sicurezze ai pensionati e ai giovani (10).
    E sui due mondi, sul mondo povero come sul ricco, sovrastano le minacce della sovrapopolazione del mondo povero e dell'abuso delle risorse nell'Occidente: due minacce che il mondo ricco non riesce a fronteggiare, o forse non prende nemmeno in seria considerazione.

    Aumenta intanto la capacità tecnologica individuale, che espone però gli utilizzatori di computer e di telefoni cellulari alle prime minacce. Perché, per esempio, le telefonate sui cellulari debbono restare registrate per vari anni? Alle proteste del Garante italiano per la riservatezza, il ministro dell'Interno risponde "per motivi di sicurezza". Ma la riservatezza è una delle tante forme della libertà. Però ciò è quasi niente in confronto alla sospensione dei diritti costituzionali praticata in vari casi negli Stati Uniti per la lotta al terrorismo. Che sarà della triade illuministica in un mondo sempre più tecnologico, e sempre più spaventato? Chiedersi, come fanno gli autori di questi racconti futurologi, che tipo di legalità potrà sopravvivere in un tale mondo equivale a chiedersi quale sarà il destino della persona. E' possibile che rimanga protagonista? E, naturalmente, parlare del futuro è un apologo per parlare dell'oggi.


    NOTE

    1) AA.VV. Il piacere della legalità (Idee ed esperienze per la convivenza civile), a cura di Jole Garuti , Gian Luigi Falabrino, Maria Grazia Mazzocchi, Libri Scheiwiller, 2002.
    2) a cura di MAURIZIO PANCALDI e MARIO TROMBINO, L'"Apologia di Socrate" di Platone e il problema della giustizia da Omero a Platone, Paravia, 1991
    3)"Essa agisce in nome di una legge non scritta, che si contrappone alla legge della città. Antigone diviene così campione del rispetto di quella legge eterna che è iscritta nel cuore dell'uomo ed è conosciuta attraverso la coscienza", in M. PANCALDI e M. TROMBINO, op. cit., pag. 182.
    4) ARMANDO CARLINI, Introduzione a ARISTOTELE, Etica nicomachea, Laterza, 1950, pagg. 8-9-10.
    Per la comprensione della posizione socratica sulla legge cui il cittadino non deve sfuggire è necessario rifarsi a PLATONE, L'Apologia di Socrate, per esempio nell'edizione a cura di Giovanni Reale, Rusconi Libri, 1993, e a PLATONE, Critone, a cura di Giovanni Reale, Editrice La Scuola, 1977. Soprattutto nell'introduzione al secondo di questi dialoghi platonici, Reale chiarisce molto bene la concezione socratica del logos o ragione (p. XXV), per il quale "non è la vita il bene maggiore, ma la vita ben vissuta, e questa è la vita secondo giustizia... il vivere secondo giustizia significa non commettere mai, in nessuna circostanza e per nessuna ragione, il male e l'iniiustizia; non è lecito rendere male e ingiustizia, neppure se male e ingiustizia ci vengono fatti".
    Ma per comprendere la complessità del pensiero socratico resta fondamentale, l'opera del mio maestro, CARLO MAZZANTINI, Storia del pensiero antico, Marietti, 1949.
    5) GUIDO DE RUGGIERO, Storia della filosofia - Rinascimento Riforma e Controriforma, volume II, Laterza, pag 92 e segg.
    6) CARLO ANTONI, La restaurazione del diritto di natura, Neri Pozza Editore, 1959, pag. 35 e segg.
    7) PAOLO VITA FINZI, Le delusioni della libertà, Vallecchi Editore, 1961.
    8) BENEDETTO CROCE, Materialismo storico ed economia marxistica, prima edizione 1917, nona edizione, Laterza, 1951.
    9) BENEDETTO CROCE, Storia d'Europa nel secolo decimonono
    BENEDETTO CROCE, Storia d'Italia dal 1870 al 1915, prima edizione 1927, decima edizione, Laterza, 1953.
    Per le critiche al particolare liberalismo non liberale di Croce, si veda ALDO MAUTINO, La formazione della filosofia politica di Benedetto Croce, a cura di Norberto Bobbio, Laterza, 1953
    10) EDWARD LUTTWAK, La dittatura del capitalismo, Mondadori, 1999.



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    Claudio Azzara - Le Invasioni Barbariche; 1999; pag 24-30

    Il sentimento della fine e la percezione romana dei barbari


    L'immagine del tardoantico quale epoca di generalizzata crisi spirituale, presso tutti gli strati della società, di fronte ai problemi sempre più gravi con i quali ci si doveva misurare, tanto da costituire un terreno propizio anche per il sorgere di nuovi fermenti religiosi (e spiegare così rapido imporsi del cristianesimo), e talmente consolidata da rischiare di scadere sovente a luogo comune storiografico. E’ peraltro innegabile che le crescenti difficoltà interne ed esterne dovettero alla lunga acuire in modo significativo il senso di precarietà dell'esistenza del singolo individuo e della stessa civiltà romana nel suo complesso, che non erano, del resto, manifestazione del tutto nuova.
    La lunga stagione di stabilità e di benessere seguita all’imposizione della pax augusta, che si vuole inaugurata nel 27 a.C., aveva solo attutito, ma non spento, un sentimento profondamente radicato nella cultura greco-latina, relativo all'ineluttabilità della fine degli imperi, compreso quello romano. L'idea di un invecchiamento in qualche modo “biologico”, e quindi di una progressiva decadenza, della civiltà di Roma continuo a manifestarsi per tutto questo periodo, per lampi e accenni, in autori molto diversi, da Lucrezio a Petronio, da Quintiliano a Tacito, da Floro a Seneca il Vecchio, magari con riferimento ad ambiti differenti e con accenti fra Toro disuguali. Il Senso di un declino al quale non era possibile sfuggire si accompagnò, insomma, allo sviluppo stesso dell'impero e suscitò in molti casi, per reazione, il culto di tutto ciò che era antico, in ossequio a una volontà di cristallizzare l'esistente, di conservare, che era dettata dal timore per l'incertezza insita in ogni forma di innovazione e di cambiamento. Tale percezione assumeva i toni di una crisi di fiducia nella possibilità di un ulteriore sviluppo, quasi di una manifestazione di appagamento da parte di una società che - nelle parole di Aldo Schiavone - «credeva di aver raggiunto tutto, e aveva trasformato le condizioni della sua esistenza in un limite insormontabile, che ostruiva 1'apertura di ogni ulteriore orizzonte”.
    Le convulse vicende politico-militari del III secolo d.C. aggravarono e resero più esplicita la convinzione della prossima fine, identificando il termine dell'esperienza di Roma con il termine del mondo stesso. Queste apocalittiche visioni, diffuse anche negli ambienti cristiani, intrisi di escatologismo, erano spesso fondate su giudizi di natura morale e religiosa, interpretando cioè la fine come il giusto castigo per un regime divenuto oppressivo e per una società ormai corrotta, o come conseguenza diretta di una colpa precisa, fonte di perdizione per tutti. Il sentimento sempre più angosciato del prossimo tramonto della civiltà romana si legò ben presto alla crescente consapevolezza della minaccia costituita dalla selvaggia e turbinosa massa dei barbari, che premeva sui confini dell'impero e che si riusciva a contenere con sempre maggior fatica. Una simile identificazione dovette certamente accrescersi in seguito a eventi di eccezionale gravita, quali la disfatta di Adrianopoli del 378 o il sacco di Roma del 410, ma isolate, precocissime, letture, come quella di un Ippolito o di un Commodiano, gia nel corso del III secolo avevano colto, almeno in parse, i segni dell'imminente crisi nella violenza dei barbari, nella progressiva occupazione da parte loro dei ranghi stessi dell'esercito romano e nella disgregazione della compagine imperiale a causa Belle spinte centrifughe prodotte dalle varie realtà etniche locali. Riconoscimento della causa della fine di Roma, e quindi del mondo, si andava dunque sempre più spostando da un fenomeno di decadimento interno, la corruzione della morale e delle istituzioni, a un pericolo esterno, rappresentato dalle stirpi barbariche.
    Gia alla fine del IV secolo, comparve nei testi letterari il termine Romania, con il significato di ocivilta romana», seccamente opposta alla barbaries. I pagani e i cristiani più colti, mossi dalla medesima preoccupazione per le sorti dello stato di fronte alle incursioni dei barbari, dimostravano nei confronti di questi ultimi un'avversione che riproduceva la generale avversione dell'uomo civile per i popoli incolti e selvaggi e che nei cristiani era ulteriormente alimentata, dopo Costantino e Teodosio, dall'identificazione dell'unita e dell'universalita della loro religione con l'unita e l'universalita dell'impero finalmente cristiano. La possibile caduta di Roma, nelle accorate parole di un Lattanzio o di un Girolamo, veniva avvertita come un segno esplicito della prossima fine dei tempi; del resto, la Bibbia stessa proponeva passi che ben suggerivano l'idea di una terribile minaccia incombente, tanto che Ambrogio, stimolato anche da una certa assonanza letterale, poteva facilmente individuare i Gog e Magog dell'Apocalisse nei temutissimi goti.
    Il vocabolo barbarus, che nella sua origine greca designava genericamente lo straniero, colui che si esprime in una lingua incomprensibile, si era caricato nel tempo dl una valenza sempre più negativa, di disprezzo, applicandosi alle popolazioni ostili e primitive con cui l'impero di Roma aveva dovuto misurarsi nel corso della propria espansione territoriale e che rimanevano ora confinate oltre le frontiere. A formare 1'immagine dei barbari, dei quali sostanzialmente si ignoravano le autentiche espressioni culturali e le ricchissime articolazioni tribali, concorrevano numerosi stereotipi e descrizioni sommarie e spesso apertamente fantasiose: essi parlavano, naturalmente, idiomi inintelligibili, vivevano secondo costumi selvaggi e dimostravano un aspetto semiferino, presentandosi seminudi, sporchi e maleodoranti. Nelle relazioni erano incostanti, impulsivi e infidi, animati da un'astuzia spicciola sempre tesa all'imbroglio, mentre in guerra si battevano si con un'audacia che rasentava la temerarietà, ma erano anche disorganizzati e tatticamente sprovveduti e si scoraggiavano facilmente nelle situazioni avverse. Le esagerazioni potevano spingersi fino ad attribuire loro un cieco furore bellico che li portava a cibarsi di carne cruda e a bere sangue del nemico ucciso, a ribadirne la natura quasi animalesca (ma, forse, alla base di simili testimonianze vi può anche essere la traccia, magari deformata, di reali pratiche magico-cultuali). Insomma, il mondo dei barbari era per i romani una galassia nel suo insieme poco nota e che poco interessava conoscere, appiattita in una dimensione convenzionalmente negativa, ma avvertita nel suo insieme come sicuramente ostile, composta da genti minacciose, costrette a condurre la propria esistenza in regioni fredde e sfavorevoli e per questo sempre pronte a mettersi in movimento, al fine di spostarsi nelle miti e fertili regioni mediterranee, per depredarle.
    Allo stesso tempo, comparivano anche alcuni testi in cui i barbari, all'opposto, venivano dipinti in termini del tutto positivi, come una sorta di “buoni selvaggi”, eticamente integri e dotati di molteplici virtù (coraggio, vigore, lealtà, rettitudine, pudicizia, sobrietà, religiosità), da contrapporre, con forza di esempio, ai sempre più corrotti costumi romani. E questo il caso, tra i molti che si potrebbero citare, della descrizione che offre Tacito dei germani, oppure di quelle di Pompeo Trogo e di Giustino in riferimento agli sciti. Si trattava, con tutta evidenza, di palesi deformazioni con finalità moraleggianti, alle quali premeva essenzialmente biasimare la societa imperiale del proprio tempo, esaltando per contrasto le virtù colte come proprie della Roma arcaica e proiettate ora sulle “giovani” stirpi barbariche. Anche in questa circostanza, così come in quella precedentemente ricordata, 1'immagine del barbaro che ne sortiva era fondamentalmente un'astrazione, e non certo un ritratto obiettivo e puntuale di coloro che vivevano al di la del limes.
    Indipendentemente dalle forme di percezione del barbaro in se, alla cultura romana si pose anche il problema di elaborate concettualmente, e di tradurre in comportamenti concreti, i modi di espressione delle relazioni con le stirpi barbariche con cui si entrava in contatto. Le soluzioni proposte al riguardo furono difformi. Buona parte della società romana, con il precipitare della situazione complessiva, auspicava un sollecito ritorno a una condizione di pace, da raggiungere a ogni costo, soffocando una volta per tutte la violenza dei barbari con la forza delle armi (ma ciò rappresentava ormai un'utopia), ovvero, in modo più realistico, componendola tramite patti e accordi e con lo stanziamento di popolazioni barbariche in province periferiche. Si sperava anche che le stirpi dislocate lungo il limes, più romanizzate per i frequenti contatti che esse avevano con l'impero, potessero venire sfruttate come cuscinetto di protezione rispetto agli altri barbari, tanto più selvaggi in quanto più remoti, anche geograficamente, dalla romanita. Dopo Adrianopoli, i toni ostili ai barbari si accentuarono e si prese a biasimare ogni condotta suscettibile di essere interpretata come un segnale di debolezza nei loro confronti, vagheggiando che il popolo romano, ritrovato un improvviso - e, vista la situazione, improbabile - vigore, potesse perfino schiacciarli militarmente, in modo definitivo; oppure, si sperava, quanto meno, che un successo delle armi romane, seguito da atti di benevola disponibilità degli imperatori verso i vinti, potesse condurre a una pacificazione generale. In simili termini si esprimevano (pur con sfumature diverse) sia testi pagani, come i Panegirici redatti in Gallia per gli imperatori del III-IV secolo o come il poeta Claudiano, sia autori cristiani, quali Eusebio di Cesarea o Giovanni Crisostomo. A quest'epoca si confidava ancora nella capacità difensiva dell'impero e nel ruolo di protezione esercitato dai confini e venivano lodati, pertanto, quei sovrani (come Giuliano o i Valentiniani) che alla cura e al consolidamento del limes si erano dedicati con scrupolo e con efficacia. La fiducia nelle strutture di difesa venne meno soprattutto in seguito alle incursioni in Italia di Alarico, tra il 401 e il 410, e da allora in avanti si andò sostituendo all’esaltazione della funzione di tutela svolta dal limes quella dell'abilita personale del generale vittorioso, unico reale elemento di garanzia per una Roma altrimenti esposta a ogni pericolo.
    Nella pax occidentis dell'impero i sentimenti di totale chiusura e di ostilita verso i barbari - sempre più presenti, anche dentro i confini - si alternarono, peraltro, a molteplici espressioni di accettazione, così come a orientamenti politici tesi al dialogo e a uno sforzo di assimilazione - fatti propri, ad esempio, da potenti generali come Stilicone o Ezio - corrisposero disperati sforzi di riscossa armata (come con l'assassinio dello stesso Stilicone, che era vandalo e che venne accusato di arrendevolezza verso i barbari, suoi simili); ci furono anche atteggiamenti di puro ripiegamento difensivo, con la residenza imperiale spostata da Milano alla ben protetta Ravenna, nel 402, e con un crescente rivolgersi a Costantinopoli quale unico, autentico, baluardo dell'impero, ben più reattivo dell'Occidente rispetto al pericolo esterno. In Oriente, infatti, più compatta si era dimostrata la reazione contro i barbari, ai quali, sin dal ricordato eccidio di goti del 400, era stato precluso ogni accesso alle gerarchie dello stato e dell'esercito, badando nel contempo a preservare il territorio da ogni significativa infiltrazione. Costantinopoli si poneva così nel solco della millenaria tradizione ellenica di radicale intransigenza antibarbarica e poteva assumere a pieno titolo il vessillo della genuina eredità di Roma.
    A ovest si era indotti dunque a una maggiore elasticità e se concordi si levavano, nelle varie province (dalla Gallia di Rutilio Namaziano e di Sulpicio Severo all'Africa di Vittore Vitense, passando per l'Italia di Simmaco, di Ambrogio e di Girolamo), i lamenti contro la debolezza delle istituzioni, a causa dell'eccessiva dipendenza dai barbari, il ceto dirigente romano era obbligato suo malgrado a intrattenere rapporti con i grandi generali barbari, bene o male assimilati e ritenuti più o meno funzionali agli interessi supremi di Roma. Nel corso del tempo, con il moltiplicarsi dei casi di insediamento in forme stabili di stirpi barbariche entro i confini dell'impero, l'atteggiamento della cultura romana, sempre più largamente cristiana, nei riguardi di queste prese lentamente a mutare, sia che ci si fosse ormai arresi a una situazione di fatto non modificabile, e con la quale bisognava in qualche modo venire a patti, sia che emergessero delle reali istanze di apertura al dialogo e, da parte cristiana, delle embrionali forme di pastorale. Si schiudeva, infatti, la possibilità di inserire le gentes nel mondo romano attraverso la cristianizzazione, che per le diverse stirpi avvenne inizialmente, come è noto, nella forma eretica ariana, ad eccezione dei franchi, passati direttamente dal paganesimo all'ortodossia cattolica. Anche in campo cristiano, le posizioni rimasero tuttavia fortemente articolate, condizionate, nei diversi periodi e nelle differenti province, dalla situazione contingente. Cosi, per un Vittore Vitense che, di fronte alle terribili devastazioni compiute nella sua Africa dai vandali, continuava a considerare i barbari alla stregua di belve irredimibili, c'era un Salviano di Marsiglia il quale, con toni moralistici di remota ascendenza, era in grado di opporre ai vizi del corrotto mondo romano la purezza delle virtù barbariche. Il problema della presenza barbarica negli autori cristiani si ammantava sovente, d'altro canto, di toni provvidenzialistici (non estranei anche ad alcuni scrittori pagani): la violenza dei barbari, così temuta, poteva essere letta come un veicolo della giusta punizione divina per i gravi peccati commessi dai romani, oppure costoro, anziché una semplice massa ostile, potevano venire rivalutati quale gregge di anime offerte dalla volontà di Dio all'evangelizzazione.
    Dopo il 476, il problema del rapporto con i barbari non si pose più nei termini di una semplice coesistenza o di generiche forme di contatto, ma in quelli, assai più concreti, di un'accettazione del loro dominio diretto sui territori gia imperiali; e nella lenta e difficile edificazione del nuovo ordine, proprio la Chiesa, ormai sostituitasi alle decadute autorità civili romane, giocò un ruolo di primo piano nel trattare con i nuovi signori barbarici, potendosi avvalere dello specifico canale di comunicazione costituito dal messaggio religioso. In una simile prospettiva, nel mentre “romano” veniva ormai a coincidere con «ocattolico», “barbari” autentici erano destinati a restare, nel tempo, solo quei popoli esterni alla cristianità.

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    Predefinito Re: La Biblioteca di BackStage

    "Sono quasi 60 anni che l'Apologia della storia viene letta e riletta", scritta da Marc Bloch nei suoi anni di partigianeria è un esempio di stile e di fascino. Certo, i concetti di estetica storiografica che propone sono in parte superati, ma lo scritto non è né un metodo né un saggio: è un dialogo con il lettore che vale per quello che è - uno splendore.

    Comunque il tipo (che poi sarebbe Bloch) deve essersi fatto tutte le citazioni a memoria, giacchè dubito che s'arrischiasse la pelle (pace comunque all'anima sua) per andare in qualche biblioteca, a recuperare riscontri.

    Questo è il capitolo "Introduzione"; più precisamente:

    =-_-==-_-==-_-==-_-=

    “Introduzione” alla redazione definitiva de “Apologia della storia, o Mestiere di storico” di Marc Bloch; Biblioteca Einaudi


    «Papà, spiegami allora a che serve la storia». Cosí un giovinetto, che mi è molto caro, interrogava, qualche anno fa, il padre, uno storico. Del libro che si leggerà, vorrei poter dire che è la mia risposta. Giacché, per uno scrittore, non mi immagino lode piú bella che di saper parlare, con il medesimo tono, ai dotti e agli scolari. Ma una semplicità cosí raffinata è privilegio di alcuni rari eletti. Tuttavia quell'interrogativo di un fanciullo del quale, sul momento, non sono forse troppo ben riuscito a soddisfare la sete di sapere, lo metterei volentieri qui come epigrafe. Alcuni, senza dubbio, riterranno ingenua la formula. Mi pare invece perfettamente appropriata. Il problema che pone, con l'imbarazzante immediatezza di quell'età inesorabile, è nientemeno che quello della legittimità della storia'.
    Ecco dunque lo storico chiamato alla resa dei conti. Egli non vi s'arrischierà che con un certo tremito interiore: quale artigiano, invecchiato nel mestiere, si è mai chiesto, senza una stretta al cuore, se ha fatto un saggio impiego della sua esistenza? Ma la discussione oltrepassa di molto i piccoli scrupoli' di una morale corporativa. Vi è interessata, tutta intera, la nostra civilizzazione occidentale.
    Infatti, a differenza di altri tipi di cultura, essa ha sempre chiesto molto alla propria memoria. Tutto ve l'induceva: il retaggio cristiano come il retaggio antico. I Greci e i Latini, nostri primi maestri, erano popoli scrittori di storia. Il cristianesimo è una religione di storici. Altri sistemi religiosi hanno potuto fondare le loro credenze e i loro riti su una mitologia quasi estranea al tempo umano; come Libri sacri, i cristiani hanno dei libri di storia, e le loro liturgie commemorano, con gli episodi della vita terrena di un Dio, i fasti della Chiesa e dei santi. Storico, il cristianesimo lo è anche per un altro aspetto, forse piú profondo: posto fra la Caduta e il Giudizio, il destino dell'umanità appare, ai suoi occhi, come una lunga avventura, di cui ogni vita individuale, ogni «pellegrinaggio» particolare rappresenta, a sua volta, il riflesso; è nella durata, dunque nella storia, che si svolge il gran dramma del Peccato e della Redenzione, asse centrale di ogni meditazione cristiana. La nostra arte, i nostri monumenti letterari sono pieni degli echi del passato; i nostri uomini di azione hanno continuamente sulle labbra i suoi insegnamenti, veri o presunti.
    Senza dubbio, fra le psicologie dei gruppi sarebbe opportuno sottolineare piú di una differenza. Molto tempo fa Cournot lo ha osservato: eternamente inclini a ricostruire il mondo secondo le linee della ragione, i Francesi, nella loro maggioranza, vivono i propri ricordi collettivi molto meno intensamente che, ad esempio, i Tedeschi. Anche le civilizzazioni, senza dubbio, possono mutare. Non è di per sé inconcepibile che un giorno la nostra si allontani dalla storia. Gli storici faranno bene a riflettervi. La storia mal compresa potrebbe proprio, se non vi si pone attenzione, finire col trascinare nel proprio discredito la storia meglio intesa. Ma se dovessimo mai arrivare a tal punto, ciò avverrebbe a costo di una violenta rottura con le nostre piú costanti tradizioni intellettuali.
    Per il momento noi ci troviamo, in proposito, nella fase dell'esame di coscienza. Ogni volta che le nostre tristi società, in perpetua crisi di sviluppo, prendono a dubitare di se stesse, paiono domandarsi se abbiano avuto ragione di interrogare il loro passato, o se l'abbiano interrogato bene. Leggete ciò che si scriveva prima
    della guerra, ciò che si può scrivere ancor oggi: fra le diffuse inquietudini del tempo presente, sentirete, quasi immancabilmente, questa inquietudine mescolare la sua voce alle altre. In pieno dramma, mi fu dato di coglierne l'eco del tutto spontanea. Era il giugno 1940, il giorno stesso, se ben mi rammento, dell'entrata dei Tedeschi in Parigi. Nel giardino normanno in cui il nostro stato maggiore, senza truppe, trascinava i suoi ozi, rimuginavamo le cause del disastro: «Bisogna credere che la storia ci abbia ingannati?», mormorò uno di noi. Cosí l'angoscia dell'adulto riprendeva, con più amaro accento, la semplice curiosità del ragazzino. Bisogna rispondere all'una e all'altra.
    È anche opportuno, comunque, sapere quel che voglia dire questa parola «servire».

    Senza dubbio, anche se la storia dovesse essere giudicata incapace d'altri compiti, rimarrebbe da far valere, in suo favore, ch'essa è divertente. O, per essere piú esatti - dal momento che ognuno cerca le sue distrazioni' dove gli piace -, ch'essa, incontestabilmente, pare esser tale per un gran numero di esseri umani'. Personalmente, per quanto all'indietro me ne rammenti, mi ha sempre divertito molto. Come tutti gli storici, penso. Altrimenti, per quali motivi avrebbero scelto questo mestiere? Per chiunque non sia completamente sciocco, tutte le scienze sono interessanti. Ma ogni studioso non ne trova se non una sola la cui pratica lo diverta. Scoprirla per consacrarvisi è, propriamente, quel che si chiama `vocazione'.
    D'altronde, questo innegabile fascino della storia merita già, in sé, di attirare la riflessione.
    Come germe' e come pungolo, il suo ruolo è stato e resta fondamentale. Prima del desiderio di conoscenza, il semplice gusto; prima dell'opera di scienza, pienamente conscia dei suoi fini, l'istinto che vi conduce; l'evoluzione del nostro comportamento intellettuale abbonda in filiazioni di questo tipo. Persino i primi passi della fisica debbono non poco ai «musei di curiosità». Abbiamo visto, pari pari, le piccole gioie del bric-à-brac figurare alla culla di piú d'un orientamento di studi che s'è, poco a poco, caricato di seriosità. Tale la genesi dell'archeologia e, piú vicino a noi, del folclore. I lettori di Alexandre Dumas non sono forse altro che storici in potenza, cui difetta solo l'esser stati orientati a godere di un piacere piú puro e, a mio giudizio, piú acuto: quello delle tinte autentiche.
    Che, d'altra parte, questo fascino sia ben lungi dal dissolversi, una volta intrapresa la ricerca metodica, con le sue indispensabili asprezze; che anzi proprio allora ne guadagni ancora - tutti gli storici [veri] possono attestarlo - in vivacità e in pienezza: nulla v'è qui, a mio avviso, che non sia vero per qualunque attività dello spirito'. La storia, tuttavia, nessuno potrebbe dubitarne, ha i propri godimenti estetici, che non assomigliano a quelli di nessun'altra disciplina. Il fatto è che la rappresentazione delle attività umane, che costituisce il suo oggetto specifico, è, piú di ogni altra, fatta per sedurre l'immaginazione degli uomini. Soprattutto quando, grazie al loro distanziamento nel tempo e nello spazio, il loro dispiegarsi si colora delle sottili seduzioni del diverso. Il grande Leibniz in persona ce ne ha lasciato la confessione: allorché dalle astratte speculazioni matematiche o della teodicea passava alla decifrazione delle vecchie carte o delle antiche cronache della Germania imperiale, provava, proprio come noi, questa «voluttà d'apprendere cose singolari». Guardiamoci dal togliere alla nostra scienza la sua parte di poesia. Guardiamoci soprattutto, come ne ho sorpreso il sentimento in taluni, dall'arrossirne. Sarebbe una straordinaria sciocchezza il credere che essa, per esercitare sulla sensibilità un richiamo cosí potente, debba essere meno capace di soddisfare altresí la nostra intelligenza.
    telligenza. Questo diceva nel 1938. Nel 1942, quando scrivo a mia volta, quanto si carica, questa affermazione, d'un senso ancora più pesante! Certamente, in un mondo che ha appena affrontato la chimica dell'atomo e comincia appena a scandagliare il segreto degli spazi stellari, nel nostro povero mondo che, giustamente fiero della sua scienza, non arriva però a crearsi un po' di felicità, le piccole minuzie dell'erudizione storica, capacissime di divorare tutta un'esistenza, meriterebbero di essere condannate come uno scialo di forze assurdo al punto da essere criminale, se non dovessero riuscire ad altro che a rivestire d'un po' di verità uno dei nostri svaghi. O bisognerà sconsigliare la pratica della storia a tutti gli spiriti capaci di impiegarsi meglio altrove, o è come conoscenza che la storia dovrà provare la sua buona coscienza.
    Ma qui si pone una nuova questione: che cos'è, propriamente, che fonda la legittimità di uno sforzo intellettuale?
    Nessuno, credo, si azzarderebbe piú a dire, oggi, con i positivisti di stretta osservanza, che il valore di una ricerca si misura, in tutto e per tutto, dalla sua capacità di servire all'azione. L'esperienza non ci ha soltanto insegnato che è impossibile decidere in anticipo se le speculazioni in apparenza piú disinteressate non si riveleranno, un giorno, straordinariamente feconde nei confronti della pratica. Sarebbe infliggere all'umanità una ben strana mutilazione il rifiutarle il diritto di cercare, al di fuori da ogni preoccupazione di benessere, l'appagamento dei suoi appetiti intellettuali. Dovesse anche la storia essere eternamente indifferente all'homo faber o politicus, basterebbe, a sua difesa, esser riconosciuta come necessaria al pieno dispiegarsi dell'homo sapiens. Tuttavia, anche cosí delimitata, la questione non è, per questo, risolta al primo colpo.
    Infatti la natura del nostro intelletto lo porta molto meno a voler sapere che a voler comprendere. Dal che risulta che le sole scienze autentiche sono, a suo giudizio, quelle che riescono a stabilire nessi esplicativi tra i fenomeni. Il resto non è, secondo l'espressione di Malebranche, altro che «polimazia». Ora, la polimazia può ben apparire come distrazione o mania; ma oggigiorno, non piú che all'epoca di Malebranche, non potrebbe passare come una delle buone opere dell'intelligenza. Anche indipendentemente da ogni possibilità di applicazione alla condotta pratica, la storia avrà dunque il diritto di rivendicare il suo posto fra le conoscenze veramente degne d'impegno solo nella misura in cui essa ci consentirà, invece di una semplice enumerazione, senza nessi e quasi senza limiti, una classificazione razionale e una progressiva intelligibilità.
    Non si può negare, però, che una scienza ci apparirà sempre dotata di una certa incompletezza se non si assumesse, prima o poi, il compito di aiutarci a vivere meglio. In particolare, come non proveremmo con maggior forza questo sentimento nei confronti della storia, tanto piú chiaramente destinata, si crederebbe, a lavorare a vantaggio dell'uomo, in quanto essa ha per oggetto l'uomo stesso e i suoi atti? In effetti, un'antica inclinazione, cui si vorrà concedere almeno valore di istinto, ci spinge a richiederle i mezzi per guidare la nostra azione; e dunque, a indignarci contro di essa, come il soldato sconfitto di cui rammentavo' le parole, se, per caso, essa sembri manifestare la sua impotenza a fornirceli. Il problema della utilità della storia, in senso stretto, nel senso «pragmatico» del termine `utile', non si confonde con quello della sua legittimità, propriamente intellettuale. E non può venire, d'altronde, che ai secondo posto: per agire ragionevolmente, non occorre prima comprendere? Ma a rischio di non rispondere se non a metà alle piú imperiose suggestioni del senso comune, neanche questo problema potrà essere eluso.

    A questi interrogativi, taluni fra i nostri `consiglieri', o che tali vorrebbero essere, hanno già risposto. La qual cosa è avvenuta per ridimensionare le nostre speranze. I piú indulgenti hanno detto: la storia è senza profitto come senza solidità. Altri, la cui severità non indulge a mezze misure: essa è dannosa. «Il prodotto piú pericoloso che la chimica dell'intelligenza abbia elaborato»: cosí ha sentenziato uno di loro [e non dei meno noti]. Queste condanne esercitano un temibile fascino: giustificano a priori l'ignoranza. Fortunatamente, per quel poco di curiosità dello spirito che ancora in noi sussiste, esse non sono forse senza appello.
    Ma se il dibattimento deve essere riesaminato, occorre che ciò avvenga sulla base di dati più sicuri.
    Perché c'è una precauzione di cui i detrattori abituali della storia non sembrano essersi preoccupati. La loro parola non manca né di eloquenza né di spirito. Ma essi hanno, in maggioranza, tralasciato di informarsi con esattezza di ciò di cui parlano. L'immagine che dei nostri studi essi si fanno non si è formata in laboratorio. Sa di retorica e di accademia piú che di `gabinetto di
    lavoro`. Soprattutto, essa è morta e sepolta. Cosí che potrebbe darsi che tanta verve sia stata, in fin dei conti, profusa per esorcizzare nient'altro che un fantasma. Il nostro sforzo, qui, dev'essere ben diverso. I metodi di cui noi cercheremo di soppesare il grado di certezza saranno quelli che realmente la ricerca adopera, fin nell'umile e delicato dettaglio delle sue tecniche. I nostri problemi saranno i problemi stessi che allo storico impone, quotidianamente, la sua materia. In una parola, si vorrebbe, prima di tutto, dire come e perché uno storico pratica il suo mestiere. Sta al lettore, poi, decidere se questo mestiere meriti d'essere esercitato.

    Stiamo ben attenti, comunque. Solo in apparenza il compito, anche cosí inteso e precisato, può ritenersi semplice. Forse lo sarebbe, se fossimo in presenza di una di quelle arti applicate di cui si è a sufficienza dato conto quando se ne sono elencati, uno dopo l'altro, i movimenti delle mani da gran tempo sperimentati. Ma la storia non è l'orologeria o l'ebanisteria. Essa è uno sforzo verso il miglioramento della conoscenza: perciò qualcosa di dinamico. Limitarsi a descrivere una scienza nel modo in cui si fa, sarà sempre tradirla un pochino. Piú importante ancora è dire come essa spera progressivamente di farsi. Ora, da parte dell'analista, una simile impresa esige per forza un tasso assai alto di scelta personale. [Infatti ogni scienza, in ognuna delle sue fasi, è costantemente attraversata da tendenze divergenti, che non è proprio possibile districare senza una sorta di scommessa sull'avvenire.] Non si conta qui di indietreggiare dinanzi a questa necessità. In campo intellettuale, non piú che in alcun altro, l'orrore delle responsabilità non è un sentimento molto commendevole. Tuttavia, non era che onesto avvertire il lettore.
    Dopo tutto, le difficoltà in cui inevitabilmente si imbatte qualunque studio dei metodi variano di molto a seconda del punto che ogni disciplina si trova ad aver momentaneamente raggiunto sulla curva, sempre un po' irregolare, del proprio sviluppo. Cinquant'anni fa, quando Newton la faceva ancora da maestro, era molto piú facile di oggi, credo, costruire, con rigore d'immagine, una esposizione della meccanica. Ma la storia è ancora in una fase ben piú sfavorevole alle certezze.
    Infatti la storia non è solo una scienza in cammino. È anche una scienza nell'infanzia: come tutte quelle che, come oggetto, hanno lo spirito umano, quest'ultimo arrivato nel campo della conoscenza razionale. O per meglio dire, vecchia nella forma embrionale del racconto secolare carico di miti, piú vecchia ancora nel suo attaccamento agli avvenimenti piú immediatamente afferrabili, essa è, come impresa ragionata di analisi, giovanissima. Stenta a penetrare, infine, al di sotto dei fatti di superficie, a respingere, dopo le seduzioni della leggenda o della retorica, i veleni, oggi piú pericolosi, della routine erudita e dell'empirismo, travestito da senso comune. Essa è rimasta, su alcuni problemi essenziali di metodo, ai primi passi. Ed è per ciò che Fustel de Coulanges e, prima di lui, Bayle, non avevano proprio del tutto torto quando la definivano «la piú difficile di tutte le scienze»".

    [È una illusione, però? Per quanto incerta rimanga, in molti punti, la nostra strada, noi ci troviamo, oggi, mi sembra, meglio piazzati dei nostri immediati predecessori, per vederci un po' chiaro.
    Le generazioni che sono venute immediatamente prima della nostra, negli ultimi decenni del secolo xix e fino ai primi anni del secolo xx, hanno vissuto come ipnotizzate da un'immagine molto rigida, un'immagine veramente comtiana delle scienze del mondo fisico. Estendendo all'insieme delle acquisizioni dello spirito questo schema prestigioso, pareva loro, di conseguenza, che non potesse esistere conoscenza autentica che non dovesse pervenire a dimostrazioni senz'altro irrefutabili, a certezze formulate sotto forma di leggi imperiosamente universali. Ecco un'opinione quasi unanime. Ma, applicata agli studi storici, diede origine, a seconda dei temperamenti, a due opposte tendenze.
    Gli uni credettero possibile, in effetti, istituire una scienza dell'evoluzione umana che si conformasse a quell'ideale in qualche modo panscientifico e si adoperarono il meglio possibile per
    realizzarlo: salvo, poi, rassegnarsi a lasciare infine al di fuori dell'orizzonte di questa conoscenza degli uomini numerose realtà molto umane, ma che apparivano loro disperatamente ribelli a un sapere razionale. Questo residuo era ciò che essi, sdegnosamente, chiamavano `avvenimento'; eppure costituiva buona parte della vita piú intimamente individuale. Tale fu, in sostanza, la posizione della scuola sociologica fondata da Durkheim. Almeno, se non si tien conto degli addolcimenti che alla originaria rigidezza dei principi vedemmo a poco a poco apportati da uomini troppo intelligenti per non sottoporsi, fosse pure loro malgrado, alla pressione delle cose. I nostri studi devono molto a quello sforzo poderoso. Esso ci ha insegnato ad analizzare piú in profondità, a stringere piú da vicino i problemi, a pensare, oserei dire, meno alla buona. Non se ne parlerà qui che con infinita riconoscenza e con rispetto. Se oggi pare superato, questo è, per tutti i movimenti intellettuali, prima o poi, il prezzo della loro fecondità.
    Altri studiosi, però, assunsero, nello stesso periodo, un atteggiamento ben diverso. Non riuscendo a inserire la storia negli schemi del legalismo fisico, particolarmente preoccupati, inoltre, a motivo della loro educazione di base, dalle difficoltà, dai dubbi, dal frequente ricominciare proprio della critica documentaria, essi attinsero anzitutto, da quelle constatazioni, una lezione di disingannata umiltà. La disciplina cui dedicavano le loro capacità non parve loro, in fin dei conti, capace, né nel presente, né nel futuro, di molte prospettive di progresso. Furono indotti a vedervi, piú che una conoscenza veramente scientifica, una sorta di gioco estetico o, nel caso migliore, di esercizio igienico utile alla salute mentale. Si è dato loro il nome, talvolta, di «storici storicizzanti»: nomignolo ingiurioso della nostra corporazione, dal momento che sembra far consistere l'essenza della storia nella negazione stessa delle sue possibilità. Per mio conto, troverei loro volentieri, nel momento del pensiero francese cui si ricollegano, una raffigurazione più espressiva.
    Il simpatico e schivo Sylvestre Bonnard, se si sta alle date che l'opera fissa per la sua attività, è un anacronismo: proprio come quegli antichi santi che gli scrittori del Medioevo dipingevano, ingenuamente, con i colori del loro proprio tempo. Sylvestre Bonnard (solo che si voglia davvero supporre, per un attimo, per quest'ombra fantastica una esistenza secondo la carne), il vero Sylvestre Bonnard, nato sotto il primo Impero, la generazione dei grandi storici romantici l'avrebbe ancora annoverato fra i suoi; egli ne avrebbe condiviso gli entusiasmi commoventi e fecondi, la fede un po' candida nell'avvenire della «filosofia» della storia. Mettiamo fra parentesi il periodo cui si è supposto egli sia appartenuto e restituiamolo a quello che vide scrivere la sua vita immaginaria; si meriterà di figurare come il patrono, il santo protettore di tutto un gruppo di storici che furono all'incirca i contemporanei intellettuali del suo biografo: studiosi profondamente onesti, ma di respiro un po' corto, e dei quali si potrebbe talora credere che portino nelle ossa, come i figli i cui padri se la sono troppo goduta, la fatica delle grandi orge storiche del romanticismo; disposti a farsi piccoli piccoli davanti ai loro confratelli del laboratorio; desiderosi, insomma, di consigliarci piú la prudenza che l'entusiasmo. La loro parola d'ordine, sarebbe troppo malizioso cercarla in questo detto stupefacente, sfuggito un giorno a quell'uomo di intelligenza cosí vivace che fu comunque il mio caro maestro Charles Seignobos: « E utilissimo porsi i problemi, ma molto pericoloso rispondervi»? Non è questa, di sicuro, l'affermazione di un fanfarone. Ma se i fisici non avessero fatto piú oltre professione di intrepidezza, a qual punto sarebbe la fisica?
    Ora la nostra atmosfera mentale non è piú quella. La teoria cinetica dei gas, la meccanica einsteiniana, la teoria dei quanti hanno profondamente modificato l'idea che, ancora l'altro giorno, ciascuno si faceva della scienza. Non l'hanno rimpicciolita. Ma l'hanno resa piú duttile. Al certo, hanno sostituito, in molti punti, l'infinitamente probabile; al rigorosamente misurabile, il concetto dell'eterna relatività della misura. Il loro influsso si è anche fatto sentire sulle innumerevoli menti - io debbo, ahimè!, mettermi fra loro - cui le debolezze dell'intelligenza o dell'educazione non permettono di seguire, se non da molto lontano e, in certo qual modo, di riflesso, questa grande metamorfosi. Siamo dunque ormai molto meglio preparati ad ammettere che una conoscenza, anche se si rivela incapace di dimostrazioni euclidee o di immutabili leggi di ripetizione, possa comunque pretendere il nome di scientifica. Accettiamo molto piú facilmente di fare della certezza e della universalità una questione di grado. Non avvertiamo piú l'imperativo di cercare di imporre a tutti gli oggetti del sapere un modello intellettuale uniforme, improntato alle scienze della natura fisica, poiché, anche in queste ultime, questo schema ha smesso di essere applicato in tutto e per tutto. Non sappiamo ancora molto bene che cosa diverranno un giorno le scienze dell'uomo. Sappiamo che, per esistere - pur continuando, è ovvio, a obbedire alle
    regole fondamentali della ragione - non avranno bisogno di rinunziare alla propria originalità, né di vergognarsene.]

    Vorrei che, fra gli storici di professione, i giovani, in particolare, si abituassero a riflettere su queste esitazioni, questi quotidiani «pentimenti» del nostro mestiere. Sarà per essi il modo piú sicuro di prepararsi, con scelta deliberata, a guidare ragionevolmente il loro sforzo. Mi augurerei sopra ogni altra cosa di vederli approdare sempre piú numerosi a questa storia allo stesso tempo ampliata e spinta in profondità, il cui progetto siamo in parecchi a concepire, noi stessi ogni giorno meno rari. Se il mio libro può aiutarli in questo senso, avrò la sensazione che non sarà stato [del tutto] inutile. V'è in esso, lo ammetto, una parte di programma.
    Ma io non scrivo soltanto, e nemmeno soprattutto, per uso interno di bottega. Neppure ai semplici curiosi ho mai pensato che si dovesse nascondere alcunché delle incertezze della nostra scienza. Esse sono la nostra giustificazione. Meglio ancora: dànno freschezza ai nostri studi. Non solo abbiamo il diritto di reclamare, in favore della storia, l'indulgenza che è dovuta a tutti gli inizi. L'incompiuto, se tende eternamente a superarsi, esercita su ogni spirito un po' ardente una seduzione pari a quella della piú perfetta riuscita. Il buon agricoltore, ha detto all'incirca Péguy, ama l'aratura e la semina tanto quanto la mietitura"

    E opportuno che queste poche pagine introduttive si concludano con una confessione personale. Ogni scienza, presa a sé, non rappresenta mai altro se non un frammento del moto universale verso la conoscenza. [Ho già avuto occasione, poco fa, di darne un esempio:] per capire bene e valutare i suoi procedimenti d'investigazione, fossero pure quelli in apparenza piú particolari, sarebbe indispensabile [saper]li collegare [, con un tratto perfettamente nitido,] all'insieme delle tendenze che si manifestano, nello stesso momento, negli altri tipi di discipline. Ora, questo studio dei metodi in sé costituisce, a suo modo, una specializzazione, i cui tecnici si chiamano `filosofi'. È un titolo che m'è proibito pretendere. Per questa lacuna della mia formazione di base, il presente saggio, senza dubbio, perderà molto: in precisione di linguaggio, come in ampiezza di orizzonte. Non posso presentarlo se non per quello che è: il memento d'un artigiano che ha sempre amato meditare sul proprio compito quotidiano, il taccuino di un operaio che ha lungamente adoperato filo a piombo e livella, senza con ciò credersi un matematico`.

  20. #45
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    Predefinito Re: La Biblioteca di BackStage

    Trovato qui. E postato anche sul mio blog secoli fa, ma tanto non me lo fila nessuno



    Navigando tra libri e computer

    UN DIALOGO FRA ECO E CHARTIER

    di ENRICO REGAZZONI


    La lettura ai tempi di internet. Cosa sta diventando? L'imperativo della comunicazione moltiplica i testi e i loro supporti: dalla pubblicità all'e-mail, dai manuali d'istruzione dei cellulari all'incessante offerta di riviste per happy few, l'offensiva della parola scritta sulla carta, sui muri, e soprattutto sullo schermo parrebbe trasformarci tutti in lettori. Ma lo siamo davvero? Basta l'atto del leggere o invece occorre la qualità del testo per dichiararci tali? Un popolo di navigatori è automaticamente un popolo di lettori? E, a proposito di qualità del testo, che ne è del libro? Quali sono la sua identità, il suo ruolo e il suo futuro nell'arrembante mondo dei testi elettronici?
    Di questo e d'altro abbiamo parlato con Umberto Eco e Roger Chartier, storico francese della lettura già noto al pubblico italiano (qui ricorderemo soltanto la Storia della Lettura, da lui curata per Laterza con Guglielmo Cavallo, e L'ordine dei libri, apparso presso il Saggiatore), che si trovava a Milano per presentare, con Eco appunto, il suo saggio Cultura scritta e società recentemente pubblicato dalle Edizioni Sylvestre Bonnard, specializzate in libri che parlano di libri. A Eco e a Chartier, come prima cosa, abbiamo domandato se la lettura è stanca.

    CHARTIER. Può darsi che i lettori lo siano. Se si pensa all'eccesso di testi, alla diversificazione interna del nostro mondo testuale, alle nuove forme di scrittura e di comprensione, ecco allora possiamo immaginare che quest'abbondanza stanchi il lettore. Le più recenti inchieste sociologiche mostrano che ci sono delle pratiche di lettura, oggi, che certo non sono più quelle in cui eravamo abituati a investire il nostro rapporto più intenso con la cultura scritta: e tuttavia queste pratiche esistono, e noi dovremmo vederle in positivo, cercando di fare il massimo sforzo per condurre questi nuovi lettori, magari un po' selvaggi e superficiali, verso un rapporto con la cultura scritta che consenta loro di costruire se stessi e soprattutto offra delle chiavi critiche utili a decifrare il mondo per ciò che esso è.

    ECO. I lettori sono più stanchi di un tempo perché il computer è una macchina alfabetica, ciò che la tv non era. Quindi bisogna leggere e scrivere oggi più di un tempo. I fenomeni sono due. Da un lato, se passi nella nuova libreria Feltrinelli di Piazza del Duomo a Milano, ti imbatti in una straordinaria abbondanza di oggetti, un tempio più grande del Partenone che può anche gettare il lettore nell'angoscia. Dall'altro c'è il fenomeno di cui parla Chartier, il cambiamento delle abitudini di lettura. Leggendo un libro io potevo andare a cercarmi una certa parola sull'indice analitico e anche sbirciare cento pagine avanti, ma poi tornavo indietro. Con il computer, invece, se clicco su una parola rossa vado in un altro punto, e poi là clicco su un'altra parola rossa e vado in un altro punto ancora: insomma c'è il rischio che io non torni più indietro. In questo periodo sto preparando con alcuni collaboratori dei testi sull'educazione alla tolleranza dei ragazzi che dovranno andare su un sito internet dell'Académie Universelle des Cultures. Ci stiamo accorgendo che non si può svolgere un argomento di filato: bisogna fare un sunto di tre righe, poi un sunto di dieci righe, poi un testo di tre pagine e poi un documento di trenta pagine, in modo da permettere di catturare il senso del messaggio anche a chi è saltato da un'altra parte dopo le prime tre righe. Se andrà bene, questo signore si leggerà anche il testo di trenta pagine, ma il rischio è che salti da un'altra parte dopo due righe senza aver capito. Ecco perché bisogna inscatolare il senso in modo che dovunque il lettore si trovi riceva almeno un'unità di informazione. Così cambia il modo di scrivere, cambia la didattica, nascono forme più catechistiche.

    RE. Stiamo già navigando. Allora cerchiamo di capire se la lettura su internet, così potenziata nella sua funzione comunicativa, ma forse un po' depressa in quella espressiva, non finisca per perdere quell'identità sacrale sulla quale si fonda l'attività interpretativa, e dunque inventiva, del lettore.

    ECO. Guardi che ci sono dei teorici dell'ipertesto che sostengono che sia molto più creativa la lettura su schermo. Ti costruisci il tuo libro, dicono. Il tuo testo. Io non sono d'accordo, però è un'idea che circola molto.

    CHARTIER. Non credo che si possa bloccare il discorso in un'opposizione fra testo elettronico e testo scritto, anche perché bisogna pensare alla pluralità di forme di lettura che i nuovi testi ci offrono. Faccio l'esempio di un meraviglioso Don Chisciotte curato in Cd-rom dal mio amico Francisco Rico, che ha una cattedra a Barcellona, dove la lettura di puro intrattenimento si combina perfettamente con la lettura di studio, un formidabile apparato di note che viaggia su un binario parallelo. Il lettore può attraversare il Don Chisciotte a modo suo, oppure, come in un sito internet, selezionare una parola, seguire un contesto. Questo per dire che bisogna considerare le specificità di lettura dei due testi - l'elettronico e lo stampato - partendo dalla constatazione che nell'epoca attuale si offrono sempre più numerose modalità di lettura.

    ECO. Non solo. Bisogna anche pensare che molte di queste forme di lettura, cosiddette nuove, esistevano già. Nel Medioevo aprivi Virgilio a caso, come se fosse Nostradamus, cercavi la profezia e lo chiudevi. Oppure la Bibbia: mica la leggevi dalla prima pagina all'ultima. La frequentavi come un sito internet.

    RE. Facevi dello zapping di lettura.

    ECO. Certo, facevi dello zapping sulla Bibbia, zapping su Virgilio, esattamente come lo facciamo noi leggendo il giornale. Insomma, si affacciano delle forme nuove di lettura, nuove tipologie di fronte alle quali non puoi dire: ecco, questo è il modo giusto di leggere. In fondo ci sono persone che seguono lo stesso libro per tre ore senza capire niente di quello che leggono. Per cui non è detto che il modo giusto sia quello tradizionale.

    RE. Una delle fonti della storia della lettura sono le note segnate dai lettori ai margini del foglio. Con il testo elettronico queste fonti andranno senz'altro perdute, dal momento che le osservazioni del lettore non restano a margine ma modificano lo scritto. Il lettore telematico si pone in una posizione paritetica rispetto all'autore, e per questo fa perdere le sue tracce.

    ECO. Dipende. Ci sono dei Cd-rom dove puoi aggiungere i tuoi commenti senza modificare il testo. Ugualmente posso cercarmi su internet tutto Shakespeare e poi, se ho voglia e soldi, me lo stampo tutto e me lo leggo pagina per pagina. Non è proibito, ed è uno dei modi di lettura su internet, quello che storicamente fa sprecare più carta in assoluto, da Manuzio ai giorni nostri.

    CHARTIER. È vero, c'è un'oscillazione in questo rapporto fra l'autorità del testo e la libertà del lettore. Nella cultura della carta stampata, e anche in quella del manoscritto, c'era un'autorità del testo che non presupponeva l'intervento del lettore. Ecco dunque le note a margine, negli spazi bianchi, che sono fonti preziose per la storia della lettura. Il testo elettronico, al contrario, offre una malleabilità che consente al lettore di sostituire la sua scrittura a quella testuale, e di imporre per così dire una certa autorità. Quest'autorità interviene su due livelli: uno è quello che potremmo chiamare autoriale, che va a scalfire il sacro principio settecentesco che impone il rispetto di un'opera in quanto espressione originale dell'individualità di un autore; l'altro è quello più strettamente economico del copyright, dei diritti legati alla proprietà del testo, altrettanto inviolabili e per noi fondanti dell'idea stessa di scrittura. Originalità e proprietà di un'opera, ecco i due principi che il testo elettronico fa vacillare. Ed ecco gli sforzi per cercare di definire giuridicamente una forma di proprietà in questo universo di scrittura fluida, insieme a quelli per tutelare l'integrità dell'opera minacciata dalla libertà del nuovo lettore.

    RE. Ma al di là delle specifiche caratteristiche di questa nuova lettura, non vedete alcun antagonismo fra testo scritto e testo elettronico?

    ECO. Rifiuto la domanda. È come se qualcuno, dieci anni dopo la prima automobile, ti avesse interrogato sul futuro della motorizzazione. Come potevi prevedere che saresti arrivato fin qui? Non potevi, non sapevi. Potevi, tutt'al più, fare delle caute descrizioni del nuovo veicolo che imponeva nuove regole di circolazione. Oppure, pensiamo ai mutamenti intervenuti nel passaggio dal volumen al codex. Mi riferisco alla fine della lettura ad alta voce, che con l'avvento del codex cede il passo a quella silenziosa. Lei immagini di essere vissuto cinquant'anni prima di Sant'Ambrogio, che abitualmente è indicato come il primo lettore silenzioso: bene, se le avessero domandato quali cambiamenti sarebbero intervenuti col codex, probabilmente lei avrebbe riflettuto sulla possibilità di passare da una pagina all'altra, su un diverso controllo del testo. Mai le sarebbe venuto in mente che stava per cambiare il rapporto fra il suono e la lettura. Questo per dire che probabilmente la vera esperienza del cambiamento, in termini di lettura, non la faremo noi, ma i nostri figli. Ed è ben poco serio chi, sulla base di dieci anni di internet, si azzarda oggi a dire cosa succederà.

    CHARTIER. La formula più usata al riguardo è quella che dice: dallo scritto allo schermo. Ma è una formula sbagliata, poiché noi abbiamo dello scritto sullo schermo. Quindi subito lettura: non antagonismo, ma un mondo elettronico che non è solo lettura ma che è fondamentalmente lettura. Al momento, l'unica osservazione possibile riguarda l'ordine che si crea naturalmente fra i vari generi di testi, alleanze e sinergie che sono evidenti, per esempio, nel caso della documentazione. Lo sa che in termini cartacei il materiale che riguarda la progettazione di un jumbo pesa come il jumbo? D'altro canto, è senz'altro vero che pochi lettori sono abituati a leggere un libro d'erudizione o un grosso romanzo sullo schermo, e lo stesso Bill Gates sostiene che quando vuole davvero leggere un testo, se lo stampa. Ecco perché penso a una collaborazione, magari concorrenziale, fra testo elettronico e testo stampato.

    RE. Restano comunque due specie di testi con precise e diversissime identità formali. E le forme generano significati, non è così?

    CHARTIER. Esatto. Ed è proprio per questo che molto prima di qualsiasi gerarchizzazione dobbiamo cercare di capire cosa sta accadendo alla lettura nel mondo contemporaneo, perché è in atto una rivoluzione dei modi di produzione e riproduzione della cultura scritta paragonabile a quella di Gutenberg. Per la prima volta sullo stesso supporto si incontrano il testo, l'immagine e il suono, ed è un incontro che rivoluziona radicalmente le pratiche culturali della lettura. Tutto questo rappresenta una vera provocazione del pensiero e, paradossalmente, scatena un enorme consumo di carta destinato ai libri, alle riviste e ai manuali che si occupano di testi elettronici.

    RE. Testo, suono e immagine per la prima volta insieme. Ma il libro vero, quello che fino a oggi ha rappresentato la metafora del mondo, è scomparso.

    ECO. Non è vero, perché la Rank Xerox sta studiando una macchina che tu, se sei ricco abbastanza, puoi tenerti in casa e che ti permette di stamparti i Promessi sposi in gotico. E così torni ad avere il tuo rapporto sacrale con il libro. Oppure no, perché questo oggetto sacrale ti è costato così poco che dopo averlo letto lo butti via, tanto in casa non hai più spazio e ti basta schiacciare un bottone per farne un altro. Ma poi, per insistere sulla pluralità delle soluzioni e dunque sull'impossibilità della profezia unica, pensiamo all'e-mail. Cosa fa l'e-mail? Prima soluzione: in un universo in cui non si scrivevano più lettere e si telefonava, adesso la gente scrive. Seconda soluzione, opposta: quando rispondevo a una lettera, io prima scrivevo: "Caro monsieur Chartier, ho ricevuto la suo graditissima lettera con l'invito a partecipare al convegno. Sono estremamente dolente di doverle dire che non posso venire, eccetera". Adesso, con l'e-mail, scrivo: "Non posso". E lui non si offende, perché questo fa parte di una nuova etichetta. Allora, è vero che l'e-mail riduce l'epistolografia, però è anche vero che con l'e-mail possiamo scriverci ogni giorno, mentre prima ci saremmo scritti una volta l'anno. Recentemente, a un mio collega che via e-mail mi invitava a un convegno, ho risposto che quel convegno mi sembrava una stupidaggine. A sua volta, lui mi ha risposto insultandomi. In breve, è venuto fuori un epistolario filosofico, e entrambi ci siamo chiesti: perché non pubblicarlo in luogo del convegno? Dunque non si sa se l'e-mail sia l'azzeramento della corrispondenza o il ritorno alla corrispondenza, la compressione fino all'essenziale della lettera o la nascita di una nuova epistolografia. O tutt'e due le cose insieme.

    CHARTIER. È chiaro che la percezione delle opere si va trasformando. A partire dal Trecento, ancor prima di Gutenberg, si è creata un'unità fra un oggetto in forma di codex - il libro - il suo titolo, il nome dell'autore, e quest'unità mirava a un'idea di perfezione. Con il testo elettronico questa materialità dell'oggetto scompare, e alle metafore terrestri che identificavano nel libro un territorio, un microcosmo, un mondo, si sostituiscono metafore marine, di navigazione, che fanno immaginare rive incerte e fluidità di movimento. Ciò non significa che non abbiamo più criteri di identificazione delle opere, ma soltanto che dobbiamo pensare con logiche diverse. Quell'unità che presiedeva a un'idea unica di libro - anche se tutti i libri non avevano un solo autore e non erano una sola opera - di fronte ai nuovi testi non ha senso.

    RE. Dunque, niente schieramenti e niente profezie. Mettiamola così, allora: se vinceste al superenalotto, scegliereste di fare dell'editoria tradizionale o aprireste un sito internet dedicato alla lettura?

    ECO. Il difetto di molte domande giornalistiche è quello di intendere l'urto libro-internet come quello fra dirigibile e aeroplano. Invece è l'alternativa automobile-treno. Possono perfettamente vivere entrambi con funzioni diverse. Ecco perché, se vincessi al superenalotto io giocherei sulle due cose, perché ci sono dei momenti in cui ho bisogno di un libro e altri in cui mi basta un'informazione rapida. In più bisogna pensare a un altro problema antropologico: che l'ottanta per cento di quanti navigano su internet prima non leggeva niente. Quindi sta nascendo una nuova generazione di lettori di computer. E forse questa generazione non arriverà mai al libro, però gli indizi vanno in un'altra direzione: perché con internet nasce Amazon, e Amazon porta il popolo di internet a scoprire il libro. A meno di dieci anni dalla sua nascita, internet produce il più grande mercato di libri stampati mai esistito, e lo produce per forza propria, al punto che il padrone di Amazon non ci guadagna, ma perde soldi. Chi lo obbliga a farlo? Lo Zeitgeist? Dietro un fenomeno simile c'è Dio, direbbe Victor Hugo.

    CHARTIER. Ciò che invece è in pericolo è una certa produzione stampata di libri colti. Aumenta in modo pazzesco il prezzo di abbonamento delle riviste scientifiche, si riduce l'acquisto di queste riviste perfino da parte delle biblioteche universitarie, e dunque c'è un progressivo disinteresse degli editori a pubblicare quegli studi specialistici che gli inglesi chiamano monographs. Di fronte a questa crisi, l'idea di far circolare testi simili su internet è insufficiente, perché edizioni del genere si fondano soprattutto su un editing che ne segnala il forte contenuto scientifico e rispetta certe regole di presentazione che quei lettori si aspettano.

    ECO. Ma le riviste e il libri scientifici costano sempre di più per colpa delle fotocopie. Da quando la gente ha scoperto le fotocopie, ha deciso che libri scientifici da tremila dollari se li sarebbero comprati solo le biblioteche. E questo anche prima di internet. Ci sono case editrici perfettamente consapevoli di fare libri destinati alle fotocopie, ecco perché l'abbonamento a certe riviste costa una cifra che solo la biblioteca di Harvard può permettersi. Il vero pericolo è che con le fotocopie non si legga più niente. Un tempo andavo in biblioteca ed ero costretto a copiare a mano, ciò che costava fatica. Giunto a casa, mi ricordavo quel che avevo letto. Ora, invece, in poco tempo mi fotocopio trecento pagine, e una volta a casa sono così contento di avere incamerato tanto sapere che lo metto in archivio fra le infinite cose che non ho mai letto in vita mia perché le ho fotocopiate. È quello che accade anche ai collezionisti, che non leggono i libri ma li toccano tutti i giorni. Ed è esattamente il rischio che nasce dall'eccesso d'informazione, un regime di ruminatio continua che apparenta le comari che recitavano le litanie in latino al ragazzo che legge per ore su internet: moltissimi significanti, pochi significati.

    CHARTIER. Ma nel caso delle fotocopie come in quello del testo elettronico ci sono almeno due elementi nuovi. Il primo riguarda il rapporto del corpo con lo scritto. L'atto del copiare è sempre stato fondamentale come gesto di incorporazione del testo, così come la lettura ha sempre presupposto l'impiego totale del corpo. Pensiamo agli antichi lettori del rotolo: non potevano scrivere leggendo, poiché il rotolo andava tenuto con due mani. Se scrivevano, dovevano smettere di leggere. È con il libro di Gutenberg che si affaccia la possibilità di scrivere mentre si legge. Nei dipinti del Cinquecento e del Seicento, i lettori utilizzano le dita per tenere il segno della pagina, e comunque il corpo e il libro sono rappresentati come se uno fosse il prolungamento dell'altro. Il secondo elemento è quello della perdita delle categorie di identificazione del testo. Ciò che meraviglia, nell'uso delle fotocopie da parte degli studenti, è la scomparsa delle origini dei testi, il fatto che questi frammenti fotocopiati creino una sorta di grande testo unico dove né il genere, né l'autore, né l'opera sono più riconoscibili. E questo prefigura l'universo acquatico nel quale navigano i lettori di internet. Infine un'ultima questione, sempre sull'atto del copiare: sono gli scrittori a scrivere i libri? La risposta è no. Il libro che noi leggiamo non l'ha fatto il suo autore. La forma fisica di quel testo presuppone una precisa serie di mediazioni, di tecniche e di operazioni. C'è chi compone, chi corregge, chi stampa, e non è un caso che il sogno di molti scrittori, nella storia, sia stato quello di giungere in prima persona alla scrittura del proprio libro. Petrarca era un copista di se stesso, e numerosi autori si sono messi su questa strada spinti da una buona preparazione grafica e tipografica. Ora, con il testo elettronico, questo sogno passa nelle mani dei lettori: sono loro che, prima di stampare, scelgono sullo schermo corpi e caratteri, grafiche e formati. Sono loro i nuovi editori.

    RE. Di fronte alla lettura ci sono oggi due scuole di pensiero: la prima, d'impronta strutturalista, ritiene che il valore della lettura risieda unicamente nel testo; la seconda, d'ispirazione più sociologica, valorizza qualsiasi genere di lettura, anche le cosiddette letture selvagge, perché valuta la pratica del leggere più importante del suo stesso oggetto. Penso ai telefonini: la gente parla molto più di prima, ma non per questo ha più cose da dire. E domando a voi: la lettura è comunque buona?

    CHARTIER. Penso che fra queste due posizioni estreme occorra individuare uno spazio di responsabilità: quella degli editori, dei media, dei signori di internet, perché comprendano che tutte le pratiche di lettura sono legittime ma un testo non vale l'altro. Solo partendo da questa consapevolezza la lettura diventerà comunque buona.

    ECO. Si legge sia alla toilette che in stazione aspettando il treno, e in entrambi i casi si legge qualsiasi cosa. La lettura non è solo un mezzo per assimilare dei contenuti, ma un vizio paragonabile alle sigarette. È normale, come tambureggiare con le dita sul tavolo o masticare del tabacco. Il problema resta quello delle proporzioni: se passo ventidue ore al giorno a leggere, è come se fumassi duecentocinquanta sigarette. Al di là della norma, insomma. Ma non si deve fare del moralismo, scandalizzarsi se la lettura è anche un fatto meccanico.

    CHARTIER. Sono d'accordo, i giudizi morali non contano nulla. Letture meccaniche, letture disinvolte, letture di testi che secondo alcuni non avrebbero dovuto essere né pubblicati, né letti. Ma intanto, se il lettore è pensabile fuori dal testo, ciò significa che è un individuo strutturato socialmente e culturalmente all'interno di pratiche che occorre comprendere, descrivere, e forse orientare e modificare. Credo insomma che questa tensione del lettore dentro e fuori dal testo definisca molto bene lo spazio aperto alle riflessioni che abbiamo fatto sui diversi supporti del testo e sulla lettura buona o non buona. Si potrebbe respingere la domanda e rispondere: la lettura è. Solo partendo da qui, e dalle trasformazioni dell'offerta testuale, tutti insieme lettori, autori ed editori, potremo fare in modo che essa venga investita della capacità di capire.

  21. #46
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    Predefinito Re: La Biblioteca di BackStage

    L'occidente e le origini del "metodo scientifico"

    da "Bioetica" di Francesco D'Agostino

    [...] Non è per mera casualità che la scienza non è nata in Asia o nelle Americhe. Rispetto all'Europa, la Cina, nella sua millenaria tradizione, o i grandi imperi precolombiani, non possono essere ritenuti "più primitivi". Ma ad essi è mancata l'istuzionalizzazione culturale della ricerca come principio Attraverso vicende estremamente complesse, ma non per questo imperscrutabili, l'Occidente -ed esso soltanto -si è posto e imposto come il luogo - l'ethos -della scienza. E per converso la scienza non può che essere riconosciuta come l'ethos dell'Occidente. Questa è la tesi sulla quale vorrei richiamare l'attenzione.

    C'è una parola che riassume il modo occidentale di rapportarsi al tempo: avventura. Nell'avventura accade qualcosa e questo qualcosa che accadde è percepito come significante (fino al limite del drammatico) perchè intrinsecamente legato al passare del tempo. Pure il tempo in se stesso non basta a qualificare l'evento avventura: bisogna che le cose che avvengono -che vengono a noi, che vengono incontro al soggetto, per l'inesorabile passare del tempo -siano in qualche modo volute e orientate dall'avventuriero, che non solo non si limita a subirle passivamente, ma ad esse si fa incontro prima per accettarle, poi per gestirle, sfruttarle, dominarle (anche correndo il rischio di esserne dominato) o semplicemente per goderle.
    Lo spirito di avventura si costruisce nella tradizione occidentale con lentezza, ma anche con tipica continuità. Nell'universo greco l'avventura di Odisseo è essenzialmente un ritorno, così come è un ritorno l'Anabasi di Senofonte. Per quanto affascinante, l'avventura greca non possiede ancora però un valore intrinseco, perchè è subita e perchè di conseguenza i suoi ritmi appaiono non dominabili da parte del soggetto. Ancora in epoca classica questa dimensione di indeterminatezza che afferisce all'avventura non può che qualificarla che in una prospettiva di negatività, la stessa che induce in Aristotele una irrisolta perplessità nei confronti dell'idea stessa di apeiron, di infinito, al quale viene sì riconosciuto il rango di principio, ma dal quale il filosofo non riesce a disconnettere l'idea di incompiutezza indeterminata. Ma già la figura di Alessandro si costruisce in modo diverso: Alessandro è dominato dal pothos: il suo muoversi verso l'Oceano non è dominato dalla nostaslgia, ma da una sconfinata passione per il non ancora conosciuto. Quando l'universo greco entra in contatto con quello ebraico-cristiano si costruisce una delle sintesi più straordinarie nella storia dell'umanità. Se l'occidente ebreo è Mosè, la cui quarantennale avventura avventura nel deserto comporta un ritorno nella terra dei padri, l'Alessandro biblico è Abramo, che fidando della promessa di Dio lascia il proprio paese per avanzare verso quello che per lui era un ignoto assoluto.
    Nell'orizzonte greco, l'avventura si unisce all'idea dei grandi spazi, che Odisseo percorre con le sue navi e Alessandro con i suoi eserciti. Nell' orizzonte ebraico, l'avventura si unisce all'idea di una meta, che dia senso umano e globale al viaggio. Come non c'è meta possibile per chi non voglia mettersi in viaggio, così un viaggio autentico è impossibile per chi non si prefigga una meta. Atene e Gerusalemme si congiungono nel dare forma allo spirito europeo, che nell'homo viator vede non solo una metafora spirituale, ma un preciso contrassegno culturale. Questo contrassegno consiste in una diversa capacità di vedere, che rende possibile lo scoprire: e lo scoprire non è semplicemente percepire nuovi fatti o nuovi dati, ma dare loro un significato. Sbarcare sulle coste americane -comefece Erick il Rosso - non significa di per se di per se scoprirle. Analogamente una vera e propria scoperta è quella fatta nei grandi secoli dell'epoca moderna dagli Occidentali dell'Oriente e delle sue grandissime culture. Può scoprire -così come può ricercare -solo colui che è mosso da questa urgenza di stabilire significati. Urgenza che Blumenberg ha descritto in quello splendido libro che è Die Legitimitiit der Neuzeit, e ha denominato come Neugier, curiositas: un atteggiamento di apertura al mondo dal carattere ontologico, ben più che psicologico, perchè implica una triplice fiducia nel mondo: che esso sia conoscibile, che meriti di essere conosciuto, e che sia conoscibile grazie ad una conoscenza inventiva.

    La vera novità di quella dimensione epistemologica che chiamiamo scienza moderna, o scienza tout court, non sta, come spesso si crede, nel metodo, nella strada che essa percorre, ma nel modo di percorrerla. Feyerabend ci ha insegnato che non esiste nella scienza una metodologia assoluta o assolutamente giustificata ed infatti la c.d. scienza "moderna" non si costruisce, a ben vedere, a partire dalla acquisizione di un metodo di ricerca ottimale. Va piuttosto osservato che "via via che il movimento scientifico si addentra in campi sempre più vari e lontani tra loro, nascono non solo scoperte di nuovi 'dati', ma aperture di nuovi spazi: una verà e propria invenzione di oggetti, in senso forte. La ricerca è il nuovo sconfinato campo -non geografico, ma mentale - in cui si manifesta nel nostro tempo lo spirito di avventura. Questa è la radice del turbamento che la scienza induce nelle anime di molti, poichè l'avventura implica il fronteggiamento del nuovo e il nuovo è sempre conturbante:è l'imprevedibile, ma molto più perche -come si è detto - il nuovo dipende anche da noi, dalla nostra capacità di percepirlo e configurarlo e richiede per essere percepito e configurato una volontà di dire sì alla vita, che richiede un duro sforzo etico ostacolata e impedita come è da quell'oscura pesantezza creaturale che tutti ci contrassegna, la nostra belluinità, che la tradizione religiosa denomina come peccato e che lo sguardo severo e profondo di Kant percepiva come il "legno storto, come quello di cui l'uomo è fatto" e dal quale "non può uscire nulla di interamente dritto". Pure, per quanto conturbante ci possa apparire, è proprio nel nostro aprirci al nuovo, nel predisporci a ricercarlo e a costruirlo, che è da vedere la fonte ultima della nostra dignità, della nostra capacità, per dirla con Hegel, di camminare eretti: di qui il carattere non solo psicologicamente regressivo, ma semplicemente non etico del misoneismo. Di qui anche l'errore, frequentemente ripetuto, di coloro che pensano che tra progresso scientifico e progresso morale possa esserci una dissociazione. In realtà le due dimensioni coIncidono puntualmente: purchè non si confonda il progresso scientifico con il mero accumulo quantitativo di dati e non si confonda il progresso morale con il mero "incivilimento" estrinseco dei costumi e dei consumi. La coincidenza è in questo: che quanto più la ricerca progradisce, tanto più progredisce la consapevolezza dei limiti costituiti dalla nostra capacità di conoscere; e in quanto più progredisce la consapevolezza morale, tanto più progredisce la consapevolezza che il nostro destino è quello di restare sempre in qualche modo ignoti a noi stessi: la nostra piena e realizzata identità non sta infatti alle nostre spalle, ma sta davanti a noi: la nostra statua interiore (per riprendere una famosa metafora) non ci viena data già fatta, ma richiede di essere da noi costruita, con lo sforzo di un impegno quotidiano e senza fine.

  22. #47
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    Predefinito Re: La Biblioteca di BackStage

    Lo storico e il filosofo storcono il naso. Ma l'importante è la capacità di sintesi. Beccatevi questa apoteosi dell'epìtome storiografica.




    Bertrand Russell; introduzione alla Storia della Filosofia Occidentale; Editore Longanesi; 1966

    INTRODUZIONE
    LE CONCEZIONI del mondo e della vita che chiamiamo «filosofiche» sono un prodotto di due fattori: uno inerente alle condizioni religiose ed etiche; l'altro a quel genere di ricerche che si può chiamare «scientifico», usando questa parola nel senso più largo. I filosofi differiscono largamente uno dall'altro quanto alle proporzioni in cui questi due fattori entrano nel loro sistema, ma è la presenza di entrambi in un grado qualsiasi che caratterizza la filosofia.
    «Filosofia» è una parola che è stata usata in molti sensi, alcuni più ampi, altri più ristretti. Io propongo di usarla in un senso molto largo, che ora cercherò di spiegare.
    La filosofia, nel senso in cui io intenderò la parola, è qualcosa di mezzo tra la teologia e la scienza. Come la teologia, consiste in speculazioni riguardo alle quali non è stata finora possibile una conoscenza definita; come la scienza, si appella alla ragione umana piuttosto che alla autorità, sia quella della tradizione che quella della rivelazione; tutte le nozioni definite, direi, appartengono alla scienza; tutto il dogma, cioè quanto supera le nozioni definite, appartiene alla teologia. Ma tra la teologia e la scienza esiste una Terra di Nessuno, esposta agli attacchi di entrambe le parti; questa Terra di Nessuno è la filosofia. Quasi tutte le questioni di maggior interesse per le menti speculative sono tali che la scienza non può rispondervi, e le fiduciose risposte dei teologi non sembrano più tanto convincenti come nei secoli precedenti.
    Il mondo è diviso in spirito e materia, e, se lo è, che cos'è spirito e che cos'è materia? Lo spirito è soggetto alla materia o è investito di poteri indipendenti? L'universo ha un'unità di scopi? Sta evolvendo verso qualche mèta? Vi sono realmente leggi di natura, o noi crediamo in esse soltanto per il nostro innato amore dell'ordine? L'uomo è ciò che appare all'astronomo, una minuscola massa di carbone impuro e di acqua, che striscia impotente su un piccolo ed insignificante pianeta? Oppure è ciò che appare ad Amleto? Forse entrambe le cose insieme? Esiste un modo di vivere nobile ed un altro abbietto, o tutti i modi di vivere sono semplicemente futili? Se esiste un modo di vivere nobile, in che cosa consiste e come possiamo raggiungerlo? I1 bene deve essere eterno per meritare che gli si dia un valore o val la pena di cercarlo anche se l'universo cammina inesorabilmente verso la morte? Esiste qualcosa come la saggezza, o quella che sembra tale è soltanto l'ultimo perfezionamento della follia? A tali domande non si può trovare nessuna risposta in laboratorio. Le teologie hanno preteso di dare delle risposte, tutte troppo definitive, e la loro stessa definitezza fa sì che le menti moderne guardino ad esse con sospetto. Lo studio di questi problemi, se non la loro soluzione, è compito della filosofia.
    Perché, si chiederà allora, perder tempo su tali insolubili problemi? A questo si può rispondere o come storici o come individui posti di fronte al terrore della solitudine cosmica.
    La risposta dello storico, nei limiti della mia capacità, apparirà nel corso di quest'opera. Da quando gli uomini divennero capaci di libero pensiero, le loro azioni, sotto innumerevoli aspetti, sono dipese dalle loro teorie sul mondo e sulla vita umana, su ciò che è bene e ciò che è male. Questo è vero tanto al giorno d'oggi quanto ai tempi antichi. Per capire un'epoca o una nazione dobbiamo noi stessi essere in un certo senso filosofi. Qui c'è una reciproca causalità: le condizioni di vita degli uomini influiscono molto sulla loro filosofia, ma d'altra parte la loro filosofia influisce molto sulle loro condizioni. Questa interazione, attraverso i secoli, sarà argomento delle seguenti pagine.
    C'è anche però una risposta più personale. La scienza ci dice ciò che possiamo sapere, ma ciò che possiamo sapere è poco, e se dimentichiamo quanto non possiamo sapere diventiamo insensibili a molte cose di grandissima importanza. La teologia, d'altra parte, porta alla fede dogmatica che si sappia ciò che in realtà si ignora, generando così una sorta di insolenza ne riguardi dell'universo. L'incertezza tra la speranza ed il timore è penosa, ma deve essere sopportata se desideriamo vivere senza ricorrere a favole belle e confortanti. Non è bene né dimenticare le domande chi la filosofia pone né persuaderci di aver trovato incontrovertibili risposte. Insegnare a vivere senza la certezza e tuttavia senza essere paralizzati dall'esitazione è forse la funzione principale cui la filosofia può ancor, assolvere, nel nostro tempo, che chi la studia.
    La filosofia, in quanto distinta dalla teologia, sorsi in Grecia nel VI secolo a.C. Dopo aver compiuto il sue corso nell'antichità, fu di nuovo sommersa dalla teologia quando il Cristianesimo sorse e Roma decadde. Il suo secondo grande periodo, dall'XI al XIV secolo, fu dominato dalla Chiesa Cattolica, a parte pochi grandi ribelli come l'imperatore Federico II (1195-1250). Questo periodo ebbe termine coi sovvertimenti che culminarono nella Riforma. Il terzo periodo, dal XVI; secolo ad oggi, è dominato più di ogni periodo precedente dalla scienza; le tradizionali convinzioni religiose conservano la loro importanza, ma si sente che hanno bisogno di giustificazione e vengono modificati ogni qual volta la scienza lo renda indispensabile. Po chi filosofi di questo periodo sono ortodossi da un punto di vista cattolico, e lo Stato secolare ha maggior peso nelle loro speculazioni che non la Chiesa. La coesione sociale e la libertà individuale, come la religione e la scienza, sono in uno stato di conflitto e di arduo compromesso per l'intero periodo. In Grecia la coesione sociale era assicurata dalla fedeltà alla Città-Stato; perfino Aristotele, benché al suo tempo Alessandro avesse fatto passare di moda la Città-Stato, non poteva scorgere pregio alcuno in qualsiasi altro tipo di costituzione. Il grado in cui la libertà dell'individuo era limitata dal suo dovere verso la Città variava abbondantemente. A Sparta in quel tempo si aveva la libertà che si ha oggi in Russia; ad Atene, malgrado occasionali persecuzioni, i cittadini godevano nel periodo migliore di una straordinaria libertà dalle restrizioni imposte dallo Stato. I1 pensiero greco, fino ad Aristatele, è dominato dalla devozione religiosa e patriottica alla Città; i suoi sistemi etici sono adatti alla vita dei cittadini ed hanno un gran senso politico. Quando i Greci furono assoggettati prima ai Macedoni e poi ai Romani, tali concezioni, adatte per i giorni della loro indipendenza, non furono più applicabili. Ciò produsse da una parte un indebolimento a causa della frattura della tradizione, e dall'altra parte una etica più individuale e meno sociale. Gli stoici pensavano alla vita virtuosa come ad una relazione dell'animo con Dio - piuttosto che a una relazione del cittadino con lo Stato. Essi così preparavano la via al Cristianesimo che, come lo Stoicismo, era originariamente apolitico, dato che durante i primi tre secoli i suoi adepti erano tenuti lontani dalla partecipazione al governo. La coesione sociale, durante i sei secoli e mezzo da Alessandro a Costantino, era assicurata non dalla filosofia e non dalla prisca fedeltà, ma dalla forza, prima quella delle armi e poi quella dell'amministrazione civile. Gli eserciti romani, le strade romane, la legge romana, i funzionari romani prima crearono e poi conservarono un potente Stato centralizzato. Niente di tutto ciò che poteva attribuirsi alla filosofia romana, dato che non esisteva.
    Durante questo lungo periodo, le idee greche ereditate dall'epoca della libertà subirono un graduale processo di trasformazione. Alcune delle vecchie idee, principalmente quelle che potremmo considerare come specificamente religiose, crebbero relativamente d'importanza; le altre, più razionalistiche, furono scartate perché non corrispondevano allo spirito del tempo. In questa maniera gli ultimi pagani adattarono la tradizione greca, finché divenne possibile incorporarla nella dottrina cristiana.
    Il Cristianesimo popolarizzò un'importante teoria, già implicita nell'insegnamento degli stoici, ma estranea in genere allo spirito dell'antichità: voglio dire la teoria che il dovere di un uomo verso Dio sia più categorico del suo dovere verso lo Stato. Questa teoria (che « noi dobbiamo obbedire a Dio prima che all'uomo », come dicevano Socrate e gli Apostoli)(1) sopravvisse alla conversione di Costantino, perché i primi imperatori cristiani erano ariani o inclini all'arianesimo. Nell'Impero bizantino rimase latente, come nel successivo Impero russo che derivò il suo cristianesimo da Costantinopoli.(2) Ma nell'Occidente, dove gli imperatori cattolici furono quasi immediatamente sopraffatti (eccetto che in parte della Gallia) da eretici conquistatori barbari, la superiorità dell'obbedienza religiosa su quella politica sopravvisse ed entro certi limiti sopravvive ancora.
    L'invasione barbarica pose fine per sei secoli alla civiltà dell'Europa occidentale. Questa durò ancora in Irlanda, finché i Danesi la distrussero nel IX secolo; prima della sua estinzione fiorì però una ragguardevole figura, Scoto Erigena. Nell'Impero d'Oriente, la civiltà greca, in una forma mummificata, sopravvisse, come in un museo, fino alla caduta di Costantinopoli nel 1453, ma nulla di importante per il mondo venne da Costantinopoli, eccetto una tradizione artistica e i codici giustinianei della legge romana.
    Durante il periodo di oscurità che va dalla fine del V secolo alla metà dell'XI, il mondo romano occidentale subì alcuni interessantissimi cambiamenti. Il conflitto tra il dovere verso Dio ed il dovere verso lo Stato, che il Cristianesimo aveva introdotto, prese la forma di un conflitto tra la Chiesa ed il re. La giurisdizione ecclesiastica del Papa si estese sopra l'Italia, la Francia, la Spagna, la Gran Bretagna e l'Irlanda, la Germania, la Scandinavia e la Polonia. Al principio, eccetto l'Italia e la Francia meridionale, il suo controllo sui vescovi e sugli abati era molto tenue, ma dal tempo di Gregorio VII (fine dell'XI secolo) divenne reale ed effettivo. Da allora in poi il clero, in tutta l'Europa occidentale, formò un'unica organizzazione diretta da Roma, che aspirava al potere con intelligenza e decisione e di solito anche con successo, fino a dopo il 1300, nei suoi conflitti con i regimi. secolari. Il conflitto tra Chiesa e Stato non era soltanto un conflitto tra clero e laicità. Era anche un rinnovarsi del conflitto tra il mondo mediterraneo e la barbarie nordica. L'unità della Chiesa riproduceva l'unità dell'Impero romano; la sua liturgia era latina ed i suoi capi erano per la maggior parte italiani, spagnoli o francesi del sud. La loro educazione, quando l'educazione rinacque, era classica, le loro concezioni intorno alla legge sarebbero state più comprensibili a Marco Aurelio che non ai monarchi del tempo. La Chiesa rappresentava insieme la continuità col passato e ciò che esisteva di più civile nel presente.
    Viceversa il potere secolare era nelle mani di re e di baroni di discendenza teutonica, che si sforzavano di conservare ciò che potevano delle istituzioni che avevano portato con sé dalle foreste della Germania. Era estraneo a quelle istituzioni il potere assoluto, non meno di quella che, ai rudi conquistatori, appariva come una legalità grigia e senza vita. Il re doveva dividere il suo potere con l'aristocrazia feudale e tutti si credevano autorizzati ad occasionali scoppi di passione sotto forma di guerre, assassini, saccheggi e rapine. Ai monarchi era lecito pentirsi, perché essi erano sinceramente pii e, dopo tutto, il pentimento stesso era una forma di passione. Ma la Chiesa non poteva mai ottenere da loro quella regolarità di buon comportamento che un moderno padrone richiede, e di solito ottiene, dai suoi impiegati. Che significato avrebbe avuto l'abitudine di conquistare il mondo, se poi non potevano bere ed uccidere ed amare secondo che l'animo li muoveva? E perché, con i loro eserciti e con i loro gloriosi cavalieri, avrebbero dovuto sottomettersi agli ordini di uomini eruditi, votati al celibato e privi di forza armata? A dispetto della disapprovazione ecclesiastica, mantennero il duello ed il giudizio delle armi e svilupparono i tornei e gli amori di corte. All'occasione, in un impeto di rabbia, non avrebbero esitato ad uccidere persino degli eminenti ecclesiastici.
    Tutta la forza delle armi era dalla parte dei re, e tuttavia la Chiesa vinse. La Chiesa vinse in parte perché deteneva il monopolio dell'istruzione, in parte perché i re erano continuamente in guerra l'uno con l'altro, ma principalmente perché con pochissime eccezioni governanti e popolo credevano altrettanto profondamente che la Chiesa possedesse il potere delle chiavi. La Chiesa poteva decidere se uno dovesse trascorrere l'eternità in paradiso o all'inferno; la Chiesa poteva sciogliere i suoi soggetti dall'obbligo dell'obbedienza e spingerli così alla ribellione. La Chiesa inoltre rappresentava l'ordine in luogo dell'anarchia, e conseguentemente guadagnò l'appoggio della nascente classe mercantile. In Italia, specialmente, quest'ultima considerazione fu decisiva.
    L'aspirazione teutonica a conservare almeno una parziale indipendenza dalla Chiesa si manifestò non soltanto nella politica, ma anche nell'arte, nella letteratura, nella cavalleria e nella guerra. Si manifestò molto poco nel mondo intellettuale perché l'educazione era quasi completamente ristretta al clero. La filosofia del Medioevo non è un esatto specchio dei tempi, ma soltanto di ciò che pensava un partito. Tra gli ecclesiastici però, e particolarmente tra i frati francescani, un certo numero, per varie ragioni, era in disaccordo con il Papa. In Italia, inoltre, la cultura si estese alla laicità alcuni secoli prima che a settentrione delle Alpi. Federico II, che cercò di fondare una nuova religione, rappresenta la punta estrema della cultura antipapale; Tommaso d'Aquino, che nacque nel regno di Napoli dove imperava Federico II, rimane fino ad oggi il classico esponente della filosofia papale. Dante, una cinquantina di anni dopo, raggiunse una sintesi. e dette l'unica esposizione equilibrata di tutto il mondo delle idee medioevali.
    Dopo Dante, sia per ragioni politiche che intellettuali, la sintesi filosofica medioevale si spezzò. Essa aveva, finché durò, qualità di accuratezza e di rifinitura miniaturistica; tutto ciò di cui il sistema prendeva conoscenza trovava il suo posto con precisione ed era messo in relazione con gli altri componenti di questo cosmo così ben delimitato. Ma il Grande Scisma, il movimento dei Concili ed il Papato del Rinascimento portarono alla Riforma, che distrusse l'unità del Cristianesimo e la teoria scolastica del governo che si accentra nel Papa. Nel periodo del Rinascimento, le nuove conoscenze, sia intorno all'antichità che intorno alla superficie terrestre, fecero sì che gli uomini si stancassero dei sistemi, che apparivano come prigioni mentali. L'astronomia copernicana assegnava alla terra e all'uomo una posizione più umile di quella che aveva goduto nella teoria tolemaica. L'amore per i fatti nuovi prese il posto, tra gli uomini intelligenti, dell'amore per il ragionamento, l'analisi e la sistematizzazione. Benché in arte il Rinascimento sia ancora ordinato, nel pensiero preferisce un ampio e fruttuoso disordine. Sotto questo aspetto, Montaigne è il più tipico esponente dell'epoca.
    Nella teoria della politica (come in tutto fuorché nell'arte) si ebbe un collasso dell'ordine. Il Medioevo, per quanto turbolento, fu dominato in pratica, nel campo del pensiero, dalla passione per la legalità e da una teoria molto esatta del potere politico. Tutto il potere viene in ultima analisi da Dio; Egli ha delegato il potere al Papa per le cose sacre e all'Imperatore per le questioni secolari. Ma il Papa e l'Imperatore persero entrambi la loro importanza durante il XV secolo. Il Papa divenne semplicemente uno dei prìncipi italiani, impegnato in un gioco politico incredibilmente complicato e senza scrupoli, mirante al dominio della penisola. Le nuove monarchie nazionali in Francia, Spagna ed Inghilterra godevano nei loro territori di un potere in cui né il Papa, né l'Imperatore potevano interferire. Lo Stato nazionale, largamente dovuto alla polvere da sparo, acquistò un'influenza sui pensieri e sui sentimenti degli uomini, che non aveva avuto prima e che progressivamente distrusse ciò che restava della fede romana nell'unità della civiltà. Questo disordine politico trovò la sua espressione nel Principe di Machiavelli. In mancanza di qualsiasi principioguida, la politica diviene una lotta aperta per il potere. Il Principe dà degli astuti suggerimenti su come condurre con successo questo gioco. Ciò che era accaduto nella grande epoca della Grecia, accadde di nuovo nell'Italia del Rinascimento. I freni morali tradizionali scomparvero, perché venivano associati alla superstizione; la liberazione dalle catene rese gli individui energici e creativi, producendo una rara fioritura di geni; ma l'anarchia e la slealtà, che inevitabilmente risultarono dalla decadenza della morale, resero gli Italiani collettivamente impotenti, ed essi caddero, come i Greci, sotto il dominio di nazioni meno civili, ma non così prive di coesione sociale.
    Il risultato però fu meno disastroso che nel caso della Grecia, perché le nazioni divenute ora potenti, ad eccezione della Spagna, si mostrarono altrettanto capaci degli Italiani di insigni conquiste.
    Dal XVI secolo in poi, la storia del pensiero europeo è dominata dalla Riforma. La Riforma fu un moto complesso e multiforme, e dovette il suo successo ad una grande varietà di cause. Innanzi tutto fu una rivolta delle nazioni nordiche contro il rinnovato dominio di Roma. La religione era la forza che aveva sottomesso il Nord, ma la religione in Italia era decaduta: il Papato restava come istituzione e riscuoteva un enorme tributo dalla Germania e dall'Inghilterra; ma queste nazioni, pur essendo ancora pie, non potevano sentire rispetto per i Borgia o per i Medici, che affermavano di salvare le anime del Purgatorio in cambio di moneta contante, che poi scialacquavano nel lusso e nell'immoralità. Motivi nazionali, motivi economici e motivi morali, tutto cooperava a rafforzare la rivolta contro Roma. Inoltre i prìncipi si accorsero presto che, se la Chiesa nei loro territori fosse divenuta veramente nazionale, essi sarebbero stati in grado di dominarla, e sarebbero divenuti molto più potenti in casa loro di quanto non fossero stati quando dividevano il dominio con il Papa. Per tutte queste ragioni, le innovazioni teologiche di Lutero furono ugualmente bene accette ai governanti e ai popoli, in gran parte dell'Europa settentrionale.
    La Chiesa cattolica aveva tre sorgenti: la sua storia sacra era ebrea, la sua teologia greca, il suo governo e la sua legge canonica, almeno indirettamente, romani. La Riforma respingeva gli elementi romani, attutiva gli elementi greci, e insisteva fortemente sugli elementi giudaici. In tal modo cooperò con le forze nazionali, che stavano disfacendo il lavoro di coesione sociale che era stato compiuto prima dell'Impero romano e poi dalla Chiesa romana. Nella dottrina cattolica la rivelazione non terminava con le Scritture, ma continuava di età in età per tramite della Chiesa, alla quale l'individuo aveva il dovere di sottomettere le sue opinioni personali. I protestanti, al contrario, negavano che la Chiesa fosse un veicolo della rivelazione: la verità andava cercata soltanto nella Bibbia che ciascuno poteva interpretare per proprio conto. Se gli uomini, differivano nelle loro interpretazioni, non c'era alcuna autorità divinamente investita che potesse decidere nella disputa. In pratica, lo Stato reclamava il diritto che prima era appartenuto alla Chiesa, ma questa era solo un'usurpazione; secondo la teoria protestante, non avrebbero dovuto esserci intermediari terreni tra l'anima e Dio.
    Gli effetti di questo passaggio furono importanti; la verità non si riceveva più consultando un'autorità, ma andava raggiunta attraverso la meditazione introspettiva. Ci fu una tendenza rapidamente sviluppantesi verso l'anarchia in politica e verso il misticismo in religione, che fino allora si era sempre insinuato con difficoltà nell'ossatura dell'ortodossia cattolica. Non ci fu un solo protestantesimo, ma una moltitudine di sètte, non una sola filosofia opposta alla scolastica, ma tante quanti erano i filosofi, non, come nel XIII secolo, un Imperatore opposto al Papa, ma un gran numero di re eretici. Il risultato, nel campo del pensiero come nella letteratura, era un sempre più profondo soggettivismo, operante al principio come una totale liberazione dalla schiavitù spirituale, ma che certamente portava verso un isolamento individuale, nemico della sanità sociale.
    La filosofia moderna comincia con Cartesio, la cui certezza fondamentale è l'esistenza di se stesso e dei suoi pensieri, da cui si deduce il mondo esterno. Questo fu soltanto il primo stadio di una linea di sviluppo, che attraverso Berkeley e Kant arriva a Fichte, per cui la realtà è soltanto un'emanazione dell'io. Si era giunti alla follia, e da questo estremo la filosofia sta tentando ancora di rifugiarsi nel mondo del senso comune.
    Con il soggettivismo in filosofia va sotto braccio la anarchia in politica. Già durante la vita di Lutero, importuni e sconfessati discepoli avevano sviluppato la dottrina dell'anabattismo, che per un certo tempo dominò nella città di Munster. Gli anabattisti ripudiano tutta la legge, perché ritengono che l'uomo giusto venga guidato in ogni momento dallo Spirito Santo - che non può essere legato da norme. Da questa premessa si arriva al comunismo e alla promiscuità dei sessi; perciò furono sterminati dopo un'eroica resistenza. Ma la loro dottrina, in forme più attenuate, si diffuse in Olanda, in Inghilterra e in America; storicamente, qui è l'origine del quaccherismo. Una più violenta forma di anarchia, non più connessa con la religione, si manifesta nel XIX secolo. In Russia, in Spagna, ed in grado minore in Italia, ebbe un considerevole successo e fino ad oggi resta uno spauracchio delle autorità americane di immigrazione. Questa forma moderna, benché antireligiosa, conserva ancora molto dello spirito dei primi protestanti; ne differisce soprattutto nel dirigere contro i governi secolari l'ostilità che Lutero dirigeva contro i Papi.
    Il soggettivismo, una volta avuta via libera, non poteva essere racchiuso entro dei limiti, finché non avesse seguito il suo corso. Nel campo morale, l'enfasi protestante intorno alla coscienza individuale era essenzialmente anarchica. Gli usi e le consuetudini erano così forti che, eccettuate occasionali esplosioni come quella di Munster, i discepoli dell'individualismo in etica continuarono ad agire in maniera convenzional mente virtuosa. Ma si trattava di un equilibrio precario. Nel XVIII secolo il culto della «sensibilità» cominciò a romperlo: un'azione era ammirata non per le sue buone conseguenze o per il suo conformismo a un codice morale, ma per le emozioni che ispirava. Da questa attitudine si sviluppò il culto dell'eroe, quale fu espresso da Carlyle e da Nietzsche, e il culto byroniano della passione violenta, non importa di quale natura.
    Il movimento romantico in arte, in letteratura e in politica è strettamente legato a questa maniera soggettivistica di giudicare gli uomini, non come membri di una comunità, ma come oggetti esteticamente gradevoli da contemplare. Le tigri sono più belle delle pecore, però noi le preferiamo dietro le sbarre. Il romantico tipico toglie le sbarre, e si gode i magnifici balzi con cui la tigre annienta le pecore. Egli esorta gli uomini ad immaginarsi come tigri, e quando ci riesce i risultati non sono del tutto piacevoli.
    Contro le forme più insane del soggettivismo, nei tempi moderni si sono avute varie reazioni. Prima una filosofia di compromesso: la dottrina del liberalismo, che tentò di determinare le rispettive sfere del governo e dell'individuo. Nella sua forma moderna questo comincia con Locke, che si oppone all'«entusiasmo» (l'individualismo negli anabattisti) come anche alla autorità assoluta e alla cieca sottomissione alla tradizione. Una più completa rivolta fa capo alla dottrina della statolatria, che attribuisce allo Stato la posizione che il Cattolicesimo attribuiva alla Chiesa o anche, talvolta, a Dio. Hobbes, Rousseau ed Hegel rappresentano differenti fasi di questa teoria e le dottrine si impersonano praticamente in Cromwell, in Napoleone e nella Germania moderna. Il comunismo, in teoria, è molto lontano da tali filosofie, ma tende in pratica ad un tipo di comunità molto simile a quella risultante dalla statolatria.
    Durante questo lungo periodo di sviluppo, dal 600 a.C. ai giorni nostri, i filosofi si sono divisi in quelli che volevano stringere i legami sociali e quelli che volevano allentarli. A questa differenza se ne sono aggiunte altre. I propugnatori della disciplina hanno sostenuto un sistema dogmatico, vecchio o nuovo che fosse, e sono stati quindi spinti ad essere in maggiore o minore misura ostili alla scienza, dato che i loro dogmi non potevano essere dimostrati empiricamente. Essi hanno invariabilmente insegnato che la felicità non è il bene, ma che bisogna preferire «la nobiltà» o «l'eroismo». Hanno avuto in simpatia ciò che vi è di irrazionale nella natura umana, dato che si sono sentiti in dovere di essere nemici della coesione sociale. I libertari, d'altra parte, ad eccezione degli estremisti anarchici, hanno finito con l'essere scientifici, utilitari, razionalisti, ostili alle violente passioni, nemici di tutte le forme più profonde di religione. Questo conflitto esisteva in Grecia prima che sorgesse ciò che noi indichiamo col nome di filosofia, ed è già del tutto esplicito nel primitivo pensiero greco. Sotto mutevoli forme, è continuato fino al giorno d'oggi e non v'è dubbio che durerà per molte epoche a venire.
    È chiaro che in questa disputa ciascun partito (come in tutto ciò che dura per lunghi periodi di tempo) ha in parte ragione, in parte torto. La coesione sociale è una necessità e l'umanità non è riuscita a realizzare la coesione con argomenti puramente razionali. Ogni comunità è esposta a due opposti pericoli: da una parte la mummificazione, attraverso l'eccessiva disciplina e l'eccessivo rispetto per la tradizione; dall'altra parte la dissoluzione e l'assoggettamento alla conquista straniera, attraverso l'accrescersi di un individualismo e di una indipendenza personale che rendono impossibile la collaborazione. In generale le civiltà importanti cominciano con un sistema rigido e superstizioso, che gradualmente si rilassa e che ad un certo punto conduce ad un periodo di brillanti geni, mentre il buono della vecchia tradizione permane ed il male inerente al suo dissolversi non si è ancor sviluppato. Ma allorché il male si manifesta, esso porta all'anarchia e poi inevitabilmente ad una nuova tirannide, che produce una nuova sintesi rafforzata da un nuovo sistema dogmatico. La dottrina del liberalismo è un tentativo di sfuggire a questo ricorso senza fine. L'essenza del liberalismo è un tentativo di assicurare un ordine sociale non basato su dogmi irrazionali, tale da instaurare la stabilità senza per altro implicare maggiori limitazioni di quante non siano necessarie per la conservazione della comunità stessa. Se questo tentativo possa riuscire, solo il futuro è in grado di dirlo.

    NOTE
    (1) Tale teoria non era sconosciuta nei tempi antichi. È asserita, per esempio, nell'Antigone di Sofocle. Ma prima degli stoici erano pochi quelli che la professavano.
    (2) Ecco perché il Russo moderno non pensa che si debba obbedire al materialismo dialettico piuttosto che al partito.

  23. #48
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    Predefinito Re: La Biblioteca di BackStage

    Corriere della Sera
    giovedì, 23 dicembre, 2004
    Pag. 037




    Che sbaglio fu non capire Khomeini





    Medio Oriente, la minaccia fondamentalista si annida anche nella scheda elettorale
    Bianco Pialuisa


    È una questione retorica se un Islam moderato esista o non esista. Se non esistesse, l' Occidente dovrebbe inventarlo dal nulla, tale è il suo bisogno di crederci. Fumoso, ambiguo, sfuggente, timido o subdolo, definibile solo in antitesi al terrorismo ma restio a combatterlo apertamente. Eppure, senza questo esile appiglio, resterebbe agganciato al vuoto anche lo sforzo di esportare la democrazia in Medio Oriente, cioè in quel pezzo di mondo che, statistiche alla mano, da vent' anni cammina all' indietro rispetto alla tendenza del pianeta verso la democratizzazione. Impigliati come siamo contro l' insorgenza del terrorismo islamista, è una necessità pragmatica distinguere, di volta in volta, tra i nemici e gli interlocutori possibili. Come in tutte le guerre, come in tutti i conflitti, per radicali che possano essere. Non è tuttavia una invenzione occidentale lo scontro tra moderati e fondamentalisti all' interno dell' Islam: è una partita dolorosa e insanguinata, che nel mondo arabo investe tutti i settori culturali, e dal cui esito dipenderà se l' Islam diventerà il motore o il principale ostacolo alla democratizzazione. La fine dell' eccezione araba passa di qua. Il tono moraleggiante della discussione, la riluttanza a interrogarsi sulla natura di questa eccezione, l' ostentata sufficienza nei confronti del dissenso che pure serpeggia nel mondo arabo e di influenza islamica, fa velo a un dilemma sgradevole che, alla vigilia delle elezioni irachene, dovremmo affrontare con realismo. La procedura del voto libero, la democratizzazione (nel senso stretto del termine) dei regimi mediorientali, non è un argine al fondamentalismo. Nel deserto politico arabo, il fondamentalismo ha offerto un efficace strumento di opposizione. È un' analisi che, significativamente, vede concordi il teorico dello «scontro di civiltà», Samuel Huntington, e Fuad Ajami, lo studioso che più ha approfondito la spaccatura della cultura politica araba. In molti casi libere elezioni darebbero la maggioranza a governanti che la pensano come Osama Bin Laden. È l' incubo della democrazia una tantum, di un plebiscito fondamentalista, che ci induce a dar credito agli spicchi moderati di queste società, dovunque si annidino, a proteggerli, a tentare di farli crescere. Fino al big bang terroristico, l' Occidente si era acquietato nella protezione di quelle satrapie, laiche e moderate, che restando al potere senza democrazia promettevano il controllo del fanatismo. Regimi autoritari, repressivi, corrotti anche, e tuttavia meno temibili di quelli, tecnicamente più democratici, cioè frutto di libere elezioni, che avrebbero potuto sostituirli. Dal Qatar all' Oman, dalla Giordania al Kuwait (quando l' emiro cercò la prima volta di dare il voto alle donne, fu solennemente bocciato dal Parlamento democraticamente eletto), e così via elencando, i gruppi al potere sono stati spesso più moderni e liberali delle società su cui comandavano. Ma il circolo vizioso è evidente: la mancanza di libertà, il deficit di sviluppo, la stagnazione sociale, gruppi dirigenti incapaci di invertire la deriva fondamentalista, un ceto intellettuale gracile o asservito hanno fomentato, sotto la cenere, una opposizione sovversiva e onirica, fanatica e violenta. È in questo groviglio la difficoltà di porsi la domanda utile: come riconoscere i moderati da appoggiare? Come distinguerli da coloro che, reclamando democrazia e libertà contro il potere costituito, inclinano alla sovversione fondamentalista? Come non perderli di vista, se restano acquattati nelle pieghe di società illiberali? È evidente che i primi ci fanno paura e i secondi ci appaiono imbelli. L' Occidente ha una sua memoria degli errori di valutazione e delle illusioni, sufficiente per non incapparci ancora. La setta del Falun Gong, messa al bando da Pechino alla fine degli anni Novanta, era così infiltrata di nostalgici del maoismo, di militari frustrati e reduci della Lunga Marcia da renderla un miscuglio esplosivo di radicalismo antisistema e retromarcia conservatrice. Non a caso, osteggiata da molti veterani del movimento di Tien An Men, fu osannata dalla correctness politica, superficiale e priva di visione strategica. Non solo il nostro passato, dunque, potrebbe essere lastricato di errori di valutazione simili a quello di aver sottovalutato l' exploit khomeinista in Iran. E contano pure le delusioni opposte, secondo uno schema tragico e ripetitivo che accomuna Grandi e Ciano a Dubcek, a Gorbaciov e all' ayatollah «buono» Khatami. Il destino personale di ognuno dei protagonisti di questa galleria di illusioni dimostra quanto sia difficile fare i conti con l' idea pur così liberal e chic, che società rinchiuse in se stesse trovino la forza di autocorreggersi. Forti di simili esperienze, dobbiamo saperci guardare intorno. Con ogni probabilità, la democrazia, anche quella esportata, da Kabul a Bagdad, si farà strada tra forzature e consenso. Tra imposizione e dissenso. Tra guerre culturali, sanguinose, e compromessi non eccitanti. È andata così dalla caduta del Muro di Berlino in poi, quando il sistema democratico ha smesso di essere una prerogativa occidentale e ha cominciato a investire l' ex Europa dell' Est, il gigante latinoamericano, il Sud Est asiatico e l' Estremo Sud africano. Era andata così anche in Occidente. Solo chi crede che la democrazia si esaurisca nel miracolo elettorale, sottovaluta lo scontro tra moderati e fondamentalisti.

    Pialuisa Bianco

  24. #49
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    Predefinito Re: La Biblioteca di BackStage

    Intro Montanelli - Storia d'Italia Vol.XII (1993-1997)

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    POSCRTTO
    di Indro Montanelli



    Questo volume segna il capolinea della nostra Storia dell'Italia contemporanea. Mario Cervi, di parecchi anni più giovane di me, potrà, se vorrà (e io spero che lo voglia) continuarla da solo. Io debbo prendere congedo dai nostri lettori. E non soltanto per ragioni anagrafiche, anche se di per sé abbastanza evidenti e cogenti. Ma perché il congedo l'ho preso negli ultimi tempi dalla stessa Italia, un Paese che non mi appartiene più e a cui sento di non più appartenere.
    È stato proprio l'impegno profuso nella stesura di questi volumi, nei quali la Storia si confonde con la testimonianza diretta, anche questa condivisa pienamente da Cervi, a rendermi consapevole che quello nostro era qualcosa di mezzo tra il resoconto d'un fallimento e l'anamnesi di un aborto. Uno dei primi volumi usciti dalla nostra collaborazione, nonostante il titolo L'Italia della disfatta, reca i segni della speranza e delle illusioni con cui ne avevamo vissute le drammatiche ma esaltanti vicende. Credemmo che l'Italia avesse liquidato, sia pure a carissimo prezzo e grazie a forze altrui (ma questo è il Leitmotiv della nostra Storia non soltanto di questo secolo), un regime che le aveva impedito di essere se stessa. Ed invece gli eventi che abbiamo seguito passo passo coi volumi successivi ci dimostravano che non era affatto cambiata col cambio del regime. Erano cambiate le forane, ma non la sostanza. Era cambiata la retorica, ma era rimasta retorica. Erano cambiate le menzogne, ma erano rimaste menzogne. Erano soprattutto cambiate le mafie del potere e della cultura, ma erano rimaste mafie.
    Al referendum istituzionale del 2 giugno '46, Cervi ed io ancora non ci conoscevamo, e ci trovammo su posizioni opposte. Cervi si pronunciò per la Repubblica, io per la Monarchia. Ma entrambi eravamo convinti che quella fosse la data d'inizio di una «vita nova», molto diversa da quella che avevamo vissuto, o meglio subito; e di questa grande speranza fummo entrambi (anche se io forse un po' meno di Cervi) partecipi. Essa ci sostenne, e in certi momenti forse anche ci esaltò, fino agli anni del «miracolo», che furono i primi Cinquanta. Poi...
    Noi questo poi lo abbiamo vissuto da giornalisti militanti, entrambi al Corriere della Sera. Entrambi assistemmo e fummo i cronisti della rapida degenerazione della democrazia in partitocrazia, cioè in un oligopolio di camarille e di gruppi che esercitavano il potere in nome della cosiddetta «sovranità popolare»; in realtà nel solo interesse di quei gruppi e camarille, che d'interesse ne avevano uno solo: che il potere restasse «cosa nostra», come infatti per quasi cinquant'anni è stato, e come seguita ad essere anche ora che ha cambiato titolari, ma sempre restando «cosa nostra».
    In questo sistema abbiamo visto corrompersi tutto, a cominciare dallo Stato. Lo Stato che il fascismo aveva trovato quando assunse il potere non era gran che. Però una categoria di funzionari abbastanza onesti e ligi ad un certo rigore e decoro di comportamenti, nei pochi decenni di Storia unitaria si era formata. E Mussolini la rispettò. Ne mise tutto il personale in camicia nera, ma non ne toccò i posti, le carriere e le competenze. Anche in periferia, il Prefetto, organo dello Stato, prevalse sempre, o quasi sempre, sul Segretario federale, organo del Partito. E questo atteggiamento fu particolarmente visibile nel campo della giustizia. Per perseguire il delitto di opinione, il regime dovette istituire una sua magistratura di partito perché quella ordinaria si rifiutava di considerare l'opinione un delitto, e il regime rispettò questo rifiuto.
    Anche la Repubblica, «nata dalla Resistenza», così era d'obbligo chiamarla, riconobbe ed anzi enfatizzò l'indipen-denza della magistratura dal potere politico. E per meglio garantirla, la dotò di un organo di autogoverno, il Consiglio superiore della magistratura, riservandosene però una componente «laica», cioè di non magistrati nominati a quei posti dal potere politico, e per esso dai tre maggiori partiti, che se lo contendevano, o meglio se lo spartivano. Ma la contaminazione non si era fermata qui. Aveva investito tutta la magistratura dividendola in «correnti» - ognuna delle quali faceva capo ad un partito o ad un'area.
    È questo che spiega l'impunità con cui le forze politiche poterono compiere la loro opera di corruzione, che non consisteva soltanto nel prelievo dei pedaggi imposti a tutte le attività economiche pubbliche e private - le famose «tangenti» - ma anche nell'annessione e addomesticamento di tutti quegli organi di controllo - Corte costituzionale, Corte dei Conti, Consiglio di Stato, Ragioneria generale - che alla corruzione avrebbero dovuto porre un freno e che invece ne diventarono lo strumento.
    La corruzione non è un fenomeno soltanto italiano. Clemenceau diceva che non c'è democrazia che ne sia al riparo. Ma quella che aveva sotto gli occhi lui, in Francia, si limitava alla classe politica, forse non molto migliore della nostra. Ma a sbarrarle la strada c'era uno Stato che dai tempi di Colbert era servito da una vera e propria casta di commix, di funzionari rigorosamente selezionati in scuole speciali ed alla corruzione impermeabili. La burocrazia italiana non disponeva di un personale di altrettanto livello e non oppose resistenza al potere politico che se l'annesse distribuendo favori soprattutto di carriera agli arrendevoli e castighi a chi non si adeguava. I due milioni di miliardi e passa di debito pubblico non si possono spiegare che come il frutto di un reticolo di complicità fra classe politica e classe amministrativa che rese del tutto vano il disposto costituzionale secondo cui lo Stato non poteva procedere a spese che non fossero coperte da adeguate entrate. Gli organi cui era affidata l'osservanza di questa regola ne avallarono tutte le con travvenzioni, richieste, ed anzi imposte da un potere politi co che badava soltanto a sopravviversi distribuendo favori e indulgenze.
    Di questo processo di corruzione potrei citare infiniti al tri casi con prove e dettagli. Ma lo ritengo non solo superfluo, visto che è sotto gli occhi di tutti, ma anche fuorviante
    in quanto può rafforzare nel lettore la convinzione che sia dovuto soltanto alla classe politica. Non è così. Che la classe politica che ha esercitato il potere negli ultimi trenta o quarant'anni sia stata, nel suo insieme, corrotta e corruttrice, è vero. Ma è altrettanto vero che al potere è sempre rimasta col nostro voto. Perché, si usa dire, l'unica alternativa erano i comunisti che avrebbero fatto dell'Italia una succursale dell'Unione Sovietica. Ed anche questo è vero. Ma i voti ai comunisti, chi glieli dava? Ed ora che l'incubo del comunismo (piaccia o non piaccia al «compagno» Bertinotti) è finito, forse che le cose sono cambiate e la classe politica è migliorata?
    L'anagrafe mi ha consentito, o forse mi ha condannato, a partecipare a tutte le grandi speranze di questo secolo italiano. Studente negli anni Venti, ho sognato, come tanti, quasi tutti i miei coetanei, di contribuire a fare del fascismo una cosa seria, e automaticamente ce ne trovammo emarginati. Ci schierammo con le poche forze liberaldemocratiche della Resistenza, e ce ne ritraemmo vedendola trasformata in uno strumento di partito e ridotta a grancassa della sua propaganda col consenso - o la sottomissione - della maggioranza degl'italiani. La speranza di contribuire a qualcosa di buono si riaccese subito dopo la Liberazione sotto la guida di pochi vecchi uomini del prefascismo, presto anch'essi emarginati dalle nuove leve di mestieranti della politica, abilissimi nei giuochi di potere, ma soltanto in quelli. E da allora cominciò la degenerazione mafiosa della democrazia sotto gli occhi indifferenti, o ipocritamente indignati, di una pubblica opinione alle mafie assuefatta da secoli.
    Oramai sono giunto alla conclusione che la corruzione non ci deriva da questo o quel regime o da queste o quelle «regole», di cui battiamo, inutilmente, ogni primato di produzione. Ci deriva da qualche virus annidato nel nostro sangue e di cui non abbiamo mai trovato il vaccino. Tutto in Italia ne viene regolarmente contaminato. Se ci danno la democrazia, la riduciamo a partitocrazia, cioè ad un sistema di mafie. E la cultura, da cui avrebbero potuto e dovuto venirci moniti ed esempi, si è adeguata, come del resto volevano le sue origini.
    La cultura italiana è nata nel Palazzo e alla mensa del Principe, laico o ecclesiastico che fosse, e non poteva esser altrimenti, visto che il Principe era, in un Paese di analfabeti e quindi senza pubblico mercato, il suo unico committente. Mentre la Riforma aveva sgominato l'analfabetismo facendo obbligo ai suoi fedeli di leggere e d'interpretare i testi sacri senza la mediazione del Pastore autorizzato a dare solo qualche consiglio; la Controriforma, che faceva del prete l'unico autorizzato interprete delle Scritture, dell'analfabetismo era stata la fabbrica, che lasciava l'intellettuale alla mercé (in tutti i sensi) del suo patrono e protettore. Il quale naturalmente se ne faceva ripagare non solo con la piaggeria, ma anche con la difesa del sistema su cui si fondavano i suoi privilegi.
    Così si formò quella cultura parassitaria e servile, che non è mai uscita dai suoi circuiti accademici per scendere in mezzo al popolo a compiervi quell'opera missionaria, di cui le è sempre mancato non solo la vocazione, ma anche il linguaggio. In Italia il professionista della cultura parla e scrive per i professionisti della cultura, non per la gente. E istintivamente cerca ancora un Principe di cui mettersi al servizio.
    Scomparsi quelli di una volta, il loro posto è stato preso dai depositari del potere, cioè dai partiti. E questo spiega la cosiddetta «organicità» dell'intellettuale italiano, sempre schierato dalla parte verso cui soffia il vento. Se è vero che l'ambizione di ogni intellettuale è di diventare il direttore della pubblica coscienza, l'intellettuale italiano la serve all'incontrario: mettendosene al rimorchio e facendo la mosca cocchiera di tutti i suoi eccessi e sbandate.
    Ecco il motivo per cui ho deciso di rinunziare al seguito di questa Storia d'Italia (che del resto rischia di avvilirsi a cronaca giudiziaria). Ho smesso di credere all'utilità di una Storia scritta al di fuori di tutti i circuiti della politica e della cultura tradizionali. Anzi, ad essere sincero sino in fondo, ho smesso di credere all'Italia. Questo volume, che include la sceneggiata di piazza San Marco, include anche la convinzione di uno dei suoi due autori che in un'Italia come questa anche una sceneggiata può bastare a provocarne la decomposizione. Sangue non ce ne sarà: l'Italia è allergica al dramma, e per essa nessuno è più disposto a uccidere e tanto meno a morire. Dolcemente, in stato di anestesia, torneremo ad essere quella «terra di morti, abitata da un pulviscolo umano», che Montaigne aveva descritto tre secoli orsono.
    O forse no: rimarremo quello che siamo: un conglomerato impegnato a discutere, con grandi parole, di grandi riforme a copertura di piccoli giuochi di potere e d'interesse. L Italia è finita. O forse, nata su dei plebisciti-burletta come quelli del 1860-'61, non è mai esistita che nella fantasia di pochi sognatori, ai quali abbiamo avuto la disgrazia di appartenere. Per me, non è più la Patria. E solo il rimpianto di una Patria.

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    Appunti di Geopolitica

    di Luciana Ziruolo; 2000




    Istituto per la storia della Resistenza e della società contemporanea della provincia di Alessandria
    Alla ricerca del significato; La definizione di Lacoste; "Limes" e la geopolitica; Un convegno a Trieste

    È stato solo con gli avvenimenti internazionali seguiti al 1989, in particolare con la guerra del Golfo, che si è tornati a parlare diffusamente di “geopolitica”. Negli anni Novanta il termine torna di moda nella stampa quotidiana e tra i geografi (senza che questi, in fondo, si interroghino sulle cause e sulle finalità di questo ritorno) e subisce un’inflazione semantica: viene usato in tutti i contesti, soprattutto dai media, e si assiste ad un suo uso ed abuso, nel senso che spesso viene usato a sproposito. "Geopolitica" diventa un termine alla moda, utile per infiorare il titolo di testi che spesso nulla hanno di geopolitico. In questo articolo si tenta un approccio ad una definizione condivisa.

    Alla ricerca del significato
    Data la confusione sul termine, pare sensato a un docente, a un discente, a un cittadino consultare dizionari ed enciclopedie.
    Ad esempio, Il nuovo Zingarelli (198 la definisce come scienza che studia le basi e le ragioni geografiche dei problemi politici ed economici.
    Curiosamente il termine non compare nella Enciclopedia della geografia della De Agostini (1996).
    Volendo fare una ricerca più aggiornata sono state consultate le diverse enciclopedie su supporto informatico, disponibili nel nostro Istituto (Istituto per la storia della resistenza e della società contemporanea in provincia di Alessandria).
    Il termine non compare neanche nella recentissima Omnia 1999 sempre della De Agostini e neanche nella Enciclopedia multimediale Mondadori.
    Nella Enciclopedia Zanichelli Plus Professionale 1999 poche parole che la indicano come "scienza che studia le influenze geografiche sui problemi politici"; poche parole anche nell'Enciclopedia Rizzoli 1998 " scienza che studia i rapporti tra gli Stati e le loro relazioni politiche in base ai fattori naturali che li possono determinare".
    Si distingue Encarta 1998 Microsoft , che in prima battuta definisce la "geopolitica" come "scienza che studia le ragioni geografiche dei problemi politici" ma, cliccando sugli articoli, è possibile trovare una mezza cartella di testo:

    “Geopolitica. Termine coniato dal politologo svedese Rudolf Kjellén, nel suo Staten som Lifsform (Lo stato come organismo, 1916), per indicare l’influenza determinante dell’ambiente (aspetti geografici, forze sociali e culturali, risorse economiche) sulla politica di un paese. Ogni stato sovrano occupa un particolare territorio con tratti geofisici unici che determinano almeno in parte le forme più efficaci di organizzazione politica, sociale, economica e militare, anche in relazione alla localizzazione geografica degli altri stati: un esempio è dato dal Belgio e dalla Polonia, l’uno situato tra la Germania e la Francia, l’altra tra la Germania e la Russia, che nel XX secolo sono stati campi di battaglia per i paesi vicini. Nell’interpretazione del generale tedesco Karl Haushofer, la geopolitica fornì al nazionalsocialismo un alibi pseudoscientifico per giustificare l’espansione territoriale tedesca in base al presunto diritto di Lebensraum (“spazio vitale”), definito come il territorio necessario al paese per raggiungere l’autosufficienza.
    L’approccio geopolitico agli affari internazionali ha permesso di avanzare ipotesi interpretative più profonde sulla struttura dei rapporti di potere tra gli stati, ad esempio sulla rivalità tra gli Stati Uniti d’America (USA) e l’Unione delle repubbliche socialiste sovietiche (URSS). Vedi Politica dei blocchi.”
    (“Geopolitica”, Enciclopedia Microsoft ® Encarta ® 98. © 1993-1997 Microsoft corporation)

    Basta questa sola lettura per saperne molto di più, per capire ad esempio perché dopo la seconda guerra mondiale e, sostanzialmente fino a pochi anni fa, per lo meno in Italia, il termine non venisse più utilizzato: troppo forte era stata la contaminazione fattane da Haushofer e dalle teorie naziste sullo spazio vitale. La geopolitica è stata uno degli strumenti di propaganda politica dei teorici del Terzo Reich.


    La definizione di Lacoste
    In tutte queste definizioni, come è possibile notare, non c’è alcun riferimento alla storia, benché i diritti storici siano uno dei maggiori argomenti in geopolitica.
    In proposito si riporta questo passo di Yves Lacoste:

    “La sola maniera scientifica di affrontare qualsiasi problema geopolitico è di porre subito in chiaro, come principio fondamentale, che esso è espresso da rappresentazioni divergenti, contraddittorie e più o meno antagoniste.
    Bisogna anche tener conto del fatto che ciascuna di queste rappresentazioni non è unicamente fondata su dati spaziali e sulla situazione presente. Ciascuna si riferisce alle situazioni e ai conflitti precedenti, che rimontano più o meno indietro nel tempo. Queste memorie selettive sono evidentemente cariche di giudizi di valore. Ciascuna si fonda sulla sua versione della storia, su antichi tracciati di frontiera, su configurazioni spaziali di cui si conserva o meno la memoria, secondo le necessità della causa. E’ il problema dei diritti storici che si riferiscono a tale o talaltra carta o a tale o talaltra descrizione di geografia storica. Una certa rappresentazione, ad esempio, riposa sui “tempi lunghi” per fondare i suoi diritti su un lontano passato. Al contrario, i suoi avversari giocheranno i “tempi brevi” se sono loro più favorevoli. Tale rappresentazione “salta” tutto un periodo del passato quello che invece valorizza il discorso avverso. Rari sono i ragionamenti geopolitici che non fanno alcun riferimento alla storia e in cui gli argomenti appaiono come unicamente spaziali ?…? la geopolitica può essere considerata come metodo scientifico (“scienza” sarebbe ancora presuntuoso in un campo così carico di contraddizioni) dal momento in cui l’una e l’altra tesi rivale sono presentate in buona fede e si cerca di comprenderle entrambe in profondità:”
    (Yves Lacoste, Che cos’è la geopolitica (IV), “Limes”, 3, 94, pp.299-300)

    Tra le definizioni appena viste e questo testo di Yves Lacoste, pare non esserci accordo: innanzi tutto sul fatto che la geopolitica sia una scienza – o non piuttosto azione, strategia - e, in secondo luogo, sull'oggetto di studio.

    Per procedere in conoscenza, conviene partire dal famoso articolo, ancora di Yves Lacoste, Il ritorno della geopolitica, pubblicato su "MicroMega" (4/91), subito dopo il disfacimento del blocco sovietico.
    Lacoste constata, oltre al ritorno della geopolitica la diffusione di un termine nuovo: "geostrategia". I due termini vengono utilizzati correntemente da giornalisti e da specialisti, pur riluttanti sia a differenziarli che a considerarli come sinonimi.
    Per Lacoste si può considerare la "geopolitica" come un approccio di tipo scientifico a condizione di partire dal carattere contraddittorio delle affermazioni delle varie forze politiche (non soltanto dei governi), ciascuna delle quali pretende di riferirsi a buon diritto alla scienza e alla storia al fine di giustificare le proprie ambizioni territoriali, o le posizioni che occupa.
    Gli approcci geopolitici non solo tengono conto delle caratteristiche geografiche, ma ciascuno di essi è in funzione di un progetto. Tali approcci sono sostanzialmente strategici e si rifanno alla storia soltanto per giustificare posizioni o rivendicazioni territoriali.
    La problematica nazioni/territori è alla base di tutte le controversie geopolitiche. Da Potsdam al 1991 è stata occultata da due ideologie rivali: una affermava che le rivalità tra nazioni erano secondarie di fronte al conflitto tra socialismo e capitalismo, l'altra difendeva "il mondo libero" e con ciò cercava di minimizzare le rivalità nazionali ereditate dal passato. E' con il crollo dei regimi comunisti, con l'avanzata delle rivendicazioni nazionali che la parola geopolitica, troppo a lungo occultata è diventata una idea-forza di questa fine del secolo XX.
    Delle nazioni vogliono essere indipendenti in Urss, nell'Europa centrale e nei Balcani, ciascuna di esse vuole soprattutto avere il controllo, il possesso di quello che ritiene il suo territorio storico.

    Lacoste sottolinea poi ancora come non si debba considerare la geopolitica come una scienza, con delle pretese leggi in grado di opporre il vero al falso, il giusto all'ingiusto, bensì "come l'approccio razionale di un insieme di rappresentazioni e di argomenti contraddittori, che esprimono le rivalità di diversi tipi di potere su dei territori".
    Egli intende per "geopolitica" le discussioni e le controversie per cittadini di una stessa nazione e riserva il termine geostrategia alle rivalità ed antagonismi tra Stati o tra forze politiche che si considerano assolutamente contrapposte.
    Il termine sottolinea l'importanza, in certi rapporti di forza, di dati geografici che sono considerati come poste in gioco rilevanti (uno stretto, un canale, i giacimenti di petrolio del Kuwait).
    Volendo fare degli esempi, l'invasione del Kuwait da parte di Saddam Hussein nel 1990 attiene alla geostrategia, analogamente le ragioni dell'intervento americano. Per contro, secondo la distinzione di Lacoste, rientra nella geopolitica il dibattito svoltosi successivamente tra cittadini sia in Francia che negli Stati Uniti.
    A conferma della tesi di Lacoste, basti pensare che la parola "geopolitica" e l'insieme di idee che essa designava all'inizio apparvero proprio nella Germania del 1918, nel momento del grande dibattito tra cittadini che si interrogavano su ciò che conveniva fare: accettare certe frontiere che gli alleati pretendevano di imporre e rifiutarne assolutamente altre, dimostrare che esse erano ingiuste, assurde, pericolose per il futuro? La geopolitica fu anzitutto un dibattito democratico tra cittadini e soltanto quindici anni dopo fu confiscata e soffocata dal partito nazista.
    Questo per quanto riguarda l'esponente più autorevole della scuola francese che fa riferimento alla rivista "Hérodote" ("Hérodote/Italia-Erodoto" inizialmente si presenta come edizione italiana dell'omonima rivista francese di Yves Lacoste).

    "Limes" e la geopolitica.
    Un ruolo decisivo nel riportare in auge, in Italia, gli studi geopolitici va riconosciuto alla rivista trimestrale, diretta da Lucio Caracciolo, "Limes. Rivista Italiana di Geopolitica". Il primo numero esce nel marzo 1993 ed è interamente dedicato al conflitto nell’ex Jugoslavia ( il numero, utile e di tragica attualità, è stato ridistribuito nel mese di maggio scorso, mentre infuriava la guerra del Kosovo). La rivista a differenza di “Hérodote” e di “Hérodote-Italia” non è un prodotto della geografia accademica o meno, bensì dell’editoria specializzata e si caratterizza per una marcata trasversalità dei suoi membri, trasversalità che diede subito origine a polemiche da parte de “il manifesto”, poi riprese dal " Corriere della sera” nell’articolo Un lumbard tra i cosmopoliti? Con Miglio si discute meglio del 31 marzo 1993. Il quotidiano “il manifesto” aveva segnalato la stridente presenza nel consiglio scientifico della rivista di Gianfranco Miglio affermando: “…non che si voglia censurare il suddetto, ma offrirgli una poltrona nel consiglio scientifico non pare davvero il gesto più coerente per una rivista che vuole sollecitare la riflessione sull’interesse nazionale italiano” e il "Corriere della Sera” annotava: “…Nella fretta di smascherare l’aborrito leghista, i censori del "Manifesto" non hanno neppure registrato la presenza, tra le pagine di Limes, di un nemico ben più insidioso: quel generale Carlo Jean che è stato a lungo consigliere di Francesco Cossiga per le questioni militari. Forse, tratti in inganno dal cognome, avranno pensato che fosse uno stratega di Mitterand”.

    Il generale Carlo Jean è stato curatore di una serie di volumi sul pensiero strategico e, come appena visto, è stato consigliere militare del Presidente della Repubblica Francesco Cossiga. Marco Antonsich individua in Jean "il capofila di un pensiero geopolitico realista, strumento pratico per la definizione degli interessi nazionali, vera e propria "geografia applicata" al governo degli affari internazionali" (Marco Antonsich, Geopolitica e geografia politica in Italia dal 1945 ad oggi, p. 17.

    Grazie anche all'esperienza maturata con “Limes”, di cui è stato uno dei fondatori, Jean pubblica nel 1995 per i prestigiosi tipi della Laterza Geopolitica, un volume che può definirsi come il primo manuale di geopolitica.
    Per Jean, la ricomparsa della geopolitica, legata agli eventi internazionali del post 1989, è un sintomo del riacutizzarsi della lotta per il dominio dello spazio e un invito a ridefinire i propri particolari interessi nazionali.
    Egli afferma la necessità di considerare accanto ai tre fattori classici della geopolitica – la terra, il mare, l’aria – anche un quarto elemento, il fuoco, ovvero la tecnologia, capace di mutare il significato dei primi tre.
    La geopolitica nell’interpretazione di Jean assurge a “metodo di ragionamento [...], un modo di pensare allo spazio, non in modo neutrale, oggettivo, mantenendo le mani pulite, ma in funzione di propri progetti, valori, visioni del mondo e della storia”.
    Posta la non neutralità del sapere geopolitico Jean mostra attenzione per gli aspetti più propriamente attivi racchiusi in quel sapere: la geopolitica come consigliere del principe, necessaria riflessione che precede l’azione politica. Più che scienza predittiva è mezzo di autocoscienza dei soggetti politici. Se la geografia politica riguarda la politica avvenuta, la geopolitica riguarda la politica futura; mentre la prima, seppur descrittiva, è comunque una scienza, la seconda è piuttosto una metageografia.
    Il metodo per giungere a una corretta geopolitica, secondo Jean, consiste di tre fasi:
    a) individuazione delle rappresentazioni geografiche che esprimono le percezioni profonde circa gli interessi nazionali e il senso dello spazio proprio di ciascun popolo e che affondano le loro radici nella sua storia e nella sua cultura e valori;
    b) elaborazione di scenari geopolitici particolari e generali allo scopo di individuare le tendenze e le dinamiche che probabilmente si verificheranno per l’evoluzione dei fattori in gioco o per iniziativa degli altri soggetti politici con cui si interagisce;
    c) definizione delle opzioni politiche disponibili per influire sul cambiamento in maniera coerente con i propri interessi e valori.

    Per Jean, così come per “Limes”, la geopolitica è anche un necessario momento di dibattito democratico, perché tanto più forte è la rimozione del dibattito pubblico sugli interessi nazionali, tanto più essi saranno definiti in modo oligarchico e antidemocratico.

    Un convegno a Trieste
    Un importante convegno di approfondimento storico ed epistemologico sul tema della geografia politica e della geopolitica è stato organizzato dal dipartimento di Scienze politiche dell'università di Trieste "La costruzione della geopolitica in Italia: un difficile cammino tra derive, silenzi contestazioni e proposte" (Trieste, 10 novembre 1995). Al convegno, organizzato da Marco Antonsich e Maria Paola Pagnini, hanno partecipato, tra gli altri, anche Giuseppe Dematteis e Lucio Caracciolo. Si riportano le principali posizioni delineatesi nel convegno, così come le ha tratteggiate Antonsich nel saggio già citato.
    Dematteis si è riconosciuto nella definizione che Jean ha dato della geopolitica come azione. Più che disciplina conoscitiva, infatti, la geopolitica è innanzi tutto disciplina performativa, votata all’azione. Tra la geografia politica e la geopolitica non esiste però un rapporto di conoscenza e azione: non è, cioè, che la geopolitica sposti nel campo dell’azione le conoscenze acquisite in campo geografico politico. Se un merito la geopolitica l’ha avuto, è stato quello di rendere drammatica l’ambiguità del sapere geografico. La geografia è una metafora spaziale.
    Secondo Lucio Caracciolo, direttore di “Limes”, la geopolitica non è altro che un approccio di tipo razionale, pragmatico e realista ai conflitti di potere sul territorio. Ricusando la critica di nazionalismo rivolta alla rivista, Caracciolo ha ribadito che compito di “Limes” è quello di riportare in Italia il dibattito sul concetto di national interest. La geopolitica è un mezzo attraverso il quale esplicitare gli interessi nazionali dei diversi stati, innescando un dibattito democratico sugli stessi. In particolare la geopolitica di “Limes” è anche un tentativo di demistificazione della politica, teso a svelare cosa si nasconda dietro a slogan ormai di dominio pubblico, come globalizzazione, federalismo e unificazione europea.
    Il convegno è servito a riaffermare la necessità, per la geografia, di riallacciare un dialogo con il "politico", elemento consustanziale alla disciplina stessa. Cercare di nascondere la natura politica di ogni discorso geografico vuol dire negare la natura stessa della geografia. Privata di questa natura, dimenticata cioè la lezione di Erodoto, la geografia rischierebbe di perdere la sua ragion d'essere, di allontanarsi dalla realtà e dai suoi problemi.
    Infine, proprio perché i problemi del nostro tempo ci stanno a cuore, un ultimo invito (sono parole di Lacoste, “Limes”, 3/94), sull’opportunità di imparare a utilizzare la riflessione geopolitica:
    “…Checché se ne dica le frontiere esistono e, se esse tendono a impallidire in Europa occidentale, il diritto dei popoli a disporre di se stessi le moltiplica dolorosamente in tutto L’Est europeo […] Ora, la funzione del ragionamento geopolitico è anche quella di un ponte che permetta di superare l’ostacolo, facendo capire quali sono le idee e gli antagonismi da una parte e dall’altra delle frontiere, la geopolitica aiuta a scavalcarle e, forse, a contribuire a formare una disposizione d’animo che aiuti a cercare la soluzione pacifica di alcuni conflitti”.

    Nota bibliografica

    - Yves Lacoste, Il ritorno della geopolitica e la sezione Iceberg 1, geopolitica, in "MicroMega", n.4, 1991;

    - Yves Lacoste, Che cos'è la Geopolitica?, in "Limes. Rivista italiana di geopolitica", n.4, 1993 e nn. 1, 2, 3, 1994;

    - Marco Antonsich, Geopolitica e geografia politica in Italia dal 1945 ad oggi, (1999) articolo scaricabile da < http://www.univ.trieste.it/~scipoli/quad erni >;

    - Carlo Jean, Geopolitica, Roma-Bari, Laterza, 1995;

    - Adalberto Vallega, Geopolitica e sviluppo sostenibile. Il sistema mondo del XXI secolo, Milano, Mursia, 1994;

    - "Hérodote/Italia - Erodoto" (direttore Massimo Quaini), inizialmente si presenta come edizione italiana dell'omonima rivista francese diretta da Yves Lacoste. Dal novembre 1978 al settembre 1984 sono usciti sei numeri monotematici della rivista;

    - "Limes. Rivista Italiana di Geopolitica", (trimestrale monotematico), il primo numero esce nel marzo 1993, direttore Lucio Caracciolo.

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