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    Predefinito Re: La Biblioteca di BackStage

    TESTAMENTO DEL SANTO PADRE GIOVANNI PAOLO II

    PRIMA PARTE - Il testamento del 6.3.1979 (e le aggiunte successive) Totus Tuus ego sum Nel Nome della Santissima Trinità. Amen. «Vegliate, perché non sapete in quale giorno il Signore vostro verrà» (cf. Mt 24, 42) queste parole mi ricordano l'ultima chiamata, che avverrà nel momento in cui il Signore vorrà. Desidero seguirLo e desidero che tutto ciò che fa parte della mia vita terrena mi prepari a questo momento.
    Non so quando esso verrà, ma come tutto, anche questo momento depongo nelle mani della Madre del mio Maestro: Totus Tuus. Nelle stesse mani materne lascio tutto e Tutti coloro con i quali mi ha collegato la mia vita e la mia vocazione. In queste Mani lascio soprattutto la Chiesa, e anche la mia Nazione e tutta l'umanità. Ringrazio tutti. A tutti chiedo perdono. Chiedo anche la preghiera, affinchè la Misericordia di Dio si mostri più grande della mia debolezza e indegnità. Durante gli esercizi spirituali ho riletto il testamento del Santo Padre Paolo VI. Questa lettura mi ha spinto a scrivere il presente testamento.
    Non lascio dietro di me alcuna proprietà di cui sia necessario disporre. Quanto alle cose di uso quotidiano che mi servivano, chiedo di distribuirle come apparirà opportuno. Gli appunti personali siano bruciati. Chiedo che su questo vigili don Stanislao, che ringrazio per la collaborazione e l'aiuto così prolungato negli anni e così comprensivo. Tutti gli altri ringraziamenti invece, li lascio nel cuore davanti a Dio stesso, perchè è difficile esprimerli. Per quanto riguarda il funerale, ripeto le stesse disposizioni, che ha dato il Santo Padre Paolo VI. (qui nota al margine: il sepolcro nella terra, non in un sarcofago, 13.3.92). «apud Dominum misericordia et copiosa apud Eum redemptio».

    SECONDA PARTE - Roma, 6.III.1979 Dopo la morte chiedo Sante Messe e preghiere 5.III.1990

    TERZA PARTE - Foglio senza data: Esprimo la più profonda fiducia che, malgrado tutta la mia debolezza, il Signore mi concederà ogni grazia necessaria per affrontare secondo la Sua volontà qualsiasi compito, prova e sofferenza che vorrà richiedere dal Suo servo, nel corso della vita. Ho anche fiducia che non permetterà mai che, mediante qualche mio atteggiamento: parole, opere o omissioni, possa tradire i miei obblighi in questa santa Sede Petrina.

    QUARTA PARTE - 24.II - 1.III.1980 Anche durante questi esercizi spirituali ho riflettuto sulla verità del Sacerdozio di Cristo nella prospettiva di quel Transito che per ognuno di noi è il momento della propria morte. Del congedo da questo mondo - per nascere all'altro, al mondo futuro, segno eloquente (aggiunto sopra: decisivo) è per noi la Risurrezione di Cristo. Ho letto dunque la registrazione del mio testamento dell'ultimo anno, fatta anch'essa durante gli esercizi spirituali - l'ho paragonata con il testamento del mio grande Predecessore e Padre Paolo VI, con quella sublime testimonianza sulla morte di un cristiano e di un papa - e ho rinnovato in me la coscienza delle questioni, alle quali si riferisce la registrazione del 6.III. 1979 preparata da me (in modo piuttosto provvisorio).
    Oggi desidero aggiungere ad essa solo questo, che ognuno deve tener presente la prospettiva della morte. E deve esser pronto a presentarsi davanti al Signore e al Giudice - e contemporaneamente Redentore e Padre. Allora anche io prendo in considerazione questo continuamente, affidando quel momento decisivo alla Madre di Cristo e della Chiesa - alla Madre della mia speranza. I tempi, nei quali viviamo, sono indicibilmente difficili e inquieti. Difficile e tesa è diventata anche la via della Chiesa, prova caratteristica di questi tempi - tanto per i Fedeli, quanto per i Pastori. In alcuni Paesi (come p.e. in quello di cui ho letto durante gli esercizi spirituali), la Chiesa si trova in un periodo di persecuzione tale, da non essere inferiore a quelle dei primi secoli, anzi li supera per il grado della spietatezza e dell'odio. Sanguis martyrum - semen christianorum. E oltre questo - tante persone scompaiono innocentemente, anche in questo Paese in cui viviamo... Desidero ancora una volta totalmente affidarmi alla grazia del Signore. Egli stesso deciderà quando e come devo finire la mia vita terrena e il ministero pastorale. Nella vita e nella morte Totus Tuus mediante l'Immacolata. Accettando già ora questa morte, spero che il Cristo mi dia la grazia per l'ultimo passaggio, cioè la [mia] Pasqua. Spero anche che la renda utile anche per questa più importante causa alla quale cerco di servire: la salvezza degli uomini, la salvaguardia della famiglia umana, e in essa di tutte le nazioni e dei popoli (tra essi mi rivolgo anche in modo particolare alla mia Patria terrena), utile per le persone che in modo particolare mi ha affidato, per la questione della Chiesa, per la gloria dello stesso Dio. Non desidero aggiungere niente a quello che ho scritto un anno fa - solo esprimere questa prontezza e contemporaneamente questa fiducia, alla quale i presenti esercizi spirituali di nuovo mi hanno disposto. Giovanni Paolo II.

    QUINTA PARTE - Totus Tuus ego sum 5.III.1982. Nel corso degli esercizi spirituali di quest'anno ho letto (più volte) il testo del testamento del 6.III.1979. Malgrado che tuttora lo consideri come provvisorio (non definitivo), lo lascio nella forma nella quale esiste. Non cambio (per ora) niente, e neppure aggiungo, per quanto riguarda le disposizioni in esso contenute. L'attentato alla mia vita il 13.V.1981 in qualche modo ha confermato l'esattezza delle parole scritte nel periodo degli esercizi spirituali del 1980 (24.II - 1.III) Tanto più profondamente sento che mi trovo totalmente nelle Mani di Dio - e resto continuamente a disposizione del mio Signore, affidandomi a Lui nella Sua Immacolata Madre (Totus Tuus) Giovanni Paolo pp. II.

    SESTA PARTE - 5.III.82 In connessione con l'ultima frase del mio testamento del 6.III 1979 (: «Sul luogo /il luogo cioè del funerale/ decida il Collegio Cardinalizio e i Connazionali») - chiarisco che ho in mente: il metropolita di Cracovia o il Consiglio Generale dell'Episcopato della Polonia - al Collegio Cardinalizio chiedo intanto di soddisfare in quanto possibile le eventuali domande dei su elencati.

    SETTIMA PARTE - 1.III.1985 (nel corso degli esercizi spirituali). Ancora - per quanto riguarda l'espressione «Collegio Cardinalizio e i Connazionali»: il «Collegio Cardinalizio» non ha nessun obbligo di interpellare su questo argomento «i Connazionali»; può tuttavia farlo, se per qualche motivo lo riterrà giusto. JPII.

    OTTAVA PARTE - Gli esercizi spirituali dell'anno. [per il testamento]1. Quando nel giorno 16 ottobre 1978 il conclave dei cardinali scelse Giovanni Paolo II, il Primate della Polonia Card. Stefan Wyszyski mi disse: «Il compito del nuovo papa sarà di introdurre la Chiesa nel Terzo Millennio». Non so se ripeto esattamente la frase, ma almeno tale era il senso di ciò che allora sentii. Lo disse l'Uomo che è passato alla storia come Primate del Millennio. Un grande Primate. Sono stato testimone della sua missione, del Suo totale affidamento. Delle Sue lotte: della Sua vittoria. «La vittoria, quando avverrà, sarà una vittoria mediante Maria» - queste parole del suo Predecessore, il card. August Hlond, soleva ripetere il Primate del Millennio. In questo modo sono stato in qualche maniera preparato al compito che il giorno 16 ottobre 1978 si è presentato davanti a me. Nel momento in cui scrivo queste parole, l'Anno giubilare del 2000 è già una realtà in atto. La notte del 24 dicembre 1999 è stata aperta la simbolica Porta del Grande Giubileo nella Basilica di San Pietro, in seguito quella di San Giovanni in Laterano, poi di Santa Maria Maggiore - a capodanno, e il giorno 19 gennaio la Porta della Basilica di San Paolo «fuori le mura». Quest'ultimo avvenimento, per via del suo carattere ecumenico, è restato impresso nella memoria in modo particolare.
    2. A misura che l'Anno Giubilare 2000 va avanti, di giorno in giorno si chiude dietro di noi il secolo ventesimo e si apre il secolo ventunesimo. Secondo i disegni della Provvidenza mi è stato dato di vivere nel difficile secolo che se ne sta andando nel passato, e ora nell'anno in cui l'età della mia vita giunge agli anni ottanta («octogesima adveniens»), bisogna domandarsi se non sia il tempo di ripetere con il biblico Simeone «Nunc dimittis». Nel giorno del 13 maggio 1981, il giorno dell'attentato al Papa durante l'udienza generale in Piazza San Pietro, la Divina Provvidenza mi ha salvato in modo miracoloso dalla morte. Colui che è unico Signore della vita e della morte Lui stesso mi ha prolungato questa vita, in un certo modo me l'ha donata di nuovo. Da questo momento essa ancora di più appartiene a Lui. Spero che Egli mi aiuterà a riconoscere fino a quando devo continuare questo servizio, al quale mi ha chiamato nel giorno 16 ottobre 1978. Gli chiedo di volermi richiamare quando Egli stesso vorrà. »Nella vita e nella morte apparteniamo al Signore... siamo del Signore« (cf. Rm 14, 8 ). Spero anche che fino a quando mi sarà donato di compiere il servizio Petrino nella Chiesa, la Misericordia di Dio voglia prestarmi le forze necessarie per questo servizio.
    3. Come ogni anno durante gli esercizi spirituali ho letto il mio testamento del 6.III.1979. Continuo a mantenere le disposizioni contenute in esso. Quello che allora, e anche durante i successivi esercizi spirituali è stato aggiunto costituisce un riflesso della difficile e tesa situazione generale, che ha marcato gli anni ottanta. Dall'autunno dell'anno 1989 questa situazione è cambiata. L'ultimo decennio del secolo passato è stato libero dalle precedenti tensioni; ciò non significa che non abbia portato con sè nuovi problemi e difficoltà. In modo particolare sia lode alla Provvidenza Divina per questo, che il periodo della così detta »guerra fredda« è finito senza il violento conflitto nucleare, di cui pesava sul mondo il pericolo nel periodo precedente.
    4. Stando sulla soglia del terzo millennio «in medio Ecclesiae», desidero ancora una volta esprimere gratitudine allo Spirito Santo per il grande dono del Concilio Vaticano II, al quale insieme con l'intera Chiesa - e soprattutto con l'intero episcopato - mi sento debitore. Sono convinto che ancora a lungo sarà dato alle nuove generazioni di attingere alle ricchezze che questo Concilio del XX secolo ci ha elargito. Come vescovo che ha partecipato all'evento conciliare dal primo all'ultimo giorno, desidero affidare questo grande patrimonio a tutti coloro che sono e saranno in futuro chiamati a realizzarlo. Per parte mia ringrazio l'eterno Pastore che mi ha permesso di servire questa grandissima causa nel corso di tutti gli anni del mio pontificato. «In medio Ecclesiae»... dai primi anni del servizio vescovile - appunto grazie al Concilio - mi è stato dato di sperimentare la fraterna comunione dell'Episcopato. Come sacerdote dell'Arcidiocesi di Cracovia avevo sperimentato che cosa fosse la fraterna comunione del presbiterio - il Concilio ha aperto una nuova dimensione di questa esperienza.
    5. Quante persone dovrei qui elencare! Probabilmente il Signore Dio ha chiamato a Sè la maggioranza di esse - quanto a coloro che ancora si trovano da questa parte, le parole di questo testamento li ricordino, tutti e dappertutto, dovunque si trovino. Nel corso di più di vent'anni da cui svolgo il servizio Petrino «in medio Ecclesiae» ho sperimentato la benevola e quanto mai feconda collaborazione di tanti Cardinali, Arcivescovi e Vescovi, tanti sacerdoti, tante persone consacrate - Fratelli e Sorelle - infine di tantissime persone laiche, nell'ambiente curiale, nel Vicariato della Diocesi di Roma, nonchè fuori di questi ambienti. Come non abbracciare con grata memoria tutti gli Episcopati nel mondo, con i quali mi sono incontrato nel succedersi delle visite «ad limina Apostolorum»! Come non ricordare anche tanti Fratelli cristiani - non cattolici! E il rabbino di Roma e così numerosi rappresentanti delle religioni non cristiane! E quanti rappresentanti del mondo della cultura, della scienza, della politica, dei mezzi di comunicazione sociale!
    6. A misura che si avvicina il limite della mia vita terrena ritorno con la memoria all'inizio, ai miei Genitori, al Fratello e alla Sorella (che non ho conosciuto, perchè morì prima della mia nascita), alla parrocchia di Wadowice, dove sono stato battezzato, a quella città del mio amore, ai coetanei, compagne e compagni della scuola elementare, del ginnasio, dell'università, fino ai tempi dell'occupazione, quando lavorai come operaio, e in seguito alla parrocchia di Niegowi«, a quella cracoviana di S. Floriano, alla pastorale degli accademici, all'ambiente... a tutti gli ambienti... a Cracovia e a Roma... alle persone che in modo speciale mi sono state affidate dal Signore. A tutti voglio dire uno sola cosa: «Dio vi ricompensi».
    In manus Tuas, «Domine, commendo spiritum meum».
    A.D. 17.III.2000.

  2. #52
    Emack
    ospite

    Predefinito Re: La Biblioteca di BackStage

    da Il Corriere della Sera, Cultura, 13 Aprile 2005

    Lo "stupro" compiuto dai giapponesi a danno dei cinesi è stato di recente "rivisto" sia da destra che da sinistra. E ora infiamma la piazza di Pechino

    Nanchino, un massacro che divide ancora oggi

    La testimonianza di Iris Chang, la giornalista che narrò per prima quell'orrore e che ne fu sopraffatta

    di Sergio Luzzatto


    Nei giorni scorsi, postfascisti e postcomunisti d'Italia si sono scontrati sulle colonne dei loro giornali di riferimento - Il Secolo d'Italia e l'Unità - a proposito di una vicenda lontana nel tempo e nello spazio: il massacro di Nanchino del 1937. Come riferito dal Corriere (7 aprile), il quotidiano postfascista si è compiaciuto del revisionismo politico e culturale che va spingendo la destra giapponese a rigettare presunte leggende della storia novecentesca, quale sarebbe appunto l'enormità dei crimini perpretati dall'esercito del Sol Levante durante la guerra d'aggressione contro la Cina. Mentre il quotidiano postcomunista ha denunciato una manovra tipica del revisionismo d'accatto, a qualsiasi latitudine o longitudine: la subdola volontà di azzerare ogni differenza tra aggressori e aggrediti, diritti e torti, carnefici e vittime.

    Di là dalla polemica spicciola, bisogna dire che la pur semplice tentazione - giapponese o italiana - di minimizzare la portata del massacro di Nanchino ha del vergognoso. Perché quanto avvenne nel dicembre del 1937 in quella che era allora la capitale della Cina fu qualcosa di così terribile che i numeri non bastano a quantificarlo, le fotografie non riescono ad illustrarlo e quasi le parole mancano per dirlo. Durante le sei settimane successive alla conquista della città, i soldati nipponici commisero ogni genere di nefandezza: esecuzioni sommarie, stupri collettivi, annegamenti in massa nello Yangtze. Fra militari e civili, furono almeno duecentomila i cinesi che rimasero uccisi, varie decine di migliaia le donne violentate.

    Il massacro di Nanchino: per sessant'anni dopo i fatti, il nostro sguardo di occidentali si è rivolto altrove, senza riconoscere in quell'episodio un momento decisivo della maligna deriva che avrebbe portato - entro meno di un decennio dal 1937 - al martirio di tante città d'Europa, agli orrori dell'Olocausto, al ricatto della Bomba. Le rovine fumanti di Dresda, le scheletriche silhouettes dei "salvati" dal lager, le innocenti capre di Bikini: altrettante immagini che per mezzo secolo ci sono parse più inquietanti, o più urgenti, comunque più significative di altre immagini che pure circolarono da subito nell'inverno 1937-1938, avventurosamente trasportate in Occidente dai rari "salvati" di Nanchino: lo Yangtze tinto di rosso, le teste mozzate dei militari e dei civili, le vagine impalate delle loro mogli, delle loro madri, delle loro figlie.

    Lo stupro di Nanchino: si è dovuto attendere il 1997 perché un libro con questo titolo - immediatamente un bestseller negli Stati Uniti, tradotto in italiano da Corbaccio - restituisse l'"olocausto dimenticato" (così il sottotitolo), in extremis, alla coscienza del ventesimo secolo. Sorprendentemente, l'autrice del formidabile volume non aveva che ventinove anni: si chiamava Iris Chang, era una giornalista freelance più che una storica accademica, apparteneva a una famiglia di cinesi americani. I suoi nonni materni erano riusciti a scappare da Nanchino alla vigilia dell'occupazione giapponese: la nonna portava allora nel ventre la futura madre di Iris. Fortunosamente approdati negli Stati Uniti, questi profughi cinesi non avevano dimenticato la tragedia alla quale si erano sottratti per un soffio. Del massacro di Nanchino, Iris Chang aveva sentito parlare - in famiglia - lungo l'intero corso di un'infanzia e di un'adolescenza comunque felici, da figlia amatissima di due stimati professori universitari.

    Esistono studi sull'eredità di Auschwitz: non soltanto sull'eredità in senso lato, sul mondo dopo le camere a gas, ma sull'eredità in senso stretto, sulla particolare condizione di chi si è trovato vivere una vita da figlio - o da nipote - degli scampati alla Soluzione Finale. Sopra le proprie spalle di giovane donna, Iris Chang aveva deciso di caricare l'eredità di Nanchino. Impresa tanto più ardua in quanto, diversamente che per la storia e la memoria di Auschwitz, per la storia e la memoria di Nanchino tutto restava da fare: si trattava di assumersi l'immensa responsabilità di restituire un nome alle cose, un'identità alle vittime, un volto ai carnefici.

    Negli Stati Uniti di fine millennio, dove la comunità dei cinesi americani andava imponendosi sempre più, una simile scelta si è tradotta per Chang in onori e oneri. Onori, poiché la scrittrice si è rapidamente imposta come una figura di riferimento all'interno della sua comunità etnica. Oneri, poiché non le sono state risparmiate le accuse più varie o più gravi: culto degli antenati, eccesso di ambizione, razzismo all'incontrario (contro i giapponesi).

    Bella donna oltre che scrittrice di successo, corteggiata dagli editori e dai media, Iris Chang ha inaugurato il nuovo millennio con due decisioni significative. Ha messo al mondo un bambino, Christopher, e si è addentrata in un altro capitolo buio della storia giapponese nel ventesimo secolo: la cosiddetta "marcia della morte di Bataan", cioé il brutale trasferimento di varie decine di migliaia di prigioneri di querra, nella primavera del 1942, da un punto all'altro di una penisola delle Filippine. Ancora una volta dopo sessant'anni dai fatti, la giovane storica si è trovata a bussare alle porte di sopravvissuti. Questa volta, non cinesi, ma americani: i pochi testimoni rimasti in vita di un'avventura militare che - per l'incredibile brutalità dei soldati nipponici - era costata un prezzo altissimo in termini di sofferenze e di vite umane.

    Nel corso di questa nuova ricerca, Chang è tornata anche a soffrire dei sintomi fisici e psicologici che l'avevano accompagnata quando studiava il massacro di Nanchino: perdita di peso, caduta dei capelli, incubi diurni e notturni, pensieri di morte. Le qualità migliori della sua personalità di giornalista e di storica - la capacità di far parlare la gente, la sensibilità per il dolore degli altri - hanno probabilmente contribuito allo sviluppo di una patologia mentale che gli psicologi chiamano "traumatizzazione secondaria". A forza di raccogliere la memoria dell'orrore dalla voce delle vittime, la giovane scrittrice è diventata una vittima lei stessa. La depressione non le ha più dato tregua, fino a quando, il 9 novembre 2004, un colpo di pistola ha posto fine ai suoi giorni.

    Analizzare i motivi che hanno portato al suicidio Iris Chang è esercizio altrettanto delicato (e, forse, altrettanto vano) dell'interrogarsi sulle ragioni che spinsero al medesimo gesto "salvati" del lager come Primo Levi, Jean Améry o Bruno Bettelheim, oltreché - paragone più pertinente - un figlio dell'Olocausto come Paul Celan, i cui genitori erano stati entrambi uccisi ad Auschwitz. Le ragioni di un suicidio? In un biglietto lasciato accanto al suo computer, Iris Chang ha chiesto semplicemente di essere ricordata per quello che era stata prima di ammalarsi, prima di arrendersi al male del mondo: una donna vitale e coraggiosa.

    Se provassimo a ricordarla così anche noi italiani, anziché brandire manuali di storia giapponesi come un pretesto per riscrivere nel peggiore dei modi storie e storiacce di casa nostra?


  3. #53
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    Predefinito Re: La Biblioteca di BackStage

    Ipotesi sulle cause e gli obiettivi del terrorismo

    cosiddetto islamico: le possibili soluzioni



    di Armando Bocconi – Novembre 2004

    [email protected]


    Pubblicato su www.aspoitalia.net

    Introduzione

    Questo studio, a prima vista scollegato, è strettamente concatenato e, pur nella sua sinteticità, si articola in più punti: la prima parte dell’analisi prende le mosse da una lettera di Charles Darwin del 1871 (che farà da filo conduttore della prima metà della prima parte dell’analisi), analizza per sommi capi le cause e gli effetti della globalizzazione, arriva a trattare, sempre in modo sintetico, le cause e gli obiettivi del terrorismo cosiddetto islamico e propone le possibili soluzioni al problema del terrorismo stesso; il concetto di ‘pensiero selvaggio’ di Claude Levi-Strauss farà da filo conduttore invece della seconda metà della prima parte, che affronta il problema del rapporto fra terrorismo e religione islamica, con l’intento di dimostrare che non c’è nessuna relazione sostanziale fra le due realtà; la seconda parte infine espone alcune ricerche che fanno da supporto ad alcune analisi fatte nella prima parte (la situazione relativamente alle risorse energetiche e le prospettive dell’utilizzo dell’idrogeno, le risorse che i Paesi del Magreb e del Medio Oriente ottengono dalla vendita del petrolio e del gas naturale, la provenienza dei prodotti a tecnologia avanzata utilizzati-consumati nei suddetti Paesi, ecc.).





    Prima parte


    Lettera di Charles Darwin del 1871



    Scriveva Charles Darwin nel 1871:” Si è spesso affermato che sono ora presenti tutte le condizioni per la generazione spontanea di un organismo vivente, quali possono essere state presenti nel passato. Ma anche se (e che grosso se!) noi potessimo concepire che in qualche piccolo stagno, in presenza di ogni sorta di sali di ammonio e di fosforo, di luce, calore , elettricità, ecc., si sia venuto a formare un composto proteico , pronto a subire ulteriori più complesse trasformazioni, al giorno d’oggi tale materiale verrebbe immediatamente divorato o assorbito, il che non sarebbe potuto accadere prima che esseri viventi facessero la loro comparsa”

    ( It is often said that all the condition for the first production of a living organism are now present, which could ever have been present. But if (and oh! what a big if!) we could conceive in some warm little pond, with all sorts of ammonia and phosphoric salts, light, heat, electricity, &c., present, that a proteine compound was chemically formed ready to undergo stillmore complex changes, at the present day such matter would be instantly devoured or absorbed, which would not have been the case before living creatures were formed.” (1)



    Prima di addentarci nell’analisi è bene fare una considerazione sul significato della lettera di Charles Darwin e sul suo estendimento al tema di questo lavoro. Lascio parlare Claude Levi-Strauss per raggiungere questo fine: “…ci renderemo conto che fra vita e pensiero non c’è quel radicale divario che il dualismo filosofico del XVII secolo accettava come un dato di fatto. E se ci convinceremo che quanto avviene nella nostra mente non è sostanzialmente né fondamentalmente diverso dai fenomeni basilari della vita stessa, se comprenderemo che non c’è alcuna insuperabile distanza fra l’uomo e tutti gli altri esseri viventi – non solo gli animali, ma anche le piante – diventeremo forse saggi come non credevamo di poter essere.” (21)



    Le cause della globalizzazione



    Quali sono le cause della globalizzazione?

    Le cause sono da vedersi in quell’insieme di fatti storici che hanno portato come conseguenza alla creazione di una realtà unitaria, senza confini culturali – normativi. Un fatto storico fondamentale che ha fatto parte di questo processo e che ha portato alla creazione di una realtà unitaria è stato il colonialismo. Le cause del colonialismo sono state molteplici: possibilità per una nazione-popolazione-gruppo di svilupparsi a discapito di altre nazioni-popolazioni-gruppi, possibilità di approvvigionarsi di materie prime a basso costo, di manodopera a basso costo, valvola di sfogo per la sovrappopolazione del paese coloniale, ecc. In questo modo si è creato una realtà unitaria cioè senza confini culturali: questa realtà ha la caratteristica di avere le stesse norme valide in tutte le sue parti ma queste parti hanno un diverso livello di sviluppo culturale - tecnologico.



    Gli effetti della globalizzazione


    Quali sono gli effetti della globalizzazione?

    Per parafrasare Darwin, il mondo colonizzato precedente la colonializzazione - globalizzazione sarebbe stato “pronto a subire ulteriori più complesse trasformazioni” ma “ al giorno d’oggi tale” potenziale di sviluppo di tale mondo “verrebbe immediatamente divorato o assorbito (devoured or absorbed), il che non sarebbe potuto accadere prima…” della colonizzazione - globalizzazione.



    E’ interessante però entrare nello specifico per vedere come è successo che il potenziale di sviluppo del mondo precedente la globalizzazione sia stato divorato o assorbito dai Paesi sviluppati.

    Le cause fondamentali immediate sono due e cioè il differente livello di sviluppo culturale - tecnologico fra Paesi colonizzatori e Paesi colonizzati e la “fonte normativa” (cioè i Paesi che fanno le norme con la connessa capacità di imporle). I Paesi colonizzatori hanno imposto la norma del loro sviluppo culturale - tecnologico.

    La prima concretizzazione dell’imposizione da parte dell’ Occidente (la maggior parte dei Paesi colonizzatori) della norma del loro sviluppo culturale – tecnologico è consistita nell’inaridimento, nei Paesi colonizzati, dell’artigianato (nel senso che dall’artigianato non sono sorte piccole industrie) e nella perdita delle prospettive di sviluppo. Quando in un Paese si ha l’inaridimento dell’artigianato si perde il treno dello sviluppo, non si è più padroni di sé stessi e si è in balia dei Paesi più sviluppati.

    Questo pensieri di Joseph Stiglitz, premio Nobel per l’economia nel 2001, nella sua opera “La globalizzazione e i suoi oppositori “ sono illuminanti:

    ” Quando arrivano le aziende straniere, spesso distruggono la concorrenza locale e le ambizioni dei piccoli imprenditori che avevano sperato di sviluppare un’attività. Gli esempi in proposito non mancano. I produttori di bibite analcoliche di tutto il mondo sono stati travolti dall’arrivo di Coca-Cola e Pepsi sui loro mercati nazionali, e i produttori locali di gelati si rendono conto di non poter assolutamente competere con i prodotti Unilever” (2)

    “... le tribolazioni patite dai Paesi del terzo mondo nel processo di globalizzazione e sviluppo, così come è stato concertato dall’FMI e dalle organizzazioni economiche internazionali, sono state di gran lunga più gravi del necessario. La reazione violenta contro la globalizzazione ha tratto la propria forza non soltanto dal danno visibile arrecato ai paesi in via di sviluppo dalle politiche guidate dall’ideologia, ma anche dalle iniquità del sistema del commercio internazionale.”(3)

    “La globalizzazione e il passaggio ad una economia di mercato non hanno prodotto i risultati sperati né in Russia né nella maggior parte delle altre economie in fase di transizione. L’Occidente ha persuaso questi paesi che il nuovo sistema economico li avrebbe portati ad una prosperità senza precedenti. Senza precedenti, invece, è stata la povertà in cui sono sprofondati. Sotto molti aspetti, per gran parte della popolazione l’economia di mercato si è dimostrata addirittura peggiore di quanto avessero previsto i leader comunisti. Il contrasto fra la transizione della Russia, manovrata dalle istituzioni economiche internazionali, e quella della Cina, gestita invece internamente, non potrebbe essere più evidente: mentre nel 1990 il prodotto interno lordo (PIL) della Cina era pari al 60% di quello russo, alla fine del decennio le cifre si sono invertite. La povertà in Russia è dilagata, mentre in Cina è diminuita scendendo a livelli senza precedenti.”(4)



    Come si vede chiaramente dal confronto tra la transizione così come è avvenuta in Russia e così come è avvenuta in Cina, la differenza sta tutta nella provenienza della norma adottata: in Russia è stata imposta dall’esterno, dall’FMI e dalle organizzazioni economiche internazionali, mentre in Cina ha avuto origine interna e quindi è stata adeguata alla realtà cinese.

    La concretizzazione dell’imposizione da parte dell’Occidente della norma del suo sviluppo culturale – tecnologico è continuata fino al punto che adesso nelle fabbriche, nelle scuole, negli ospedali, nelle case, ecc dei Paesi ex colonizzati non c’è niente di tecnologicamente avanzato che sia prodotto in loco. Computer, stampanti, fotocopiatrici, autovetture, autocarri, macchine utensili, macchine agricole, telefoni, telefoni cellulari, televisori, radio, macchine fotografiche, ecc. sono importati dai Paesi sviluppati, dal cosiddetto Occidente (allargato al Giappone e a qualche altro Paese).

    Nella seconda parte di questo lavoro si esporrà la situazione relativamente alla provenienza dei prodotti a tecnologia avanzata consumati nei Paesi del Magreb e del Medio Oriente.

    Alle volte l’Occidente ammanta di umanitarismo l’imposizione a tutto il Mondo delle sue norme: è questo ciò che avviene con le campagne pubblicitarie contro il lavoro minorile nel terzo mondo quando alcuni Paesi del terzo mondo cominciano a fare concorrenza all’Occidente nella produzione di biancheria, di articoli di pelletteria, di scarpe sportive, di palloni di foot ball, ecc. E’ da pensare che quando ciò non basterà l’Occidente ricorrerà ad altre motivazioni, come per es. l’orario di lavoro, i sistemi di sicurezza in fabbrica, ecc. L’Occidente vuole che tutto sia a propria immagine e somiglianza, cioè che i suoi valori siano i valori di tutti, che, per esempio, in tutto il mondo ci siano le stesse condizioni di lavoro esistenti nell’Occidente ( assenza di lavoro minorile, orario di lavoro, sistemi di sicurezza sui luoghi di lavoro, giorni di riposo, ecc.). L’Occidente vuole che tutto il mondo sia a proprio immagine e somiglianza però senza esagerare: solamente quando ciò non contrasti con i suoi interessi.



    La globalizzazione è anche globalizzazione dei costumi. Il turismo, internet, l’emigrazione, le stazioni televisive che si riescono a captare anche in Paesi diversi, , ecc. hanno portato alla “conoscenza”, all’incontro-scontro di costumi familiari, sessuali, culturali in genere, molto diversi dai propri. Ciò porta nei Paesi che non fanno parte del mondo occidentale a forti tensioni psicologiche – culturali perché quei costumi non sono adeguati alla loro realtà. Per certi versi questi aspetti sono visti più traumatici e pericolosi, che non la semplice contrapposizione economica fra diverse realtà geo-politiche, perché investono la delicata sfera psico-emozionale e interpersonale dell’uomo, Anche in questo caso il mondo occidentale impone al resto del mondo i modi e i tempi del suo sviluppo culturale.







    Le cause del terrorismo



    Quando si assiste ai dibattiti televisivi in cui si tratta del terrorismo cosiddetto islamico si nota lo scontro fra l’interpretazione del terrorismo come reazione, da parte dei paesi poveri, alla enorme ricchezza e spreco di ricchezza da parte dei Paesi occidentali e quella (che non è una interpretazione ma solo una critica alla validità dell’interpretazione suddetta) per cui i terroristi (o almeno i loro capi) sono persone ricche o molto ricche.

    La causa del terrorismo non è la povertà dei paesi da cui provengono i terroristi ma la mancanza di prospettive di sviluppo e la prospettiva che la situazione futura possa peggiorare ancora di più. L’artigianato “fisiologico” (intendendo con tale neologismo quell’artigianato che per una serie di motivi è strettamente legato alla realtà locale per cui esiste anche nelle realtà più povere) non è più fecondo, si è inaridito, non darà origine a piccole, medie e poi grandi industrie. Le sue potenzialità sono state divorate e assorbite (“devoured or absorbed” avrebbe detto Darwin) da realtà più forti e già esistenti. Queste spiegazioni però sono valide solamente in una situazione di globalizzazione.

    I paesi da cui provengono i terroristi (e cioè i Paesi del Magreb e del Medio Oriente) sono Paesi che hanno, dove più , dove meno, un accettabile tenore di vita. Questo tenore di vita, però, è dovuto soprattutto alle risorse provenienti dalla vendita del petrolio e del gas naturale: ma se le riserve di petrolio e di gas naturale si assottiglieranno sempre più ( secondo molti esperti il picco di produzione per il petrolio è previsto nel 2010 e del gas naturale nel 2025) e se da qui a dieci - quindici anni si riusciranno a ridurre o ad eliminare i problemi tecnico-economici relativi alla produzione dell’idrogeno con utilizzo di fonti energetiche rinnovabili, al suo immagazzinamento e trasporto e alle modalità di utilizzo tramite le celle a combustibile, allora questi Paesi piomberanno nella miseria più nera. Non è necessario che l’idrogeno abbia una enorme diffusione, ma che eroda qualche punto percentuale del consumo di petrolio affinché i giochi siano fatti. Non è neppure necessario che la produzione di petrolio sia alta ma che si vada oltre il picco di produzione affinché si inneschi una dinamica socio-economica-politica e militare incontrollabile che sicuramente non porterà bene ai Paesi in questione. Un’ulteriore forza che potrà portare ad una accelerazione di questa dinamica è rappresentata dalle preoccupazioni ambientali: se i cambiamenti climatici dovuti all’effetto serra provocato dal biossido di carbonio ( prodotto a sua volta dall’utilizzo dei combustibili fossili per la produzione di energia) si faranno più evidenti allora ci sarà sempre più una riduzione dell’utilizzo dei combustibili fossili e una diminuzione del tenore di vita dei Paesi del Magreb e del Medio Oriente.

    Nella seconda parte di questo lavoro sarà esposta la situazione relativamente alle riserve energetiche e alla prospettiva di utilizzo dell’idrogeno.





    Gli obiettivi del terrorismo



    Quali sono, a fronte di ciò che è stato detto, gli obiettivi del terrorismo?

    L’antropologia strutturale di cui Claude Levi-strauss è il principale esponente se non il fondatore dice che il comportamento umano segue delle regole inconsce che sono fisse nel tempo. Le vicende storiche non sono altro che il risultato delle applicazioni di queste regole.

    Gli obiettivi del terrorismo consistono nella creazione, finché si è in tempo, di una frattura col mondo occidentale, nel raggiungimento dell’indipendenza socio-economica-politica e culturale e quindi nella creazione di una realtà con una “fonte normativa” interna. Solo in questo modo si creerebbe una realtà feconda, “pronta a subire ulteriori e più complesse trasformazioni” (avrebbe detto Charles Darwin) e che non corra il rischi di essere divorata o assorbita da una realtà già costituita e più forte.

    Ma qual è la motivazione più profonda che spinge il terrorismo cosiddetto islamico nella sua azione? La motivazione più profonda è il desiderio, la volontà di ogni cultura, di ogni nazione, di ogni etnia, ecc. , di essere padroni del proprio destino, di stabilire in prima persona i tempi e i modi del proprio sviluppo socio - economico e culturale, di non essere in balia di interessi esterni alla propria cultura, alla propria nazione, etnia, ecc. Fino a quando le condizioni di vita delle popolazioni del Magreb e del Medio Oriente dipenderanno dalla vendita del petrolio e del gas naturale e dall’importazione di tutti o quasi tutti i beni a tecnologia avanzata, il loro destino non sarà nelle loro mani ma in quelle del Mondo Occidentale sviluppato.

    In questo modo viene riproposto in forme nuove quanto già avvenuto con le rivoluzioni socialiste: la possibilità dello sviluppo delle forze produttive con la creazione di realtà con norme diverse da quelle del mondo ad economia di mercato ( per meglio dire del mondo occidentale) e che si basi sostanzialmente sull’autarchia. Di sfuggita si aggiunge che le rivoluzioni socialiste hanno avuto come funzione predominante la creazione di sviluppo in realtà che sarebbero state tagliate fuori dallo sviluppo capitalistico ma che i movimenti che hanno fatto le rivoluzioni e le realtà che sono venute fuori da quelle rivoluzioni, per tutta una serie di motivazioni, hanno assunto caratteri (per esempio l’ateismo, la generalizzazione delle loro condizioni per cui la loro rivoluzione avrebbe dovuto riguardare tutte le realtà, una fortissima repressione interna, ecc ) che bisogna comunque spiegare ma che non rientra negli obiettivi di questo lavoro.



    Una proposta di soluzione



    Prima di esporre delle proposte di soluzione ai problemi posti è necessario chiarire le funzioni di questo lavoro.



    Questo lavoro è da vedersi come la presa di coscienza dei problemi esistenti perché solamente in questo modo è possibile fare delle scelte coerenti. Ognuno metterà in campo le proprie posizioni, i propri interessi, al di fuori di ogni moralismo. La politica migliore è quella che risolve i problemi: nella storia non si fanno sconti in nome di principi morali né esistono esiti scontati. Se il terrorismo si risolve con operazioni di polizia oppure con una guerra allora significa che queste sono le soluzioni migliori; ma qui si parte dal presupposto che queste non sono le soluzioni migliori, anzi che queste non sono le soluzioni. Diceva un filosofo tedesco, G. W. F. Hegel, (vado a memoria) che non ci sarà amore fra gli uomini se non dopo che saranno percorsi tutti i gradi del reciproco estraniarsi che si esprimono nelle diverse forme e gradazioni dei rapporti sociali di dominio, se non dopo che ogni gruppo umano avrà messo in campo tutte le sue capacità per distruggere gli altri al fine di conservare se stesso.

    A questo punto bisogna chiedersi: quali e quanti sono i gradi del reciproco estraniarsi? A cosa si farà ricorso per distruggere gli altri?

    Penso che non ci siano risposte a questi interrogativi ma che una lezione si possa trarre da queste considerazioni: la storia non fa sconti in nome di principi morali, che non ci sono colpi proibiti e che gli esiti non sono scontati.



    In questo paragrafo si esporranno delle soluzioni politiche al problema del terrorismo.

    Se le cause sono quelle indicate allora l’eliminazione del terrorismo si ottiene creando condizioni di vero sviluppo. Come si possono raggiungere queste condizioni di vero sviluppo nei Paesi del Magreb e del Medio Oriente? Quali politiche fare?

    Cerchiamo di indicare le possibili cose da fare:

    1) nei rapporti economici internazionali creare una situazione di autarchia flessibile, sia dal punto di vista economico (gli scambi commerciali con gli altri Paesi devono essere in vista dello sviluppo interno) che dal punto di vista culturale;

    2) finanziare l’istruzione con particolare riguardo alla formazione professionale in modo da eliminare le condizioni che hanno portato all’inaridimento dell’artigianato;

    3) fare in modo che buona parte dei prodotti tecnologicamente avanzati che viene consumato in un dato Paese sia progettato e prodotto nello stesso Paese e soprattutto che una discreta parte della produzione dei componenti necessari per i prodotti suddetti sia progettata e realizzata nel Paese in cui questi vengono consumati.

    4) Fare in modo che i Paesi Sviluppati eliminino le barriere protettive dei loro prodotti nei confronti di quelli provenienti da altri Paesi.



    Le soluzioni sinteticamente indicate sono molto semplici ma sono difficili da raggiungere per il semplice motivo che ciò avrà delle ripercussioni sul Mondo Occidentale e sul suo modo di vita. Quelle soluzioni comporteranno delle modifiche nel tenore di vita della popolazione del Mondo Occidentale nel senso di un abbassamento dei consumi o quanto meno di un rallentamento del loro tasso di crescita. Ma la conseguenza più importante non sarà quanto ora detto ma il fatto che le scelte non saranno fatte solamente dal Mondo Occidentale ma che anche altre realtà avranno voce in capitolo

    Le soluzioni indicate sono difficili da raggiungere anche perché sarà necessario un cambiamento nelle strutture politiche dei Paesi del Magreb e del Medio Oriente. Saranno infatti necessarie nuove strutture politiche e nuove classi politiche, che esprimano le esigenze di sviluppo di questi Paesi e che guidino questo processo. L’occupazione dell’Iraq da parte dell’Occidente è da vedersi come il tentativo dell’Occidente stesso di impedire questo cambiamento nelle strutture e nelle classi politiche dei paesi del Magreb e del Medio Oriente.

    E’ difficile fare una previsione sugli sviluppi di questa situazione e si fa l’ipotesi che se queste difficoltà persisteranno per molto tempo il terrorismo sarà un fenomeno di lunga durata.





    La cultura occidentale, l’Islam e il pensiero selvaggio


    Il concetto di ‘pensiero selvaggio’ di Claude Levi-Strauss farà da filo conduttore di questa seconda metà della prima parte di questa analisi. Il “pensiero selvaggio che non è, per noi, il pensiero dei selvaggi, né quello di un’umanità primitiva o arcaica, bensì il pensiero allo stato selvaggio, distinto dal pensiero educato o coltivato proprio in vista di un rendimento”. (20)

    Quasi sempre il terrorismo in questione è stato collegato all’Islam: si parla di terrorismo islamico ma con più precisione si parla di terrorismo “cosiddetto” islamico per indicare la forzatura del collegamento.

    Viene riportata una citazione per iniziare l’analisi.

    “La religione islamica si regge, in definitiva, su cinque principi distintivi detti ‘pilastri della fede ’. In primo luogo sulla shahada, professione della fede, iman, che si riassume nel detto: ’Non c’è altro Dio fuori di Allah e Maometto è il suo inviato’. In secondo luogo sulla preghiera rituale (salat) cui prendono parte, tutti assieme, in un medesimo luogo e in medesima predisposizione d’animo, i fedeli, obbligatoria in cinque momenti della giornata: all’alba, a mezzogiorno, prima e dopo il tramonto, e a notte fonda. In terzo luogo viene il pellegrinaggio alla Mecca nella Casa di Allah, cui debbono partecipare i credenti almeno una volta nella loro vita. Il digiuno, ramadan, concepito come un equilibrato rapporto tra corpo e anima, rappresenta il quarto pilastro. Seguito da quello dell’elemosina legale (zakat), ricavata dal superfluo tratto dalle risorse dei fedeli, da destinare ad una cassa comune per venire incontro alle esigenze dei più poveri e per coprire le spese della comunità.

    A questi cinque ‘pilastri’ se ne aggiunse nel tempo un sesto, quello della gihad, la ‘guerra santa ’, da combattere per affermare con la forza delle armi il dettato coranico e la ummah (19), nei confronti delle minacce da parte di altre confessioni o potentati avversi.

    Il principio della gihad, che si manifesta già nella storia – sotto questo profilo, esemplare - della vita del Profeta, andò acquistando un peso sempre più rilevante dopo la sua morte e nel corso dei secoli successivi, fino all’età contemporanea.” (18)

    Sia detto incidentalmente, penso che espressioni simili si trovino in tutte e tre le religioni del libro, cioè nell’Ebraismo, nel Cristianesimo e nell’Islam ( per es. nella Bibbia, Antico testamento, Deuteronio 7, 1-4, edizione CEI/Gerusalemme sta scritto: 1 Quando il Signore tuo Dio ti avrà introdotto nel paese che vai a prendere in possesso e ne avrà scacciate davanti a te molte nazioni: gli Hittiti, i Gergesei, gli Amorrei, i Perizziti, gli Evei, i Cananei e i Gebusei, sette nazioni più grandi e potenti di te, 2 quando il Signore tuo Dio le avrà messe in tuo potere e tu le avrai sconfitte, tu le voterai allo sterminio; non farai con esse alleanza né farai loro grazia. 3 Non ti imparenterai con loro, non darai le tue figlie ai loro figli e non prenderai le loro figlie per i tuoi figli, 4 perché allontanerebbero i tuoi figli dal seguire me, per farli servire a dèi stranieri, e l’ira del Signore si accenderebbe contro di voi e ben presto vi distruggerebbe.).

    Nonostante quanto sopra detto, in questo paragrafo si vuole dimostrare che non c’è nessuna relazione sostanziale fra religione islamica e terrorismo ma che l’uso della religione islamica è solamente strumentale al raggiungimento di una frattura fra le due diverse realtà, il Mondo Occidentale e sviluppato da una parte e il Magreb e il Medio Oriente dall’altra. L’analisi non è facile perché il fenomeno del terrorismo è sicuramente multi-fattoriale e soprattutto perché conosco poco sia la religione islamica che il pensiero di Claude Levi-Strauss a cui mi rifaccio per spiegare il collegamento fra terrorismo e Islam.





    Si aggiunge e si sottolinea che in questo paragrafo non si vuole dare nessun giudizio di valore sulla religione islamica perché ciò esula dall’obiettivo di questo lavoro.

    a) L’Islam, la scienza primaria e il bricolage



    Ma quali sono i meccanismi culturali che hanno portato i Paesi del Magreb e del Medio Oriente (e il terrorismo come espressione di questa realtà) a scegliere la religione islamica per contrapporsi al Mondo Occidentale? Quale rapporto esiste fra queste realtà e la religione islamica e fra la religione islamica e la cultura occidentale? Il rapporto è un rapporto sostanziale oppure la motivazione è un’altra?

    Ma vediamo le varie fasi che hanno portato la realtà socio-economico-culturale del Magreb e del Medio Oriente a scegliere la religione islamica per contrapporsi alla cultura del mondo occidentale: vediamo cioè come ha operato in questo contesto quello che Claude Levi-Strauss definisce ‘pensiero selvaggio’. La realtà socio-economico-culturale del Magreb e del Medio Oriente che si esprime attraverso il terrorismo e che vuole creare una frattura col Mondo Occidentale, perché solamente così sarà possibile creare una realtà ricca e feconda di positive trasformazioni, ha preso coscienza di non avere strumenti adatti e concepiti espressamente per il suo progetto (che è appunto quello di creare una frattura con il mondo occidentale ) ed ha cercato in quanto già possiede, cioè nella sua storia, nella sua cultura, gli strumenti per contrapporsi al Mondo Occidentale, ha fatto l’inventario di ciò che è in suo possesso prima di scegliere quanto di più adatto per risolvere il problema che viene posto, ha scelto però qualcosa che possiede già un senso originale, nata per altre motivazioni e che per questo ne ridurrà la libertà di impiego: la scelta è caduta sulla religione islamica.

    Adesso è il caso di spiegare l’accostamento fra il terrorismo in questione e l’Islam. E’ il caso di fare parlare Levi-Strauss riportando alcune citazioni della sua opera “Il pensiero selvaggio”.

    Cominciamo da dove parla de “l’esistenza di due diverse forme di pensiero scientifico, funzioni certamente non di due fasi diseguali dello sviluppo dello spirito umano, ma dei due livelli strategici in cui la natura si lascia aggredire dalla conoscenza scientifica: l’uno approssimativamente adeguato a quello della percezione e dell’intuizione, l’altro spostato di piano; come se i rapporti necessari che costituiscono l’oggetto di ogni scienza, neolitica o moderna che sia, fossero raggiungibili attraverso due diverse strade, l’una prossima alla intuizione sensibile, l’altra più discosta.

    Qualsiasi ordinamento è sempre superiore al caos; anche una classificazione elaborata a livello delle proprietà sensibili è una tappa verso un ordine razionale. Se si dovesse classificare una raccolta di frutti vari in ordine alla relativa pesantezza dei corpi, si comincerebbe a buon diritto col separare le pere dalle mele, benché la forma, il sapore e il colore non abbiano alcun rapporto col peso e col volume: riunite assieme, le mele più grosse si distinguono dalle meno grosse più facilmente che mescolate con frutti di diverso aspetto. Si comprende come già da questo esempio come, anche a livello della percezione estetica, la classificazione abbia un suo valore.

    D’altronde, benché non vi sia nessuna connessione necessaria tra le qualità sensibili e le proprietà, esiste, almeno in un gran numero di casi, un rapporto di fatto; la generalizzazione di questo rapporto, anche se privo di fondamento nella ragione, può costituire, per lunghi periodi, una operazione praticamente e teoricamente redditizia. Non tutte le sostanze tossiche sono amare o danno bruciore, e lo stesso vale reciprocamente; eppure la natura è tale che è più proficuo per il pensiero e per l’azione procedere come se ad una equivalenza capace di soddisfare il sentimento estetico corrispondesse anche una realtà oggettiva. Esula dal nostro compito ricercare il perché di questo fatto, ma è probabile che certe specie che presentano caratteristiche più nette di forma, colore, od odore, schiudano all’osservatore quello che si potrebbe chiamare il droit de suite: il diritto cioè di postulare che queste caratteristiche visibili siano il segno di proprietà altrettanto specifiche, ma celate. Ammettere che il rapporto fra i due sia anch’esso sensibile ( che un seme a forma di dente preservi dai morsi del serpente, che un succo giallo sia un farmaco per malattie biliari, ecc.) vale, a titolo provvisorio, più della noncuranza verso ogni connessione: la classificazione, anche se eteroclita e arbitraria, salvaguardia la ricchezza e la varietà di voci dell’inventario; stabilendo che bisogna tener conto di tutto, facilita il costituirsi di una ‘memoria’.” (5)

    “Proprio per sua essenza, questa scienza del concreto doveva limitarsi a risultati diversi da quelli destinati alle scienze esatte e naturali, ma non per questo essa fu meno scientifica e i suoi risultati meno reali: questi ultimi anzi, impostisi diecimila anni prima degli altri, rimangono ancora e sempre il sostrato della nostra civiltà.

    D’altronde, sopravvive fra noi una forma di attività che, sul piano tecnico, ci consente di renderci conto abbastanza bene delle caratteristiche, sul piano speculativo, di una scienza che preferiamo chiamare ’primaria’ anziché primitiva: questa forma è di solito designata col termine bricolage. ………. Oggi per bricoleur s’intende chi esegue un lavoro con le proprie mani, utilizzando mezzi diversi rispetto a quelli usati dall’uomo di mestiere. Ora, la peculiarità del pensiero mitico sta proprio nell’esprimersi attraverso un repertorio dalla composizione eteroclita che, per quanto esteso, resta tuttavia limitato: eppure di questo repertorio non può fare a meno di servirsi, perché non ha niente altro tra le mani. Il pensiero mitico appare così come una sorta di bricolage intellettuale, il che spiega le relazioni che si riscontrano tra i due. Come il bricolage sul piano tecnico, la riflessione mitica può ottenere sul piano intellettuale risultati veramente pregevoli e imprevedibili;…

    ………..

    Vale la pena di approfondire ulteriormente questo paragone, perché ci facilita l’accesso ai rapporti reali esistenti fra i due tipi di conoscenza scientifica che abbiamo ora distinti. Il bricoleur è capace di eseguire un gran numero di compiti differenziati, ma, diversamente dall’ingegnere, egli non li subordina al possesso di materie prime e di arnesi, concepiti e procurati espressamente per la realizzazione del suo progetto: il suo universo strumentale è chiuso, e, per lui, la regola del gioco consiste nell’adattarsi sempre all’equipaggiamento di cui dispone, cioè a un insieme via via ‘finito’ di arnesi e di materiali, peraltro eterocliti, dato che la composizione di questo insieme non è in rapporto col progetto del momento, né d’altronde con nessun progetto particolare, ma è il risultato contingente di tutte le occasioni che si sono presentate di rinnovare o di arricchire lo stock o di conservarlo con i residui di costruzioni e di distruzioni antecedenti. L’insieme dei mezzi del bricoleur non è quindi definibile in base a un progetto (la qual cosa presupporrebbe, almeno in teoria, l’esistenza di tanti complessi strumentali quanti sono i generi di progetto, come accade all’ingegnere); esso si definisce solamente in base alla sua strumentalità, cioè, detto in altre parole e adoperando lo stesso linguaggio del bricoleur, perché gli elementi sono raccolti o conservati in virtù del principio che ‘ possono sempre servire ’. Simili elementi sono dunque specificati solo a metà: abbastanza perché il bricoleur non abbia bisogno dell’assortimento di mezzi e di conoscenze di tutte le categorie professionali, ma non tanto perché ciascun elemento sia vincolato ad un impiego esattamente determinato. Ogni elemento rappresenta un insieme di relazioni al tempo stesso concrete e virtuali: è un operatore, ma utilizzabile per una qualsiasi operazione in seno a un tipo.

    Lo stesso avviene per gli elementi della riflessione mitica che si situano sempre a metà strada tra i percetti e i concetti.

    ………..

    Il segno è un essere concreto quanto l’immagine, ma somiglia al concetto per il suo potere referenziale: sia l’uno che l’altro non sono relativi esclusivamente a se stessi, ma possono fare le veci di qualcosa d’altro. Il concetto possiede però, per questo rispetto, una capacità illimitata, mentre quella del segno è limitata. La differenza e la somiglianza risultano chiaramente dall’esempio del bricoleur. Osserviamolo all’opera: per quanto infervorato dal suo progetto, il suo modo pratico di procedere è inizialmente retrospettivo: egli deve rivolgersi verso un insieme già costituito di utensili e di materiali, farne e rifarne l’inventario, e infine, soprattutto, impegnare con essa una sorta di dialogo per inventariare, prima di sceglierne una, tutte le risposte che l’insieme può offrire al problema che gli viene posto. Egli interroga tutti quegli oggetti eterocliti che costituiscono il suo tesoro, per comprendere ciò che ognuno di essi potrebbe ‘significare’, contribuendo così alla definizione di un insieme da realizzare che alla fine, però, non differirà dall’insieme strumentale se non per la disposizione interna delle parti. Quel blocco cubico di quercia potrebbe servire da bietta per rimediare all’insufficienza di un asse di abete, oppure da piedistallo, cosa che permetterebbe di valorizzare la venatura e la levigatezza del vecchio legno. In un caso sarà estensione, nell'altro materia. Ma queste possibilità vengono sempre limitate dalla storia particolare di ciascun pezzo e da quanto sussiste in esso di determinato, dovuto all’uso originale per cui era stato preparato o agli adattamenti subiti in previsioni di altri usi. Come le unità costruttive del mito, le cui possibilità di combinazione sono limitate dal fatto di essere ricavate da una lingua dove possiedono di già un senso che ne riduce la libertà di impiego, gli elementi che il bricoleur raccoglie e utilizza sono ‘ previncolati ’. D’altra parte la decisione dipenderà dalla possibilità di permutare un altro elemento nella funzione vacante, così che ogni scelta trarrà seco una riorganizzazione completa della struttura che non sarà mai identica a quella vagamente immaginata né ad altra che avrebbe potuto esserle preferita.

    In certo qual modo anche l’ingegnere interroga, poiché anche per lui esiste un ‘interlocutore’ , determinato dal fatto che i mezzi, le capacità e le conoscenze in suo possesso non sono mai illimitati , e che, in questa forma negativa, egli urta contro una resistenza con la quale gli è indispensabile venire a patti. Si potrebbe essere tentati di dire che l’igegnere interroga l’universo, mentre il bricoleur si rivolge a una raccolta di residui di opere umane , cioè a un insieme culturale di sottordine.

    …la caratteristica del pensiero mitico, come del bricolage sul piano pratico, è di elaborare insiemi strutturati, non direttamente per mezzo di altri insiemi strutturati, ma utilizzando residui e frammenti di eventi….

    Il pensiero mitico, da vero bricoleur, elabora strutture combinando insieme eventi, o piuttosto residui di eventi, mentre la scienza, che ‘cammina’ in quanto si instaura , crea, sotto forma di eventi, i suoi strumenti e i suoi risultati, grazie alle strutture che fabbrica senza posa e che sono le sue ipotesi e le sue teorie. Ma non equivochiamo: non si tratta di due stadi o di due fasi dell’evoluzione del sapere, poiché i due modi di procedere sono ugualmente validi.”(6)



    Qual è il significato di queste citazioni di Claude Levi-Strauss al fine della spiegazione dell’accostamento fra terrorismo e Islam e dell’uso della religione islamica? Si vuole dire in poche parole che la realtà culturale del Magreb e del Medio Oriente (e il terrorismo come sua espressione) ha l’obiettivo di contrapporsi al mondo e alla cultura occidentale, perché solamente in questo modo potrà avere delle possibilità di svilupparsi e non correre il rischio di piombare nella miseria più nera quando verranno meno le risorse provenienti dalla vendita del petrolio e del gas naturale; questa realtà non ha però ancora gli strumenti adatti e concepiti espressamente per raggiungere questo obiettivo, fa un continuo inventario di ciò che possiede, cerca quindi nella sua storia, nella sua cultura, in ciò quindi che già possiede, gli strumenti più adatti per risolvere il problema che viene posto, utilizza in modo strumentale ciò che è nel suo repertorio, nel suo inventario, per contrapporsi all’Occidente sviluppato; alla fine ha trovato qualcosa che però già possiede un senso originale, nata per altre motivazioni e che questo motivo ne ridurrà la libertà di impiego: e nel suo inventario c’è la religione islamica.

    Ma qui viene fatta l’ipotesi che questa operazione, la scelta cioè della religione islamica per contrapporsi alla cultura occidentale, sia da vedersi come prima fase del processo di frattura col mondo occidentale, che quindi si è limitata a raggiungere risultati diversi, anche se propedeutici, da quelli che saranno raggiunti con una cosciente analisi storico-politica della realtà e con la creazione di strumenti adeguati per raggiungere l’obiettivo della creazione di una realtà feconda di sviluppo. Viene fatta quindi anche l’ipotesi che la prima forma di pensiero sia, in relazione al rapporto con un determinato evento, cronologicamente precedente alla seconda e che sia ad essa propedeutica, così come quanto mi pare dica Levi-Strauss che dà autonomia a queste due forme di pensiero ma dice pure che esse coesistono e si compenetrano.



    Ma qual’ è il modo, con quali meccanismi culturali, avviene la contrapposizione fra Mondo Occidentale e sviluppato da una parte e Magreb e Medio Oriente dall’altra attraverso la contrapposizione fra la religione islamica e la cultura occidentale? Avviene nel senso che la realtà del Magreb e del Medio Oriente (e il terrorismo come sua espressione) usa la religione islamica come una istituzione totemica.

    Questo sarà l’oggetto della seconda parte di questo paragrafo.



    b) L’Islam e la logica delle istituzioni totemiche



    I totem (specie vegetali e soprattutto animali) che danno il nome ai clan di molte popolazioni viventi allo stato primitivo (per es. clan dell’aquila, clan dell’orso, ecc) sono da vedersi, nelle differenze che le caratterizzano (le differenze cioè fra le caratteristiche fisico-comportamentali fra l’aquila e l’orso, ecc.), come dei codici che servono a comprendere la realtà più propriamente umana con l’introduzione in quest’ultima di interruzioni e contrasti (cioè di differenze) che sono le condizioni formali di un messaggio significante. Si utilizzano le caratteristiche fisico-comportamerntali delle specie totemiche e le differenze fra di esse per comprendere e marcare i caratteri, le differenze, i contrasti esistenti a livello della realtà umana. Solamente marcando le differenze fra i vari clan sono possibili i rapporti fra di loro come per esempio lo scambio delle donne, e alle volte degli uomini, fra i clan, nell’ambito dell’osservanza del tabù dell’incesto.

    La cultura occidentale e l’Islam, nella misura in cui vengono viste in contrasto (si parla di scontro di civiltà), verrebbero utilizzati (da parte di chi contrappone la cultura occidentale e l’Islam) come istituzioni totemiche, nel senso che gli scarti differenziali (cioè le differenze) esistenti al livello delle due culture servirebbero solamente per marcare gli scarti differenziali (cioè le differenze) delle diverse situazioni socio-economiche-culturali dell’Occidente da una parte e del Magreb e del Medio Oriente dall’altra e di garantirne la convertibilità ideale.

    Adesso verranno riportate alcune citazioni di Claude Levi-Strauss per cercare di rendere comprensibile ciò che è stato detto.

    ”…le logiche pratico-teoriche che regolano la vita e il pensiero delle cosiddette società primitive sono mosse dall’esigenza di scarti differenziali. Questa esigenza, già evidente nei miti originari delle istituzioni totemiche….si fa sentire anche sul piano dell’attività tecnica, protesa verso risultati che portino il sigillo della durata e della discontinuità. Quello che più conta sia sul piano speculativo sia sul piano pratico, non è tanto il contenuto, quanto l’evidenza di questi scarti, che formano, per il semplice fatto di esistere, un sistema da usare come cifrario per la comprensione di un testo reso, dalla sua iniziale inintelleggibilità, simile a un flusso indistinto, e nel quale il cifrario introduce appunto interruzioni e contrasti, vale a dire le condizioni formali di un messaggio significante

    . …..qualunque sistema di scarti differenziali – in quanto possiede carattere di sistema – consente l’organizzazione di una materia sociologica elaborata dall’evoluzione storica e demografica e composta di una serie teoricamente illimitata di contenuti diversi.

    Il principio logico è di poter sempre opporre dei termini, che un impoverimento preliminare della totalità empirica permette di concepire come distinti. Come opporre, è un problema importante, rispetto a questa esigenza fondamentale, ma da prendersi in considerazione in seguito. In altre parole i sistema di denominazione e classificazione, che sono comunemente chiamati totemici, derivano il loro valore operativo dal loro carattere formale: sono specie di codici atti a fare da tramite a messaggi convertibili nei termini di altri codici e ad esprimere nel proprio sistema i messaggi ricevuti attraverso il canale di codici differenti. L’errore degli etnologi classici è stato di voler reificare questa forma, di vincolarla a un contenuto determinato, quando invece essa si presenta all’osservatore come un metodo per assimilare ogni specie di contenuto. Lungi dall’essere una istituzione autonoma, definibile in base a caratteristiche intrinseche, il totemismo, o quello che passa per tale, corrisponde a certe modalità arbitrariamente isolate di un sistema formale, la cui funzione è di garantire la convertibilità ideale dei diversi livelli della realtà sociale”. (7)

    “Come abbiamo già suggerito, le nozioni e le credenze di tipo ‘totemico’ meritano attenzione soprattutto perché costituiscono, per le società che le hanno elaborate e adottate , una sorta di codici che permettono, nella forma di sistemi concettuali, di assicurare la convertibilità dei messaggi propri di ciascun livello, fossero pure lontani gli uni dagli altri come quelli che dipendono esclusivamente, a quanto sembra, dalla cultura e dalla società, vale a dire da rapporti degli uomini tra loro, oppure da manifestazioni di ordine tecnico ed economico che sembrano piuttosto riguardare i rapporti dell’uomo con la natura.” (8)

    “ In un altro lavoro…, abbiamo insistito su una caratteristica fondamentale ai nostri occhi, delle istituzioni che sono chiamate totemiche: esse fanno appello a un’omologia ma non tra gruppi sociali e specie naturali bensì tra le differenze che si manifestano da una parte a livello dei gruppi, dall’altro a livello delle specie. Queste istituzioni si reggono dunque sul postulato di una omologia tra due sistemi di differenze, situati, l’uno nella natura , l’altro nella cultura.” (9)

    “Abbiamo già stabilito che le credenze e le usanze eterogenee, arbitrariamente raccolte sotto l’etichetta di totemismo, non si basano sull’idea di un rapporto sostanziale tra uno o più gruppi sociali e uno o più regni naturali. Esse si ricollegano ad altre credenze e ad altre pratiche, direttamente o indirettamente connesse a schemi classificatori che permettono di cogliere l’universo nella forma di totalità organizzata.” (10)

    “ …la diversità delle specie fornisce all’uomo la più intuitiva delle immagini di cui possa disporre, e costituisce la più diretta manifestazione che egli riesca a cogliere della discontinuità ultima del reale: è l’espressione sensibile di un codice oggettivo.” (11)

    “ Certamente Comte assegna ad un dato periodo storico – le età del feticismo e del politeismo – questo ‘pensiero selvaggio ‘che non è, per noi, il pensiero dei selvaggi, né quello di un’umanità primitiva o arcaica, bensì il pensiero allo stato selvaggio, distinto dal pensiero educato o coltivato proprio in vista di un rendimento. Questo tipo di pensiero ha fatto la sua apparizione in certi punti del globo e in certi momenti storici, ed è naturale che Comte, privo di informazioni etnografiche (e del senso etnografico che si acquisisce soltanto raccogliendo e trattando questo genere di informazioni), abbia colto il primo nella sua forma retrospettiva, come un tipo di attività mentale anteriore al secondo. Oggi siamo in grado di capire meglio come entrambi possano coesistere e compenetrarsi, così come possano coesistere e incrociarsi( almeno in linea di diritto) le specie naturali, tanto quelle rimaste allo stato selvatico quanto quelle che sono state trasformate dall’agricoltura e dall’addomesticamento, benché – per il fatto stesso dello sviluppo e delle condizioni generale che questo richiede – l’esistenza delle seconde minacci di far estinguere le prime. Ma, che lo si deplori o che ci si rallegri, esistono ancora alcune zone in cui il pensiero selvaggio si trova, come le specie selvatiche, relativamente protetto: è il caso dell’arte, cui la nostra civiltà accorda lo statuto di parco nazionale con tutti i vantaggi e gli inconvenienti che comporta una formula tanto artificiale; e soprattutto è il caso di tanti settori della vita sociale ancora incolti ove, per indifferenza o per impotenza, e senza che il più delle volte sappiamo il perché, il pensiero selvaggio continua a prosperare.” (12)

    “Il pensiero selvaggio non distingue il momento dell’ossevazione da quello dell’interpretazione, così come non si registrano prima, osservandoli, i segni emessi da un interlocutore per cercare di comprenderli dopo: l’emissione sensibile produce immediatamente il suo significato.” (13)

    “ Il totemismo si fonda fra un’omologia postulata tra due serie parallele – quella delle specie naturali e quelle dei gruppi sociali – i cui rispettivi termini, non dimentichiamolo, non si assomigliano a due a due; soltanto la relazione globale tra le serie è omomorfica: correlazione formale tra due serie di differenze, ognuno dei quali costituisce un polo di opposizione.” (14)

    “ Le classificazioni totemiche hanno un doppio fondamento oggettivo: le specie naturali esistono veramente ed esistono proprio in forma di una serie discontinua; dal canto loro i segmenti sociali esistono anch’essi. Il totemismo, o ciò che viene così definito, si limita a immaginare un’omologia di struttura tra le due serie, ipotesi perfettamente legittima poiché i segmenti sociali sono espressamente creati ed è in potere di ogni società rendere plausibile l’ipotesi conformando ad essa le sue norme e le sue rappresentazioni.” (15)

    “ In un altro lavoro abbiamo brevemente rievocato i miti di origine delle istituzioni che vengono chiamate totemiche e abbiamo dimostrato che, anche in paesi lontani, e nonostante le varietà di contenuto, questi miti ci trasmettono lo stesso insegnamento e cioè: 1) queste istituzioni si fondano su una corrispondenza globale tra due serie, non su corrispondenze particolari tra i loro termini; 2) tale corrispondenza è metaforica, non metonimica; 3) essa infine si manifesta solo che dopo che ogni serie è stata precedentemente impoverita da una soppressione di elementi, in modo che la loro discontinuità interna risalti più nettamente.” (16)

    “ Esiste…..una specie di antipatia fondamentale tra la storia e i sistemi di classificazione. Questo spiega forse quello che potrebbe essere chiamato il ‘vuoto totemico’, poiché tutto ciò che potrebbe, anche allo stato di vestigia, ricordare il totemismo, sembra stranamente assente nell’area delle grandi civiltà dell’Europa e dell’Asia. La ragione sta nel fatto che queste civiltà hanno scelto di spiegarsi a se stesse attraverso la storia e che questa impresa è incompatibile con quella che classifica le cose e gli esseri (naturali e sociali) mediante gruppi finiti. Le classificazioni totemiche suddividono i loro gruppi in una serie originale ed una serie derivata: questa comprende i gruppi umani nel loro aspetto culturale, l’altra le specie zoologiche e botaniche nel loro aspetto soprannaturale, con una asserita priorità di esistenza nei confronti della prima serie che in qualche modo ha generato. Tuttavia la serie originale continua a vivere nella diacronia attraverso le specie animali e vegetali, parallelamente alla serie umana. Le due serie esistono nel tempo, ma fruiscono di un regime atemporale poiché, reali entrambe , avanzano insieme nel tempo, restando uguali a quelle che erano al momento della loro separazione. La serie originale è sempre lì, pronta a servire da sistema di riferimento per interpretare e correggere i cambiamenti che avvengono nella serie derivata. Teoricamente, se non praticamente, la storia è subordinata al sistema. Ma quando una società si mette dalla parte della storia, la classificazione in gruppi finiti diventa impossibile, poiché la serie derivata, invece di riprodurre una serie originale, si confonde con essa per formare una serie unica, di cui ogni termine è derivato rispetto a quello che lo precede e originale rispetto a quello che lo segue. Invece di postulare una volta per tutte un’omologia tra due serie, ciascuna per conto proprio finita e discontinua, si postula un’evoluzione continua nell’ambito di una sola serie che accoglie un numero illimitato di termini.”(17)





    Per riassumere e per ribadire quanto detto agli inizi delle due parti di questo paragrafo, la realtà socio-economica e culturale del Magreb e del Medio Oriente ha l’obiettivo di creare una frattura col mondo occidentale, di raggiungere l’indipendenza socio-economica e culturale dal mondo occidentale, perché solo in questo modo è possibile creare una realtà autonoma, feconda e ricca e che non corra il rischio di essere divorata e assorbita dal mondo occidentale stesso. L’obiettivo di ogni cultura, viene ribadito, è di essere padrona del proprio destino. La realtà socio-economica e culturale del Magreb e del Medio Oriente è andata alla ricerca degli strumenti per contrapporsi al mondo occidentale, ha fatto l’inventario di ciò che possiede e ha cercato gli strumenti per fare questo: la scelta è caduta sulla religione islamica. Ma la religione islamica, si è cercato di spiegare con le citazioni di Claude Levi-Strauss, ha un senso originale, nel senso che è nata per altri motivi, e che per questo il suo impiego sarà limitato e, soprattutto, avrà un significato particolare: servirà solamente a marcare, spostandosi su un altro campo, come fanno le istituzioni totemiche, solamente la differenza fra la realtà socio-economica e culturale del Magreb e del Medio Oriente da una parte e il mondo occidentale dall’altra, perché solo in questo modo questa contrapposizione inizia a diventare intelleggibile. Si aggiunge ancora che, così come non c’è nessuna corrispondenza sostanziale fra le istituzioni totemiche e le realtà umane così non c’e nessuna corrispondenza sostanziale fra il terrorismo e la religione islamica e fra la religione islamica e la cultura occidentale: se così non fosse dovremmo avere delle forti contrapposizioni fra il Giappone e il mondo occidentale ( di cui tra l’altro e per molti versi il Giappone fa parte) solamente perché la religione più diffusa in Giappone è lo Shintoismo, e non avremmo dovuto avere le tremende guerre che ci sono state fra le nazioni dell’Europa cristiana, non avremmo dovuto avere l’olocausto, ecc.

    L’utilizzo della religione islamica come istituzione totemica, cioè come cifrario che introduce interruzioni e contrasti con la cultura occidentale, potrebbe anche vedersi, d’accordo con quanto mi pare voglia dire Claude Levi-Strauss a proposito del “pensiero selvaggio” quando dice che le due forme di pensiero “possano coesistere e compenetrarsi”, solamente come la prima modalità di accostarsi al problema, per poi cedere il passo alla presa di coscienza dei problemi esistenti e alla ricerca razionale delle loro soluzioni. La successione fra le due modalità di pensiero avverrebbe non nella storia, come diceva Comte (rimproverato a tale riguardo da Levi-strauss) ma in relazione ad un singolo evento.


    Una interpretazione simile penso si possa dare dello scontro in Nord Irlanda fra la comunità cattolica e quella protestante: il carattere cattolico del terrorismo dell’IRA ha avuto essenzialmente la funzione totemica di marcare le differenze socio-economico-politiche fra le due comunità.

    Ritornando al cosiddetto scontro di civiltà bisogna chiedersi chi ha fatto la prima mossa, o, per meglio dire, chi è motivato alla ricerca dello “scontro di civiltà”?

    La risposta è ovvia a fronte di tutto quello che è stato detto: è il mondo islamico o, per meglio dire è il Magreb e il Medio Oriente con i loro problemi e le loro prospettive di soluzione.

    Questi sono solamente spunti (spero validi) per una riflessione più chiara e approfondita del collegamento fra Islam e terrorismo.







    (1) The life and letters of Charles Darwin – London: John Murray, Albemarle Street. 1887. terzo volume, pagina 18 (nota in fondo alla pagina)

    (2) Joseph E. Stiglitz, La globalizzazione e i suoi oppositori, Einaudi, Torino 2002, pag. 67

    (3) idem pag. XIV

    (4) idem pag. 6

    (5) Claude Levi-Strauss, Il pensiero selvaggio, il Saggiatore, Milano 2003, pagg. 28-29

    (6) idem, pagg. 29-30-31-32-34

    (7) idem, pagg. 89-90

    (8) idem, pag. 104

    (9) idem, pag. 130

    (10) idem, pag. 151

    (11) idem, pag. 153

    (12) idem, pag. 240

    (13) idem, pagg. 243-244

    (14) idem pagg. 245-246

    (15) idem, pag. 248

    (16) idem, pag. 249

    (17) idem, pag. 253

    (18) Carlo Tullio-Altan, Le grandi religioni a confronto - L’età della globalizzazione, Giangiacomo Feltrinelli Editore, maggio 2002, pagg. 144-145

    (19) Ummah: nuova legge di aggregazione comunitaria, formulata da Maometto, basata sulla fede in un unico Dio, creatore dell’universo e degli uomini che lo abitano, e in una serie di norme.

    (20) Claude Levi-Strauss, Il pensiero selvaggio, il Saggiatore, Milano 2003, pag. 240

    (21) Claude Levi-Strauss, Mito e significato, il Saggiatore, Prima edizione Net, marzo 2002, pagg. 37-38


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    Ho fatto un OCR madornale, se ci sono errori segnalatemelo.

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    Diffusione delle idee illiberali nel mondo accademico e altro.


    I DIVERSI EPISODI CHE HO RICORDATO nel capitolo precedente testimoniano due fatti sorprendenti: la facilità con la quale teorie semplicistiche si sono diffuse negli ambienti intellettuali nel corso degli ultimi decenni, compresi gli ambienti universitari, anche fra i migliori, e la comparsa di un'intolleranza che è in netta opposizione con le regole stesse della vita intellettuale.
    Come spiegare questi fatti? Perché teorie concettualmente approssimative e incuranti dell'osservazione metodica e del controllo empirico come quelle che ho ricordato si sono imposte più facilmente ancora nella comunità universitaria che presso l'opinione pubblica? Perché appaiono nei programmi scolastici dei licei e delle scuole superiori un po' ovunque nel mondo occidentale? Perché sono così diffuse nelle trasmissioni televisive e sulle pagine «culturali» dei giornali?
    Si ha quasi l'impressione che l'evoluzione delle istituzioni di insegnamento superiore e di ricerca, dovuta all'innalzamento della domanda di formazione scolastica, abbia dato luogo a meccanismi complessi direttamente legati alla questione di cui ci stiamo occupando: l'espulsione della tradizione liberale dagli ambienti intellettuali. Voglio quindi soffermarmi su questi meccanismi.
    La debole attrattiva che il liberalismo esercita su molti intellettuali deriva anche da altri fattori: dal fatto che se tic fanno un'idea distorta, che cedono a discutibili associazioni di idee, che obbediscono a diversi meccanismi cognitivi. Su questi ultimi, non potendoli esplorare nel dettaglio, mi limito fornire una ricostruzione generale nelle pagine che seguono.
    Infine, se accettiamo l'idea che ogni credenza individua le e collettiva debba essere ricostruita recuperandone le ragioni e il senso, dobbiamo ammettere, per correttezza e per equità, che l'ostilità di molti intellettuali al liberalismo trova alcune ragioni nel fatto che anche l'ordine liberale, come ogni ordine sociale, genera degli effetti perversi. Metterò il luce questo punto avvalendomi di alcuni esempi nel camp(
    della «cultura».

    Teorie utili contro teorie vere

    Le teorie illiberali che ho ricordato prima sono state prodotte dalle scienze umane. Fino alla comparsa di quella che ho chiamato l'università di massa, le scienze umane obbediscono più o meno alle regole che definiscono il lavoro scientifico, in qualsiasi ambito esso si esplichi. Cercano cioè di produrre e diffondere un sapere oggettivamente fondato. Credono dunque anche al merito della critica analitica. Vedono nella discussione la via maestra alla selezione razionale delle idee, il che ci dice che hanno fiducia nel progresso del sapere e nella cumulatività della conoscenza. Questi principi non erano certo sempre seguiti nella pratica, ma avevano uno statuto regolatore. In ogni caso non erano mai messi in discussione. È solo a partire dagli anni '6o che si comincia a pensare, in circoli sempre più ampi di persone, che l'oggettività sarebbe un'illusione. Di qui deriva la convinzione che non ha alcun senso parlare di sapere e di conoscenza, mentre si dovrebbe parlare solo di punti di vista. Non di fatti, ma solo di interpretazioni.
    Il programma che aveva assegnato alle scienze umane un ethos scientifico si è da lungo tempo mostrato efficace. Mi limito a richiamare qui qualche caso illuminante. Nell'ambito della sociologia, le obiezioni fatte da Weber alla spiegazione nietzscheana dell'origine del cristianesimo, o da Simmel al mo
    dello marxista sono più o meno incontestabili. Durkheim ha fatto progredire in modo considerevole la conoscenza del fenomeno del suicidio. Smith, Tocqueville poi Weber hanno proposto una soluzione dell'enigma dell'«eccezione religiosa americana» ormai largamente consolidata, anche se oggi è possibile elaborarla con maggiore profondità (Boudon, 2002). Lazarsfeld ha introdotto alcuni metodi di osservazione che permettono, per quel che è possibile, di neutralizzare la soggettività dell'osservatore. Nel campo dell'antropologia, la spiegazione delle credenze irrazionali ha compiuto passi indiscutibili da Lévy-Bruhl a Durkheim, Evans-Pritchard e altri. L'economia ha visto il suo sviluppo, ma ha anche dimostrato che i modelli di ispirazione economica possono essere utilizzati al di fuori del campo strettamente economico. Negli anni '5o ha dato ispirazione ad alcune applicazioni oggi considerate dei classici, dalla teoria economica alla teoria politica. I lavori di Mancur Olson offrono delle efficaci griglie di analisi della mobilitazione politica. Durante i decenni che hanno seguito la pubblicazione de La logica dell'azione collettiva la maggior parte delle ricerche su questo fenomeno hanno fatto riferimento ai suoi lavori. James Buchanan e Gordon Tullock nel loro Calculus of Consent o Anthony Downs in Economic Theory of Democracy aprono delle nuove vie per l'analisi delle istituzioni politiche. Ancora oggi continuano ad essere un riferimento essenziale nella ricerca empirica e nella riflessione teorica sui fenomeni politici.
    In breve, una panoramica delle scienze dell'uomo nella metà del xx secolo le fa apparire come discipline che seguono un programma simile a quello delle scienze tout court.
    Dall'altro lato, è vero che le discipline che formano il blocco delle scienze umane hanno ciascuna la propria storia e la propria tradizione, che esse si scambiano più o meno facil
    I mente o che cercano di difendere come patrimonio esclusivo quando si occupano di problemi molto vicini. Tuttavia si può constatare che fra di loro c'è una certa convergenza. Si tratta di una tendenza dovuta essenzialmente al fatto che aderiscono, più o meno spontaneamente, alle rappresentazioni dell'uomo, della società e dello Stato messe in opera dalla tradizione liberale: l'uomo di Weber è quello della psicologia classica, come quello di Evans-Pritchard, o di Buchanan. L'uomo di Buchanan è solo più semplice rispetto a quello di EvansPritchard, perché è più semplice spiegare i comportamenti della vita economica e politica che quelli derivati o legati alle credenze magiche. La società nel senso di Weber o di Pareto è composta da individui che appartengono a diversi gruppi, legati fra loro da istituzioni e tradizioni, che hanno diversi statuti. Questa concezione della società è ampiamente condivisa. Pochi scienziati sociali aderiscono a modelli alternativi, come potrebbero essere l'immagine organicistica della società, che aveva conosciuto in altri momenti il suo apogeo, o l'immagine di una società composta per definizione da gruppi antagonisti, come vorrebbe la tradizione marxista. Lo Stato è considerato una forma di regolazione che cerca di raggiungere, con più o meno successo, un alto grado di legittimità, il che implica ottenere l'approvazione da parte del pubblico delle regole che fa e dei progetti che mette in cantiere.
    Questa concezione delle scienze umane è largamente diffusa nelle università fino agli anni '95o-1960, un po' ovunque nel mondo. Questo quadro va però ritoccato in due punti.
    Il primo punto riguarda il fatto che le scienze umane si esercitano anche al di fuori delle istituzioni che hanno la missione di creare sapere, cioè le università e gli istituti di ricerca. La sociologia francese di inizio xx secolo è certamente rappresentata da Durkheim, ma anche da Gustave Le Bon. Abbiamo Maurice Halbwachs, il più interessante fra gli allievi di Durkheim, ma anche Georges Bataille e il Col
    lège di sociologia. La psicologia delle folle di Le Bon ha avuto un ascolto e un'attenzione di gran lunga superiori a quelli avuti da Durkheim, per evidenti motivi: facilità di lettura e utilità, nel senso in cui la intende Vilfredo Pareto. Descrivendo le folle, che si distinguono a malapena da quelle che oggi noi chiamiamo masse, come entità mosse da una psicologia irrazionale, Le Bon aumentava la paura che esse suscitavano. Ma non è certo che ci abbia insegnato gran che sul loro funzionamento.
    Secondo punto su cui fare un piccolo ritocco: nei centri di ricerca e nelle università, nella prima metà del secolo xx, vi sono intellettuali di convinzione e intellettuali organici che non credono che la scienza umana abbia la missione di creare un sapere solido e che attribuiscono alle scienze un ruolo politico comunque importante. Pensiamo, fra gli altri, a certi storici della Rivoluzione francese, a Alphonse Aulard, a Albert Mathiez, o Albert Soboul. Militarono per imporre la loro visione della Rivoluzione e una visione dell'evoluzione non solo della società francese, ma delle società in genere. È interessante il fatto che, nonostante siano stati dei «militanti», abbiano sempre cercato di presentare - e così erano percepite - le loro analisi come risultati di una attività di ricerca che obbedisce ai principi che definiscono l'ethos scientifico.
    Questo quadro riproduce a grandi linee la situazione fino agli anni 'So-'6o, in Francia, in Germania, negli Stati Uniti.
    Con la comparsa dell'università di massa, la situazione si modifica profondamente. I «Le Bon» che prima erano tenuti al margine degli istituti di ricerca e dell'insegnamento superiore vi sono ammessi con sempre maggiore facilità. Di conseguenza, tende ad indebolirsi l'idea secondo la quale la produzione di un sapere controllato è la funzione specifica dell'università, nel caso delle scienze umane come in quello delle scienze in generale.
    In breve, l'università di massa ha l'effetto di diminuire il peso della tradizione del pensiero liberale, che aveva visto la sua massima influenza nelle istituzioni che erano considerate i luoghi privilegiati deputati alla creazione del sapere. Nella seconda metà del secolo xx il liberalismo perde quasi ovunque questa posizione.
    Allo stesso tempo perde di importanza l'idea che le scienze dell'uomo abbiano la missione, come tutte le scienze, di creare un sapere cumulativo, ottenuto attraverso una selezione razionale delle teorie che spiegano i fenomeni politici, economici e sociali. Lo scetticismo sulla capacità e la missione delle scienze umane di creare un sapere solido fa sì che la loro produzione sia valutata soprattutto sulla base dell'utilità delle teorie. Alla selezione delle idee e delle teorie che spiegano i fenomeni a partire dai criteri propri dell'ethos scientifico si sostituisce una selezione basata sull'utilità. Si accetta una teoria perché risponde a questa o a quella domanda formulata da parte di questo o di quel gruppo o, a volte, anche perché risponde a una domanda vecchia quanto il mondo: la domanda di «novità». A partire dal momento in cui le scienze umane si sentono esonerate dall'obbligo al quale si attengono le scienze dure, tendono a diventare delle «scienze» tra virgolette.
    Il divorzio fra le scienze dell'uomo e il liberalismo si era a questo punto ormai consumato.
    Prendendo atto di tale situazione, ma proiettando erroneamente il presente sul passato, l'eminente sociologo tedesco Wolf Lepenies (1985) ha sviluppato l'idea secondo cui la sociologia non potrebbe essere, né sarebbe mai stata una disciplina scientifica. Si è detto giustamente che egli ne fornisce una concezione estetizzante (Chazel, zooo) sfortunatamente molto diffusa oggi giorno.
    Questo processo rappresenta una delle cause fondamentali della perdita di influenza della tradizione liberale nelle scienze umane nel corso della seconda metà del secolo xx, nelle università e in seguito negli ambienti intellettuali. Si tratta di :una tradizione che aveva troppo scommesso sul presupposto secondo cui i fenomeni politici, sociali e economici possono essere studiati a partire da teorie oggettivamente valide.
    Bisogna ancora notare, per inciso, che la questione della scientificità ha attraversato da sempre la riflessione metodologica sulle scienze umane, anche fra gli stessi scienziati sociali. Diversamente da Weber, Rickert aveva per esempio sostenuto che la scientificità era una questione illusoria. Ma, fino alla metà del xx secolo, la sua visione era stata ormai smentita.
    Oggi, un Lepenies darebbe ragione a Rickert invece che a Weber: un'ulteriore conferma del cambiamento che ho cercato di descrivere.


    Alle origini dell'intolleranza

    La comparsa dell'università di massa ha quindi avuto un primo effetto: la tendenza a sostituire nell'ambito delle scienze umane i produttori orientati verso l'utilità ai produttori che cercano di aumentare il sapere e, di conseguenza, la diminuzione dei produttori che operano nel quadro del pensiero liberale.
    Lo stesso fattore ha probabilmente dato luogo a un altro effetto meccanico che forse non è politicamente corretto ricordare per le ragioni che Tocqueville ha brillantemente analizzato. In una società in cui l'uguaglianza è una «passione generale e dominante» tutte le opinioni tendono a essere considerate ugualmente accettabili, tutti i punti di vista ugualmente degni di essere difesi. Tranne che su questioni di carattere tecnico, non è riconosciuta alcuna differenza di competenze fra gli individui. Tocqueville vede in questo meccanismo il motore della «tirannia delle opinioni»: dal momento che i criteri oggettivi di validità delle idee sono svalutati, essendo le idee ridotte allo statuto di semplici opinioni, non vi è alcuna ragione di opporsi a una opinione, soprattutto se si tratta dell'opinione della maggioranza. Per dirla in termini contemporanei: l'egalitarismo favorisce il «pensiero unico». Bisogna comunque notare che, per il fatto stesso di utilizzare il termine «tirannia», Tocqueville invita a opporvi resistenza.
    L'effetto di cui non si può parlare è il seguente. Di recente, mi si raccontava che un professore del collegio della Senna di Saint-Denis, senza dubbio poco sicuro di sé in materia di ortografia, aveva deciso di togliersi i suoi dubbi in modo «democratico», ovvero proponendo alla sua classe di decidere alla maggioranza quali sono i criteri della buona ortografia. Fino a che punto possiamo leggere in questo episodio l'abbassamento della qualità degli insegnanti di oggi, ovvero degli studenti e degli allievi di ieri?
    So bene che si è sostenuto, in studi presentati come molto prestigiosi, che la qualità degli allievi e degli studenti è aumentata (Baudelot e Establet, 1989). A questa posizione si potrebbe obiettare che è difficile quantificare la qualità degli studenti e che per esempio in Francia è fuori discussione che siamo di fronte ad un aumento di studenti ed allievi illetterati.
    In breve, la teoria secondo la quale la qualità degli studenti aumenta ha l'aria di essere più utile che vera. Legittima una politica dell'istruzione che, dall'inizio degli anni '70, era stata molto più attenta all'uguaglianza che all'efficacia, più attenta ad affermare alcuni principi generali invece che operare in funzione dell'interesse degli individui e della collettività. La teoria in questione fu ampiamente diffusa e pubblicizzata dai media, i quali sottolinearono soprattutto il fatto che questi studi garantivano un aumento della qualità degli studenti e che qualsiasi affermazione contraria non era altro che una «idea da vecchi, parte del paesaggio ideologico della scuola da ormai duecento anni».
    È invece molto più credibile che l'aumento improvviso del numero degli studenti, verificatosi un po' ovunque a partire dagli anni '6 o, abbia generato in media un abbassamento degli standard loro imposti. Infatti, bisognerebbe accuratamente distinguere fra il «livello degli standard», facile da osservare, dal «livello degli allievi», molto più difficile da cogliere. La differenza consiste nel fatto che quest'ultimo dipende dalle iniziative individuali degli allievi (o degli studenti) e non soltanto dalla efficacia del sistema di insegnamento.
    In altri termini, è ragionevole pensare che lo sviluppo dell'università di massa abbia contribuito al fatto che le teorie di difficile comprensione, gli strumenti intellettuali che richiedono un investimento consistente in termini di tempi di apprendimento, siano stati progressivamente circoscritti sullo sfondo dell'insegnamento e abbiano poi teso a scomparire dal sapere comune, secondo un processo a cascata che va dal livello di formazione superiore a quello delle scuole secondarie.
    Questo processo poi rischia di mettersi in atto soprattutto nelle discipline che non sono immunizzate da loro caratteristiche intrinseche. Infatti le discipline riescono a contrastarne gli effetti secondo gradi diversi di efficacia. Per ragioni sulle quali è inutile soffermarsi, la fisica e la biologia sono più protette rispetto alle scienze dell'uomo e fra queste ultime l'economia o la storia lo sono di più per esempio della sociologia.
    Questo meccanismo contribuisce a spiegare il fatto che l'ostilità al liberalismo sia radicata soprattutto, almeno così sembra, fra gli intellettuali che si sono formati nelle scienze umane meno esigenti. Infatti la tradizione liberale offre delle analisi dei fenomeni sociali, politici ed economici in cui si utilizzano strumenti intellettuali, sistemi di argomentazioni e un atteggiamento mentale che richiedono un apprendimento lungo, spesso percepito come un «gioco che non vale la candela». Per esempio, non è facile, senza una conoscenza specifica, comprendere la «legge dei vantaggi comparativi», la nozione di «effetto di composizione», le teorie relative all'azione e alla decisione collettive o le strutture sub-ottimali della teoria dei giochi. Sono stato spesso colpito da alcuni commenti pubblicati sui grandi autori moderni della tradizione liberale, come Olson [1978 (1965)]: gli si rivolgono critiche ed obiezioni che, non accedendo al ragionamento utilizzato dalla sua teoria, danno l'impressione di lambire soltanto il cuore della questione e di testimoniare soprattutto l'incomprensione dei loro autori. Altra osservazione sulla stessa linea: si è arrivati al punto di trarre da Durkheim a Weber qualche formula, che viene trattata come uno slogan in alcuni ambienti universitari. Si è più raramente attenti alla complessità delle loro argomentazioni scientifiche.
    La diminuzione del numero relativo di studenti nelle scienze esatte è senza dubbio una manifestazione dello stesso meccanismo, anche se altri fattori devono essere tenuti in conto per spiegare un fenomeno che caratterizza molti dei paesi industrializzati (Convert, 2003). Infatti il lato «ascetico» di queste discipline, che le caratterizza per il lungo apprendimento di strumenti formali che viene imposto allo studente, le rende certamente meno attraenti di altre.
    A questo meccanismo se ne associa un altro: una concezione relativista del sapere è stata sviluppata dai filosofi e dai sociologi delle scienze e si è diffusa a cerchi concentrici a partire dagli anni '6o. Il successo dello slogan «Anything goes» (Feyerabend, 1975) ha ispirato molte altre opere che rilanciano la stessa idea. Il suo titolo riassume perfettamente la concezione relativista del sapere: ogni sapere che pretende di essere oggettivo è in realtà pieno di soggettività. Quello che noi chiamiamo «conoscenza» non sarebbe che la giustapposizione di punti di vista ugualmente fondati e potenzialmente contraddittori gli uni con gli altri. Altri autori vanno anche oltre, fino ad applicare la teoria del complotto a questo ambito: la pretesa di oggettività non sarebbe altro che un velo pudico gettato su interessi di parte.
    Un esempio, fra i tanti possibili, tratto da questa letteratura relativista. Riprendendo l'idea del «trilemma di Münchhausen», K. Hübner (1985) afferma che ogni teoria, comprese le teorie scientifiche più attendibili, si basa necessariamente su proposizioni prime che non possono essere dimostrate, salvo cadere in un ragionamento circolare o in un regresso all'infinito. Chi vuole dimostrare completamente una teoria scientifica dimostra di avere la stessa ingenuità che aveva il leggendario barone di Münchhausen, il quale cercava di sollevarsi dal fango nel quale era caduto tirandosi per i capelli. Anche in ambito scientifico, quindi, non ci sono delle certezze. Hübner ne conclude che i miti propongono delle spiegazioni del mondo la cui validità non può essere dimostrata, esattamente come accade per le teorie scientifiche.
    Questa epistemologia relativista non ha avuto effetti sulle scienze della natura, se non, forse, per avere diminuito il loro prestigio, in particolare presso gli studenti di altre discipline. Ma ha certamente minato alla base gli insegnamenti delle scienze umane e colpito in pieno le scienze che sono meno protette da queste affermazioni. Ha finito infatti per legittimare all'interno di queste ultime una metodologia del pressappochismo concettuale.
    Si può anche avanzare l'ipotesi secondo cui questi diversi fattori - abbassamento delle esigenze nella formazione scolastica e universitaria, instaurazione di una epistemologia che squalifica la nozione di sapere oggettivo - hanno prodotto un altro effetto di cruciale importanza: l'espansione del moralismo nell'ambiente intellettuale e fra gli insegnanti. È infatti più facile dare una valutazione morale su un evento storico o su un determinato processo sociale che cercare di comprenderlo. La comprensione presuppone, infatti, informazione e competenza analitica. Al contrario, dare una valutazione morale, non richiede alcuna competenza particolare. Il riconoscimento della capacità di comprendere presuppone una concezione oggettivista della conoscenza. Non è certo la stessa cosa per la capacità di sentire. Inoltre, se un giudizio morale incontra la sensibilità di un particolare pubblico o se si conforma a dogmi che uniscono le persone che circolano in alcuni ambienti intellettuali particolarmente influenti, può essere molto vantaggioso anche dal punto di vista materiale.
    A tutto questo bisogna aggiungere, per rispondere ad una possibile obiezione, che il relativismo cognitivo - il relativismo che riguarda il sapere - non implica in alcun modo il relativismo morale. Il relativismo cognitivo incoraggia al contrario l'etica della convinzione. Dal momento che una convinzione, secondo il relativismo cognitivo, non potrebbe essere oggettivamente fondata, il fatto che sia vissuta come giusta è facilmente percepito come il solo criterio per convalidarla. Questo criterio tende a essere considerato, quindi, necessario e sufficiente. L'episodio del Quebec che ho ricordato prima, in cui le femministe hanno proposto di diminuire gli standard di valutazione negli esami di dottorato a vantaggio delle candidate di sesso femminile, sostenendo che il sapere è sempre incerto mentre le esigenze morali sono indiscutibili, dimostra questo effetto.
    La svalutazione del sapere si accompagna quindi a una sovravalutazione della morale o, più esattamente, a una esasperazione delle esigenze in materia di uguaglianza, a sfavore di altri valori. Forse è questo fenomeno che alcune espressioni come «pensiero unico» oppure «politicamente corretto» cercano di cogliere.
    Hegel aveva già avuto il presentimento dell'importanza di questi meccanismi. L'intellettuale è facilmente tentato di presentarsi come una «buona anima», una persona che difende i buoni sentimenti. Ha la consapevolezza che molto raramente sarà smentito. Anche chi avesse delle obiezioni da rivolgergli finirebbe per tacere, perché è pericoloso andare contro i buoni sentimenti. Dunque, l'intellettuale può sviluppare in tutta tranquillità le sue analisi, anche se sono più utili che vere. La critica è così disattivata, nel senso che di solito non è presente e dove lo è, non è mai portata avanti in modo profondo e sistematico. Questi processi spiegano perché idee false e controproducenti riescono nondimeno a radicarsi - e magari a restare in circolazione per lungo tempo - tanto che bisogna aspettare il verdetto del confronto con la realtà perché siano allontanate dagli ambienti intellettuali.
    Le «buone anime» sono in effetti responsabili della sindrome della «conoscenza inutile» (J.-F. Revel) o del «fallimento del pensiero» (A. Finkielkraut).
    Senza dubbio i «démi-habiles» cari a Pascal sono sempre esistiti. Ma oggi hanno più possibilità che in passato di raggiungere posizioni di potere o di influenzare la vita intellettuale. Questo deriva in modo lineare dalla crescita molto veloce cui si è assistito un po' ovunque, nel corso degli ultimi decenni, del numero delle persone che svolgono professioni intellettuali: nella stampa e nell'insegnamento secondario e superiore.
    Abbiamo identificato un sintomo di questa evoluzione nelle proposte della teoria del complotto. Come ho già detto, oggi molti universitari devono la loro notorietà, in Francia, in Inghilterra, negli Stati Uniti e altrove, al fatto di avere sviluppato - spesso con bravura - delle varianti, più o meno dotte, della vulgata marxista oppure di quella nietzschiana.
    Si tratta di un fatto nuovo. Fino ad ora, la teoria del complotto era stata al servizio della sociologia populista, quella che recentemente si è vista a Larzac, per esempio. La filosofia e la sociologia delle università pensavano fosse loro compito criticare questa impostazione e proporre schemi esplicativi dei fenomeni più complessi e più realisti, in altri termini più giusti.
    La proliferazione delle «belle anime» nelle posizioni di potere e di influenza contribuisce a spiegare l'incredibile intolleranza intellettuale e l'assenza di spirito critico che si osserva negli ambienti in cui tolleranza e spirito critico sono stati considerati valori essenziali fino allo sviluppo dell'università di massa: gli ambienti universitari per l'appunto.
    Si tratta di una intolleranza spesso feroce e discreta. Un brillante professore universitario italiano mi ha confidato che si sentiva implicitamente obbligato a sottolineare ai suoi colleghi, mettendolo fra parentesi, con discreti accenni o incisi, un paio di volte l'anno, che era un «progressista». Da quando aveva smesso di conformarsi a questo obbligo, aveva l'impressione di essere trattato nell'indifferenza più totale. Da allora, ci si «dimenticava» costantemente di citarlo, di salutarlo perfino.
    Sotto l'effetto di questi meccanismi, la «fine delle ideologie» non è affatto andata di pari passo con la fine dell'intolleranza. Si può al contrario identificare, un po' ovunque nel mondo universitario, non solamente un «politicamente corretto», ma un «sociologicamente, un antropologicamente, uno storicamente o un filosoficamente corretto».
    Questi diversi dati non sono per nulla favorevoli alla tradizione liberale, che si contraddistingue al contrario per la sua attenzione alla complessità dei fenomeni economici e sociali, per il suo culto della tolleranza, per l'insistenza sull'importanza delle argomentazioni, per la valorizzazione dello spirito critico, per la credenza nella possibilità di costruire un sapere oggettivamente valido e per la convinzione che le scienze dell'uomo se non si attengono a questi principi non sono in fondo che una mera impostura.

    Raymond Boudon, Perché gli intellettuali non amano il liberalismo, 2004, Rubettino editore, pp. 69-82

  5. #55
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    Predefinito Re: La Biblioteca di BackStage

    Riporto un ottimo intervento dello scrittore Evangelisti su Berlusconi e la "nuova" destra italiana...

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    Berlusconi "socialista" e la Nuova Destra in Italia
    di Valerio Evangelisti

    La versione italiana del fenomeno mondiale chiamato “nuova destra”, e comprendente aspetti disparati ma coerenti come il neoconservatorismo statunitense, il fondamentalismo cristiano, il revisionismo storico, in Italia ha un nome e un cognome: Silvio Berlusconi. Non perché questo monopolista industriale passato alla politica sia individualmente all’origine del fenomeno, ma perché ha saputo farsene il catalizzatore nella penisola, e radunarne in un’unica compagine – almeno per un certo tempo – le diverse espressioni. Ciò malgrado l’assenza di un pensiero univoco e di una cultura unificante, sostituiti da tutta una gamma di atteggiamenti e di prese di posizione contingenti, a brevissimo respiro.

    Ora che il governo Berlusconi sembra volgere al fine, è il momento di interrogarsi con pacatezza e lucidità su ciò che ha rappresentato in Italia. Esiste tutta una letteratura che si è concentrata sul personaggio, per sottolinearne le caratteristiche sgradevoli o equivoche, e che ne ha interpretato l’opera, quale presidente del consiglio, in chiave di instaurazione di un regime semi-totalitario.
    Chi fa propria questa interpretazione di solito non dispone di strumenti critici storico-economici capaci di raggiungere il livello strutturale dei fenomeni; e ciò in quanto per lo più professa un’ideologia liberale o neoliberale – vale a dire la stessa ideologia di cui Berlusconi è alfiere, sia pure in una variante estremistica e tinta di populismo. Se si compartiscono le coordinate ideologiche, diventa difficile situare con precisione sotto il profilo storico o delle idee l’oggetto studiato, perché le strutture contestuali appariranno date e non discutibili. Ci si arresterà quindi all’epifenomeno – specie se un’analisi più approfondita approderebbe al riconoscimento di una responsabilità propria, per non dire di una corresponsabilità.
    Chi adotta il taglio epifenomenico, tra l’altro, finge di dimenticare che Berlusconi è stato regolarmente eletto, e che i provvedimenti che lui e i suoi alleati di governo hanno adottato, inclusi i decreti e le leggi più aberranti, sono passati non in virtù di presunti “colpi di mano”, bensì con un uso totalmente legale della maggioranza schiacciante offerta loro dal sistema elettorale maggioritario. Chi si è battuto per quest’ultimo ha pochi titoli per denunciare il “regime” di Berlusconi, visto che ha approntato o approvato gli strumenti di cui l’avversario si è poi servito.
    Dovrebbe piuttosto chiedersi perché gli elettori abbiano votato un personaggio simile, dotato di un programma teso solo a soddisfare egoismi propri e altrui. L’ “offerta Berlusconi” non si sarebbe affermata se non avesse trovato nella società una domanda corrispondente, essenzialmente suscitata da altri.

    Di norma, chi critica il Berlusconi “autocrate” e instauratore di un regime è consapevole del fatto che il personaggio gode delle simpatie di una parte consistente dell’elettorato, in alcuni momenti maggioritaria. Tende ad attribuire un consenso così largo al monopolio sui mezzi di comunicazione, e soprattutto sulla televisione (i canali Mediaset, poi, dopo l’ascesa alla presidenza del consiglio, anche quelli Rai). Lo stesso Berlusconi ha d’altra parte dimostrato di attribuire al controllo dei media un valore strategico, e il recente abbandono di ogni parvenza di par condicio in tema di interventi elettorali basta a dimostrarlo.
    Tuttavia, se l’egemonia sui media costituisce condizione necessaria per creare consenso, non è condizione sufficiente. L’Italia non è l’unico paese occidentale in cui, nel campo della comunicazione, esistono condizioni di monopolio pieno, parziale o di fatto. E’ stata l’Unione Europea, e non già il governo italiano, a esigere che le trasmissioni satellitari avessero in Rupert Murdoch (Sky) un gestore unico.
    D’altro lato, si è visto ripetutamente come l’unanimità dei media non sempre riesca a condizionare la società, quanto meno di fronte a scelte di fondo. Ne è esempio recente il rifiuto francese della costituzione neoliberale europea, malgrado infinite pressioni medianiche. E che dire, quanto all’Italia, della ripulsa popolare della guerra all’Iraq, fino a obbligare un’opposizione reticente a farla propria, seppure tra mille ambiguità? Di converso, quando un presunto opinion leader come Giuliano Ferrara, con l’appoggio di quasi tutte le forze politiche e di quasi tutti i media, ha indetto una manifestazione a sostegno di Israele, è riuscito a radunare solo una manciata di simpatizzanti.
    Non basta il potere mediatico a dare ragione delle fortune di Berlusconi, così come non bastano le troppo facili tesi cospiratorie. Bisogna andare più a fondo, il che significa partire da più addietro nel tempo.

    Silvio Berlusconi non ha mai nascosto il proprio debito verso Bettino Craxi, per i molti favori ricevuti dal defunto leader socialista. Il debito andrebbe però esteso ad altri lasciti di natura immateriale. L’epoca dei governi di centrosinistra guidati da Craxi fu quella in cui le classi medie italiane presero coscienza di se stesse e rivendicarono il ruolo propulsivo che, fino agli anni Ottanta, era sembrato appartenere agli operai, usciti vincitori dal lungo autunno caldo ’69-’70.
    Il segnale era venuto dalla marcia dei 40.000 quadri intermedi della Fiat contro l’occupazione della fabbrica, nel 1980. Craxi completò l’opera sfidando direttamente i sindacati sul tema della scala mobile e riportando una vittoria schiacciante. Nello stesso tempo, a partire dal laboratorio di Milano, incoraggiò in ogni maniera l’ascesa di ceti di derivazione medio borghese e impiegatizia, spinti a investire in ambiti non direttamente legati alla produzione, come l’edilizia, le attività di servizio, la borsa; campi nei quali anche capitali modesti, se bene impiegati, potevano condurre a un rapido arricchimento.
    Craxi, malgrado l’ideologia apparentemente diversa, fu l’equivalente italiano di Margaret Thatcher. Come lei indebolì fortemente le organizzazioni operaie, spingendole a politiche di conciliazione con il padronato; come lei agevolò la nascita di una borghesia di nuovo tipo, arrogante, intraprendente, sicura ormai di costituire il cuore della società. Si passò dalla timidezza dei ceti medi inferiori e dall’aristocratica distanza di quelli superiori a esibizioni sguaiate, in una corsa alla ricchezza che attribuiva ogni virtù al vincitore e ogni colpa al vinto. Se non si approdò a un vero e proprio “reaganismo” fu solo perché lo stato sociale non fu manomesso che marginalmente. Solo, si cominciò a metterne in discussione, se non la legittimità, quanto meno l’utilità.

    Simili tendenze rimasero operanti anche dopo che Craxi fu costretto all’esilio e i maggiori partiti politici italiani furono travolti e distrutti dai processi per corruzione. La prima repubblica, a ben vedere, andava stretta proprio ai nuovi ceti medi rampanti, infastiditi da un’intelaiatura istituzionale che, ancora modellata su basi ideologiche “storiche”, non coincideva con la loro spregiudicatezza.
    Nella seconda repubblica fu proprio a quei ceti che si rivolse l’attenzione ossessiva delle forze politiche obbligate a ristrutturarsi. Sinistra e destra abbandonarono connotazioni classiste e retaggi ideali per fare delle classi medie l’unico referente, mentre, sul piano delle scelte internazionali, sopravviveva quale solo orizzonte un Occidente mitizzato, a sua volta visto come paradiso dei ceti medi.
    I governi di centrosinistra della fase post-craxiana fecero ogni sforzo per spostare il risparmio dei cittadini dai tradizionali titoli di Stato al mercato azionario, mentre cercavano di abbellire la nozione di “flessibilità” per renderla appetibile a ciò che rimaneva della classe operaia – e spingerla così al suicidio definitivo. Questo, certo, in obbedienza ai dettami dell’economia mondiale dopo la caduta del muro di Berlino; ma anche quale scelta ideologica propria, conseguente all’opzione per i ceti medi quale primario referente sociale.
    Sotto il profilo culturale, cominciarono rapidamente a essere messi in discussione tutti i parametri su cui la prima repubblica era stata edificata, a iniziare da quello fondante: l’antifascismo. Già Craxi aveva promosso lo “sdoganamento” degli ex fascisti, invitati a partecipare attivamente alla vita politica dopo che avevano, a loro volta, eletto i ceti medi a referente e rinunciato alle asperità della loro ideologia (tipo il discorso antidemocratico, sostituito da un blando autoritarismo di tipo presidenzialista, o l’antisemitismo). Durante i governi di centrosinistra del dopo Craxi si moltiplicarono le rivelazioni di “crimini” antifascisti, a opera di comunisti pentiti, e si fece strada la tesi di una pari dignità di chi, nel 1943-45, aveva combattuto su fronti opposti. Tesi che trovò cordiale accoglienza in ambito accademico e nella pubblicistica corrente.
    Ovviamente, non era nell’interesse di nessuno – nemmeno dei post-fascisti – una piena rivalutazione di Mussolini. Era invece nell’interesse di tutti sommare +1 (antifascismo) a –1 (fascismo), per avere come risultato 0. Bisognava insomma azzerare ogni ideologia, per crearne una nuova, priva di addentellati storici, corrispondente alla richiesta dei nuovi ceti medi. Inclini per natura, come è ovvio, al puro pragmatismo.

    E’ in questo contesto che Berlusconi poté affermarsi quale uomo politico di largo seguito e, nel 1994, accedere una prima volta al governo. Molti rimasero stupiti di come fosse stato capace di costituire il proprio partito praticamente da un giorno all’altro, e attribuirono l’evento al solo potere su televisioni e giornali (questi ultimi peraltro di scarso prestigio, almeno nel caso dei quotidiani). In realtà, Berlusconi intuì meglio di ogni altro che, nel vuoto e nella confusione lasciati dalla prima repubblica, ogni avventura politica era possibile, inclusa la costituzione di un partito fondato su palesi schemi aziendali.
    I quadri che raccolse, oltre che cooptati dal suo stesso impero economico, provenivano proprio da quella classe media “d’assalto” che si era coagulata nei due decenni precedenti e che avvertiva la mancanza di forme di rappresentanza adeguate – rimpolpati da figure secondarie di professionisti della politica sopravvissuti all’ecatombe di “mani pulite”.
    Ciò, come era avvenuto con Margaret Thatcher, provocò il disgusto dei conservatori tradizionali (ben rappresentati, in Italia, dal giornalista Indro Montanelli), che preferirono trarsi in disparte. Non erano più i ceti medi o medio alti a cui si riferivano a esercitare un’egemonia sociale. Era invece una piccola e media borghesia, spesso giovanile, di recente estrazione plebea, priva di solida cultura, dagli appetiti famelici, incline alla volgarità e allo strepito, edonista, spudorata nell’esibire il proprio cinismo.
    Che di “egemonia” si trattasse lo rivelarono i risultati elettorali, in cui si vide che la nuova classe era capace di mobilitare le altre, sia superiori che inferiori, anche contro i loro interessi immediati. Quanto al tessuto ideologico, esso era quanto mai confuso e cangiante. I nemici erano chiari: la “sinistra” (Berlusconi sembra non avere mai annoverato in tale schieramento il suo padre putativo, il socialista Bettino Craxi) e il suo equivalente semantico, “i comunisti”. Dove per “comunisti” devono intendersi anche i più timidi keynesiani, i riformisti all’acqua di rose e persino i liberali e i conservatori di vecchio stampo.
    Quanto alla pars construens, essa era molto meno definita. Si trattava, almeno in origine, di accentuare il liberismo già operante in economia, riducendo ulteriormente le remore poste dallo Stato all’azione imprenditoriale, soprattutto sul piano delle normative e della fiscalità. A ciò, in politica, corrispondeva solo in parte il liberalismo, visto che esso era temperato, da un lato, da una vistosa tendenza al bonapartismo e, dall’altro, da influenze clericali per ciò che atteneva ai diritti civili. La politica estera, per sua parte, era interamente delegata agli Stati Uniti, di cui l’Italia ambiva a essere una sorta di rappresentante in Europa, anche a scapito dei rapporti con gli altri paesi dell’Unione.
    Se vogliamo cercare analogie, le troviamo, bizzarramente, fuori dal vecchio continente, nelle politiche del presidente messicano Vicente Fox. Ma si tratta di un esercizio sterile. In realtà il “modello Berlusconi”, se tale si può definire, non ha base ideologica dai contorni netti. In certi momenti diverrà catalizzatore di ogni tipo di tendenza reazionaria; in altri si colorirà di populismo. Unica costante, la base sociale di cui dicevo, blandita in tutte le maniere, e un perenne pragmatismo, nemico dei progetti di troppo lunga portata.
    Le nuove classi medie, giunte al governo dopo avere schiacciato le vecchie, e con esse tutte le altre classi, adottarono dunque – nel leader carismatico prescelto – il punto di vista dettato dalla loro nascita recente. Insofferenza per le costrizioni istituzionali; ricerca dell’impunità; soddisfazione degli interessi immediati a scapito della nozione di “bene comune”; visione incapace di spingersi nel futuro. Ciò che viene di solito attribuito a Berlusconi, appartiene invece ai ceti di cui questi era ed è espressione.
    Più di recente, alcuni intellettuali di modesta levatura hanno cercato di strutturare questo coacervo di impulsi e di cercare vincoli col pensiero neocon statunitense. Tempo perso. La base che sostiene Berlusconi è irriducibile a un sistema ideologico qualsiasi, e costituisce una specie di “destra apolitica”. In questo senso, e solo in questo, si può parlare di una “nuova destra” in Italia.

    Sotto il profilo culturale, continuò ovviamente la voga revisionista, in sintonia del resto con tendenze restauratrici operanti su scala mondiale. La complicità di parte del mondo universitario fu in questo senso determinante, dato che è nelle università che si elaborano le tesi destinate poi a essere riprese, se in sintonia col clima politico, dagli editorialisti dei media più influenti.
    In Italia ciò assunse le forme – tuttora operanti – di una vera e propria offensiva tesa a ribaltare giudizi consolidati, su momenti storici in cui erano in gioco rapporti di forza. Ancora oggi, nelle università italiane, opera una minoranza molto agguerrita di docenti che riabilita l’Inquisizione contro il libero pensiero, il colonialismo contro le idee di autodeterminazione, i moti reazionari plebei contro i riflessi in Italia della Rivoluzione francese, il franchismo contro la “repubblica dei senza Dio”, ecc. Tesi prontamente riprese e divulgate dai quotidiani, non sempre e solo di destra, e dai (pochi) programmi “culturali” televisivi.
    Naturalmente, cuore di ogni revisione resta il giudizio sull’antifascismo, e cioè sulle idee fondanti della repubblica italiana. Qui si è manifestato con maggior vigore uno dei fenomeni che hanno accompagnato le fortune di Silvio Berlusconi: il “pentitismo” di non pochi esponenti, veri o presunti, della sinistra. Tra i sostenitori del premier si contano a dozzine gli ex comunisti, gli ex antifascisti, gli ex militanti dell’estrema sinistra. Nel campo del revisionismo storico, sono stati costoro a giocare un ruolo fondamentale.
    Un caso tipico è quello del giornalista Giampaolo Pansa. Con un passato di antifascista, collaboratore del settimanale di sinistra (più un tempo che oggi) L’Espresso, si è specializzato in volumi, partoriti a getto continuo, sui “crimini” della Resistenza. La documentazione è dubbia o lacunosa, le imprecisioni sono innumerevoli, ogni episodio è isolato dal contesto. Ma ciò non conta, rispetto allo scopo; che non è rivalutare il fascismo, quanto fare tabula rasa di ogni sistema di valori e di ogni valutazione autenticamente storica, sostituita da una sorta di cronaca nera a posteriori.
    Un sistema già adottato, da parte della sinistra moderata, nei confronti dei sommovimenti sociali degli anni ’70, letti solo in base al concetto di legalità, strappati al quadro temporale, ridotti a fatti di interesse solamente giudiziario – fino ad approdare, nei casi peggiori, alle teorie cospirative che sono il surrogato, in ambito neoliberale, della filosofia della storia.
    E’ triste dirlo, ma la “nuova destra” italiana non sarebbe mai sorta senza il concorso attivo della sinistra.

    Malgrado uno scenario estremamente favorevole, il progetto di Silvio Berlusconi ha raccolto in ambito culturale risultati miserabili. Sono intellettuali di levatura secondaria quelli accorsi al suo appello, commentatori giornalistici e televisivi, divulgatori senza peso che non sia epidermico, spesso strappati agli alleati di destra o agli avversari di sinistra. Appaiono con frequenza ossessiva nei talk show, nelle trasmissioni sportive, nei programmi di varietà. E’ chiaro che la dimensione mediatica è la più confacente a chi è portatore di un pensiero la cui unica base, liberismo economico a parte, è la guerra contro la memoria e contro ogni forma di profondità.
    Ancora peggio è andata a Berlusconi e ai suoi seguaci in ambito letterario. Non vi è in Italia alcuno scrittore di rilievo che si dica “berlusconiano”, a parte il manipolo di ignoti che si ritrova sulle pagine della rivista Il Domenicale, stampata in migliaia di copie che regolarmente rimangono invendute (completamente diverso sarebbe il discorso su chi invece si colloca più a destra di Berlusconi e rifiuta il centrodestra in nome della destra pura).
    Se il calibro mediocre degli intellettuali è sintomatico della non-ideologia di Berlusconi, l’assenza di scrittori alla mensa del premier indica molto di più. Vuole dire che la colonizzazione dell’immaginario degli italiani non è stata totale, visto che non ha coinvolto quanto meno un segmento dei fabbricanti di immaginario. E il discorso potrebbe essere esteso, con differenti articolazioni, a cinema, teatro, arti figurative ecc. Strumenti comunicativi meno immediati della televisione o dei quotidiani, ma capaci di lasciare un’impronta più profonda.
    L’essere “estranei” a Berlusconi, naturalmente, non significa essere “contro”, né avere colto la sostanza ideologica e sociale del suo sistema. Sta di fatto che il mancato controllo dell’ambito letterario e culturale tradizionale, malgrado il possesso di alcune delle principali case editrici (che pubblicano autori ostili al massimo azionista sia per indipendenza propria, sia perché sono i soli richiesti dal mercato), costituisce un fattore di debolezza. A esso Berlusconi non può porre rimedio, perché la cultura “di lunga durata”, con le sue dinamiche, è ignota a lui e alla maggior parte dei suoi collaboratori.
    L’ostilità del mondo culturale e letterario può essere valutata, in tutta la sua pericolosità, solo da chi con essa abbia dimestichezza.

    Silvio Berlusconi è in crisi e la sua caduta, al momento, appare ineluttabile. Non che i nuovi ceti medi che ha saputo rappresentare per alcuni anni siano scomparsi; tutt’altro, la loro egemonia perdura. Solo che, in una fase in cui le possibilità di arricchimento rapido si restringono, manifestano la necessità di qualcosa di più solido di una forma di governo fatta di nulla, priva di programma, di ideologia, di proposte che non siano contingenti, di visioni ampie. Sicuramente quei ceti, all’allievo di Craxi, preferirebbero oggi un nuovo Craxi. In mancanza di meglio, si volgono al centrosinistra.
    Un giorno bisognerà riconoscere che Berlusconi è stato, a suo modo, un “rivoluzionario”. Ha sovvertito la vita politica, la comunicazione, lo Stato, ogni istituzione che ha potuto sovvertire. Ma il suo ruolo ricorda quello che gli agitatori giocano agli inizi di una rivoluzione, salvo essere messi in disparte pochi anni dopo da chi possiede un progetto più duraturo.
    La “nuova destra” italiana, il neoliberalismo, non sono morti, ma certo non hanno più in Berlusconi il loro esponente di punta. Se anche, per miracolo, vincesse nuovamente le elezioni, sarebbe comunque già morto. Ha eretto un sistema fondato sulla finzione, operazione di sicuro successo nel paese che ha dato i natali alla commedia dell’arte e ha un culto per i Pulcinella. Ha reinventato i comunisti per avere un nemico identificabile, ha simulato basi ideologiche per giustificare il proprio empirismo, ha evocato mete chiaramente irraggiungibili credendo di farle concrete attraverso la reiterazione del rituale evocativo, ha spacciato sogni suoi nel tentativo di renderli collettivi. In simultanea – ed è tratto caratteristico – modificava se stesso attraverso ripetuti interventi di chirurgia plastica, nello sforzo (in parte riuscito) di far dimenticare la propria identità di settantenne.
    Di Berlusconi e della sua “insurrezione” neoliberale, dopo l’abbandono da parte dei ceti medi, rimarrà una maschera. Ma con lui non sparirà la “nuova destra” italiana. Al contrario. La destra vera deve ancora venire.

    (Relazione pronunciata a Siviglia, il 27 ottobre 2005, al convegno Nueva derecha: ideas y medios para la contrarrevolución, organizzato dalla rivista Archipiélago e dalla 'Università Internazionale dell'Andalusia - Sezione Arteypensamiento.)



  6. #56
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    Bhè, addio.

  7. #57
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    BodyKnight ha scritto mer, 08 marzo 2006 alle 15:48
    Bhè, addio.

    certo l'hai cercato con il lanternino il ban

  8. #58
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    Predefinito Re: La Biblioteca di BackStage

    nofaxe ha scritto mer, 08 marzo 2006 alle 20:01
    BodyKnight ha scritto mer, 08 marzo 2006 alle 15:48
    Bhè, addio.

    certo l'hai cercato con il lanternino il ban
    Ma quanti anni hai? Sei ?

  9. #59
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    Predefinito Re: La Biblioteca di BackStage

    E` da tempo che voglio farlo, e voglio presentarvi quattro libri, ahime, dello stesso autore, uno dei pochi che sappia guardare alla politica in una maniera lucida, impersonale e storica nel vero senso del termine.

    Massimo Fini - Il vizio oscuro dell'occidente



    Quote:

    «La guerra all'Afghanistan è stata fatta per togliere di mezzo i talebani e occupare quel paese. Ci sono motivi economici. Da anni la statunitense Unocal era interessata alla costruzione di un colossale gasdotto … nel progetto era ed è coinvolta metà dell'attuale dirigenza americana, da Deep Cheney a Condoleezza Rice»

    Massimo Fini



    È all'interno dell'Occidente omologato, all'interno del «delirio occidentale dell'unico modello mondiale», che avverrà lo «scontro vero, il più drammatico e violento: fra i fautori della modernità e le folle, deluse, frustrate ed esasperate, che avranno smesso di crederci».

    Questa, in profonda sintesi, l'essenza del nuovo saggio di Massimo Fini; uno scritto che, alle idee notoriamente anticonformistiche che da sempre hanno caratterizzato il pensiero dell'autore, unisce una lucida, pregevole e fondata, nota critica alla delirante ascesa della politica estera statunitense, diretta all'egemonia mondialista ed alla sempre più ricorrente corsa allo sfruttamento delle risorse che caratterizza il corso del capitalismo globalizzante.

    Per diversi aspetti, ci sembra leggere il continuum di una sua precedente opera [1], ove Massimo Fini criticò radicalmente l'odierna civiltà tecnologica, mettendola a confronto con la quotidianità che scandiva i ritmi della vita nell'ancien regime, giungendo ad avanzare una domanda più che legittima: «si stava meglio quando si stava peggio?».

    Adesso, dopo gli eventi dell'11 settembre scorso, la corsa verso un mondo unico sembra inarrestabile. Tale e tanta è la portata degli avvenimenti che essi, attraverso la potenza tecnologica-militare degli USA, portano a credere che molto presto un mondo omogeneizzato vedrà solamente esseri privi di umanità, circolanti in ogni landa desolata del mondo, diretti a consumare quanto l'ipermarket mondiale dei consumi metterà a disposizione per ingrassare a dismisura l'oligarchia economicista al potere. Come conseguenza logica di tale diktat, M. Fini ritiene che ad una società che impone un modello unico si contrapporrà un «terrorismo unico» (usiamo il termine per comodità di linguaggio) che in tutti i modi cercherà di arrestare, meglio distruggere, la veloce corsa al one world.

    In questo contesto -aggiungiamo noi-, cosa c'è di più folle, di più aberrante: un mondo privo delle sue componenti peculiari e identitarie e reso unico in ogni aspetto attraverso il modernismo, o un «terrorismo» che cerca di arrestare la modernità?

    Ancora: in tale ottica si può parlare di mero terrorismo, un sostantivo usato dalla criminalità capitalistica e giudaico-statunitense, per indicare tutti quanti si oppongono ai loro disegni di egemonia oligarchica?

    Questa sorta di «terrorismo», in più regioni del mondo, però sembra essere l'unica arma rimasta in mano agli oppressi ed ai miserabili, dinnanzi al completo ossequio che la politica delle istituzioni nazionali pone alle irresponsabili richieste della modernità a ogni costo. Richieste non più accettabili!

    «C'è una potenza che ha l'egemonia assoluta -afferma Massimo Fini-, gli Stati Uniti, una superpolizia costituita dalle forze militari americane e, quando occorre, dalla NATO, un Tribunale che si costituisce di volta in volta come Tribunale speciale in modo che i vincitori siano legittimati a processare e condannare i vinti, e c'è un modello economico pervasivo, che è quello occidentale, cui, oltre agli Stati Uniti, partecipano l'Europa, il Giappone, la Russia, presto la Cina e ogni paese industrializzato ...».

    Il modello unico occidentale -che non è affatto una locuzione geografica, bensì un sistema politico-economico che pone al dominio il colonialismo multinazionale- nella sua prassi ha realmente saccheggiato tutte le aree già depresse del pianeta, rendendo ancor più povere le nazioni alle prese con la miseria, a vantaggio del tenore di vita, già grossolanamente smisurato, delle aree preda d'un consumismo esasperato.

    L'Autore, inoltre, compie una analisi molto veritiera e convincente sull'essenza d'un fenomeno complesso, articolato, profondo, qual è l'immigrazione dai paesi poveri verso quelli opulenti - fino a quando? - e ricchi facente parte del modello unico occidentale. Una presunta invasione dei luoghi della Cristianità, dettata dall'Islam integralista, così come tanti cerebrolesi vanno cianciando è in realtà una incommensurabile scemenza, una indefessa menzogna. Una azione politica, se lo è, che può avere spazio solo dentro il circo della politica che regna nella putrescente appendice dell'Eurasia totalmente assuefatta all'impero giudaico-mondialista, grazie alla condotta di miserabili borghesi individualisti,.

    L'immigrazione dai Paesi dell'Africa, dell'Asia, dall'America Latina e negli ultimi tempi dalle nazioni dell'Est europeo, è avvenuta grazie allo sradicamento delle popolazioni causato direttamente dallo sfruttamento, colonialistico prima, capitalistico che ha tolto ogni sussistenza a tali popoli.

    Se il colonialismo ha portato via merci, materie prime ed altro, ai popoli non industrializzati, il capitalismo ne ha cavato l'anima e la vita, diffondendo solo povertà. Prendiamo ad esempio l'Africa. Agli inizi dello scorso secolo essa era autosufficiente per l'alimentazione. «Ma da quando -afferma Fini- ha cominciato ad essere aggredita dalla integrazione economica ... le cose sono precipitate. L'autosufficienza è scesa all'89 per cento nel 1971, al 78 per cento nel 1978».

    Ma in Africa la produzione di cereali è in continuo aumento solo che serve per gli allevamenti animali dell'Occidente e non per sfamare chi li produce. «Perché in un'economia mondiale integrata, di mercato e monetaria, il cibo non va dove ce n'è bisogno, va dove c'è il denaro per acquistarlo. Va ai maiali dei ricchi americani e, in generale, al bestiame dei paesi industriali se è vero che il 66 per cento della produzione mondiale dei cereali è destinato alla alimentazione degli animali dei paesi ricchi. È la legge del mercato e del denaro ...». Ma la crisi del capitalismo non ha portato solo alla completa disgregazione del Terzo mondo; la sua crisi si riverbera anche sull'Occidente industrializzato. La crisi della FIAT in Italia ne è un segnale ben definito; la globalizzazione sta guidando anche l'Italia dal ruolo di Paese profittatore a quello di vittima. «... adesso, con la competizione globale, si rischia che i paesi ricchi si riducano a un pugno, circondati da un mare di miseria». [cfr. p. 26-27]

    Fini analizza l'ascesa dello sfruttamento capitalistico con un pensiero molto profondo, affermando: «Lo sradicamento delle popolazioni del Terzo Mondo produce il fenomeno, inevitabile, delle migrazioni bibliche. Privati della loro storia, delle loro tradizioni, della loro economia, della loro socialità, di quel tessuto di solidarietà, familiare, clanica, tribale che era il loro modo di sopravvivenza e che il modello industriale ha lacerato irrimediabilmente, ridotti a vivere in desolate periferie dell'Impero e con i suoi materiali di risulta, questi uomini e queste donne cercano di raggiungerne il centro».

    Col pretesto dell'«intervento umanitario» gli USA insieme al codazzo delle grandi imprese multinazionali cercano di stabilizzare ulteriormente la loro egemonia, accrescendo la loro ingerenza ovunque. È accaduto nel Medio Oriente, è accaduto nell'ex-Jugoslavia, sta accadendo in Afghanistan e nell'Asia Centrale e con maggiore irruenza nel Golfo Persico con la criminale aggressione alla nazione irachena.

    Ma adesso non abbiamo più nulla da aggiungere, da dire. Ci scusino i Lettori, ci scusi Massimo Fini. È possibile che in questa democrazia antifascista non sarà più possibile criticar l'ordinamento economico neoliberista della globalizzazione, né il capitalismo...

    A meno che non ci si attiri addosso perquisizioni ed avvisi di garanzia.

    Leonardo Fonte

    Note:

    1] cfr. "La ragione aveva torto?", Camunia editrice, Brescia 1985 – IIª edizione, Il Settimo Sigillo, Roma 2000, euro 13,00; disponibile presso la nostra Redazione.

  10. #60
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    Predefinito Re: La Biblioteca di BackStage

    Massimo Fini - Sudditi, Manifesto contro la democrazia

    Quote:
    Per la nostra cultura la democrazia è “il migliore dei sistemi possibili”, un valore così universale che l’Occidente si ritiene in dovere di esportare, anche con la forza, presso popolazioni che hanno storia, vissuti e istituzioni completamente diversi. Fini demolisce questa radicata convinzione. Il suo attacco però non segue le linee né della critica di sinistra, che addebita alla democrazia liberale di non aver realizzato l’uguaglianza sociale, né di destra che la bolla come governo dei mediocri. La “democrazia reale” è un regime di minoranze organizzate, di oligarchie politiche economiche e criminali che schiaccia e asservisce l’individuo, già frustrato e reso anonimo dal meccanismo produttivo di cui la democrazia è l’involucro legittimante.

    Un attacco al vissuto politico della democrazia non da uno dei due poli, ma dall’interno. Infatti quella sperimentata non corrispone a nessuno dei presupposti su cui dice di basarsi. Costituita soprattutto da oligarchie economiche e criminali asservisce ambiguamente l’individuo reso anonimo dal suo manipolante meccanismo. Un addio a tante scontate certezze.

    Democrazia: il grande imbroglio
    Tratto da libro «Sudditi» di Massimo Fini, ed. Marsilio

    Che cos’è, realmente, la democrazia? Quando si cerca di definirla iniziano i guai. John Holmes, uno storico e teorico americano del liberalismo, ha scritto che i critici di destra della democrazia «si autodefiniscono negativamente» in opposizione al liberalismo e alla democrazia. C’è del vero. Ma si potrebbe dire, altrettanto legittimamente, che la democrazia si «autodefinisce negativamente» in opposizione alle dittature. Perché quando si cerca di darle un contenuto positivo, preciso e definito, si entra in un ginepraio.

    Anche se restringiamo il campo alla democrazia liberale, che è quella che qui ci interessa perché è la forma che si è affermata in Occidente, e scartando quindi la democrazia diretta, quella socialista, quella corporativa, quella popolare, ci si trova di fronte a un animale proteiforme, mutante e sfuggente, di cui pare di essere sempre sul punto di cogliere l’essenza che tuttavia ci sfugge.

    (…)

    Cerchiamo da profani, di capirci almeno qualcosa. Democrazia significa, etimologicamente, «governo del popolo». Scordiamoci che il popolo abbia mai governato alcunché, almeno da quando esiste la democrazia liberale. Se c’è qualcosa che fa sorgere nell’anima di un liberale un puro sentimento di orrore è il governo del popolo. Quindi non è tanto paradossale scoprire che se il popolo ha governato qualcosa è stato in epoche preindustriali, preliberai, predemocratiche. Non è necessario andare a scovare, come da Alain de Benoist, remote realtà islandesi come l’Althing, una forma di autogoverno comparsa intorno all’anno Mille, dove «il thing, o parlamento locale, designa nel contempo un luogo e un’assemblea in cui gli uomini liberi detentori di diritti politici eguali, si riuniscono a date fisse per pronunciare la legge». Basta osservare la comunità di villaggio europea in epoche medievale e rinascimentale, prima che lo Stato nazionale si affermasse definitivamente assorbendo tutto il potere. L’assemblea del villaggio, formata da capifamiglia, in genere uomini ma anche donne se il marito era morto o assente, decideva assolutamente tutto ciò che riguardava il villaggio. A cominciare dall’essenziale: la ripartizione all’interno della comunità delle tasse reali e dei canoni che alimentano il bilancio comunale. E poi veniva tutto il resto: nomina il sindaco, il maestro di scuola, il pastore comunale, i guardiani delle messi, i riscossori di taglia, votava le spese, contraeva debiti, intentava processi, decideva la vendita, scambio e locazione dei boschi comuni, della riparazione delle strade, dei ponti, della chiesa, del presbiterio e così via.

    Ma quella era la vecchia, cara democrazia diretta, che non sapeva nemmeno d’esser tale, che non aveva nome né teorizzatori, e che in Francia fu definitivamente spazzata via pochissimi anni prima della Rivoluzione, nel 1787, quando, sotto pressione dell’avanzante borghesia e della sua smania normativa e prescrittivi, un decreto reale, col pretesto di uniformare e regolare un’attività che aveva sempre funzionato benissimo, limitò il diritto di voto agli abitanti che pagano almeno dieci franchi di imposta e, soprattutto, introdusse il principio – che doveva diventare l’ambiguo cardine del potere politico in Occidente – della rappresentanza ) l’assemblea non decide più direttamente ma elegge dai sei ai nove membri…). Lo Stato assoluto reclamava per sé i diritti che quegli zoticoni dei contadini, degli autentici screanzati, si erano permessi di praticare. E poiché lo Stato è troppo grande territorialmente e complesso giuridicamente perché il popolo possa dire direttamente la sua, nacque la democrazia rappresentativa dove il cittadino, formalmente detentore del potere, lo delega a un altro che diventa il suo rappresentante, mentre il rappresentato, retrocesso alla condizione di governato, partecipa al momento decisionale attraverso periodiche elezioni che divengono, di fatto, l’unico momento in cui egli esercita, o si dice che eserciti, quel potere che è suo. E’ quindi all’interno del regime rappresentativo che va posta l’inquietante domanda: qual è l’elemento cardine della democrazia?

    Sarà, forse, il consenso? Niente affatto. Il consenso può esistere anche nelle dittature, come insegnano il nazismo e fascismo, spesso anzi è assai più ampio di quello che i governatori possono ottenere in un regime democratico. Sarà allora il fatto che in democrazia il consenso è spontaneo e nelle dittature coatto? Anche questo è dubbio. Nazismo e fascismo ebbero per un certo periodo un consenso sicuramente spontaneo e volontario. Caduta l’egemonia dell’antifascismo militante, che aveva velato pudicamente per alcuni decenni la vergognosa verità, oggi non c’è libro di storia che non parli degli «anni del consenso» al regime mussoliniano.

    Sono quindi le elezioni? Ma anche in Unione Sovietica, persino in Bulgaria, com’è noto, si tenevano elezioni.

    E’ il pluripartitismo? Max Weber nota – e siamo già negli anni Venti del Novecento – che «l’esistenza dei partiti non è contemplata, da nessuna Costituzione» democratica e liberale. Non possono quindi essere i partiti l’elemento caratterizzante della democrazia liberale che esisteva anche prima della loro istituzionalizzazione.

    Sarà, come alcuni dicono, «il potere della legge»? Ma il potere della legge esiste anche negli Stati autoritari, anzi più uno Stato è autoritario più questo potere è forte e invalicabili. Si obbietterà che negli Stati autoritari la legge è arbitraria e discrimina fra cittadino e cittadino. E’ perciò, allora, «l’uguaglianza di tutti i cittadini davanti alla legge» il clou della democrazia? Ma anche questo nei regimi comunisti i cittadini sono uguali, almeno formalmente, davanti alla legge.

    E allora il principio della rappresentanza? Ma anche il monarca «rappresenta il popolo».

    Sarà dunque, come dice Popper, che la democrazia è quella forma di governo caratterizzato da un insieme di regole che permettono di cambiare i governanti senza far uso della violenza. Neppure questo. E’ storico che nelle aristocrazie il governo può passare da una fazione a un’altra senza spargimento di sangue.

    E si potrebbe andare avanti, per pagine e per decenni, ma non si troverebbe la regola-base della democrazia liberale. Scriveva Carl Becker: «democrazia è una parola che non ha referente, dal momento che non c’è nessuna precisa e palpabile cosa o oggetto al quale tutti pensano quando pronuncia questa parola».

    La democrazia è innanzitutto e soprattutto un metodo. Come ha intuito per primo Hans Kelsen. La democrazia è costituita da una serie di procedure formali, avalutative, cioè prive di contenuto e di valori, per determinare la scelta dei governanti sulla base del meccanismo del prevalere della volontà della maggioranza. Essendo una pura forma priva di contenuti valoriali è fondamentale che almeno questa forma sia rispettata. Ma nemmeno questo, come vedremo, avviene.

    Inoltre, le procedure, seguendo il criterio della maggioranza, possono mutare e mutano nel tempo, a tal punto da potersi trasformare, con mezzi democratici, in un sistema sostanzialmente autoritario. Ma poiché non esiste un’essenza della democrazia, non esiste neppure una vera linea di confine per cui si possa dire con sicurezza che si è passati da un sistema all’altro.

    Un esempio è il fenomeno berlusconiano in Italia – Paese di cui ci serviremo spesso in questo pamphlet, non perché c’interessi particolarmente, dato che il nostro discorso è generale, ma perché esasperando le ipocrisie, le falsità, le menzogne della democrazia le smaschera – dove un solo individuo ha potuto impadronirsi, con mezzi democratici, o comunque senza che le procedure democratiche potessero impedirlo, di un potere enorme.

    (…)

  11. #61
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    Predefinito Re: La Biblioteca di BackStage

    Massimo Fini - La ragione aveva torto

    Quote:
    Illuminismo, Positivismo, Marxismo. Minimo comun denominatore, un’illimitata fiducia nel Progresso. Con argomentazioni inappuntabili, supportate da attendibili documentazioni storiche, Massimo Fini ci dimostra, quanto ed in che modo tale fiducia sia stata disattesa. La ragione aveva torto? Senza cadere in una nostalgica celebrazione dell’età dell’oro, attraverso un accurato confronto con la società industriale, la superiorità dell’ancien regime si rivela schiacciante. Demoliti numerosi luoghi comuni sulla società preindustriale (la fame, la disuguaglianza, l’analfabetismo) l’autore sottolinea le grandi criticità di quella odierna; la perdita del contatto con la natura, l’assenza di istituzioni solide e di rapporti umani, in un mondo in cui si ipoteca il presente nell’ossessione del futuro: “un tempo inesistente”. Confinato in una prigione di alienazione ed insoddisfazione, l’uomo moderno è ormai privo di identità, paralizzato dallo spettro di una morte a cui è impossibile sfuggire; ossessionato fino alla nevrosi dalla necessità del superfluo è condannato alla frustrazione dalla logica inarrestabile del Progresso e del Mercato. (Veronica Gorno)

  12. #62
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    Predefinito Re: La Biblioteca di BackStage

    Massimo Fini - Il denaro, sterco del demonio

    Quote:
    Simbolo orgoglioso della società dei consumi, il denaro si è mosso con tale rapidità da diventare l’autentico perno sul quale poggiano tutte le certezze dell’uomo moderno

    “Una scommessa sul futuro” attraverso la quale proiettare l’esistenza dell’uomo verso un mito inarrivabile, inaccessibile ed inesistente. Con delle sintetiche definizioni come quella sopra citata Massimo Fini disegna la genesi del denaro, analizzandone l’essenza e risvegliando, con pochi e rapidi gesti, la coscienza intorpidita del lettore comune.

    Simbolo orgoglioso della società dei consumi, il denaro si è mosso con tale rapidità da diventare l’autentico perno sul quale poggiano tutte le certezze dell’uomo moderno o dell’homo oeconomicus che dir si voglia. Il problema centrale, individuato e sviluppato nel libro, è che l’essenza stessa del denaro altro non sia che il Nulla; un nulla che ci ha tragicamente investito, trascinandoci verso un mondo slegato dalla dimensione umana e colorato di ansie, programmi e progetti le cui basi sono imposte e regolate dalla nuova religione, quella del profitto.

    Si tratta di un meccanismo perverso che conduce l’uomo a rilanciare quotidianamente sul “domani”, in attesa di un fine, di un senso che non arriveranno mai, poiché scommettere sul futuro significa giocare a favore di ciò che non esiste, di ciò che per la sua stessa intangibilità è giocoforza sentito e percepito come un Dio; con la sostanziale differenza che nel culto religioso l’uomo assume un ruolo privilegiato ( almeno apparentemente ) con l’entità superiore, mentre nel rapporto con il Dio denaro è quest’ultimo a dettar le ragole e non esiste modo di uscire se non chiamandosi fuori dal gioco.

    Ma chi nel XXI secolo ha la forza di seminare dubbi e la coerenza di recitare un ruolo diverso da quella dell’atomo, ha necessariamente ( questo è il punto ) la parvenza di un visionario, di uno scellerato che si astrae dalla realtà e si pone fuori dall’ordine morale della storia. Il tema fondamentale è appunto la posizione dell’uomo, che da padrone del suo destino o quantomeno da persona inserita in contesto sociale definito ed accettato, si è progressivamente spogliato di questa veste per divenire schiavo di logiche astratte, lontane dalla sua dimensione e proiettate verso miti inarrivabili.

    Ciò che sconcerta maggiormente e che nel tracciare le linee guida nella storia del denaro colpisce con forza, è il cambio di prospettive avvenuto nella società.

    Emblematica in questo senso è la citazione di Sismondi il quale a proposito delle carestie che colpirono l’Europa nel XVIII secolo scrive: “ In periodi così dolorosi si è sentito ripetere mille volte che ciò che mancava non era il grano né gli alimenti, ma il denaro. Difatti vasti granai restavano spesso pieni fino al raccolto successivo; le scorte, se ripartite proporzionalmente fra tutti gli individui, sarebbero quasi sempre bastate a nutrire la popolazione. Ma i poveri, non avendo denaro da dare in cambio, non erano in grado di acquistarlo. Essi non potevano ricevere denaro in cambio del loro lavoro o non potevano ricevere abbastanza per vivere. Mancava il denaro mentre la ricchezza naturale sovrabbondava”.

    Uno spot che farebbe rabbrividire tanto la vulgata liberale quanto quella marxista, entrambe figlie dello stesso padre, entrambe legate ad una visione economicista e quantitativa della vita.

    Il denaro, spogliato del suo valore intrinseco quale poteva essere il metallo della moneta, non ha arrestato la sua folle corsa fino a diventare strumento inesistente di valori inesistenti; ha allontanato l’uomo dalla sua polarità, lo ha portato a ragionare per mezzo dei suoi parametri, sconvolgendo il regime qualitativo dell’esistenza in luogo di un modello quantitativo, più consono alla logica del calcolo e della programmabilità.

    Nei numerosi esempi che l’autore ha fornito, illumina come pochi altri la totale inconsistenza di ciò che è attualmente considerato ricchezza: fiumi di capitali e di centinaia di miliardi viaggiano oggi attraverso la rete; viene in questo modo reciso anche l’ultimo filo che legava il denaro all’uomo, quel contatto fisico che nell’epoca degli individui è soppiantato dal regime tecnologico, il quale tutto controlla e tutto meccanicizza.

    Abbiamo mercificato, astratto e reso calcolabile la nostra stessa esistenza, l’abbiamo affidata a degli impulsi elettronici che ci governano e ci rendono schiavi della loro stessa essenza: il futuro, l’intangibile, l’inesistente.

    Il Nulla.

  13. #63

    Predefinito Re: La Biblioteca di BackStage

    Il parassitismo politico e lo Stato
    di Max Nordau


    Per la prima volta dopo la formazione della Terra il genere umano si dimostrò
    una specie di esseri viventi la quale, non trovando più nella natura possibilità
    di sopravvivenza, ne creò in modo artificiale, inventando con la sua mente
    quello che era necessario ad allontanare i pericoli e a facilitare o a rendere
    possibile il soddisfacimento dei suoi bisogni. Un secondo fenomeno, del pari
    nuovo come quello, venne sviluppandosi e collegandosi ad esso: il parassitismo
    nell’ambito della specie.


    Il parassitismo è frequente in natura,
    così nel regno vegetale come in quello
    animale. […] L’uomo però è il solo
    animale che ha la tendenza a vivere
    alle spalle dei suoi simili, di esigere il
    soddisfacimento dei suoi bisogni non
    dalla natura ma da altri uomini, di indirizzare
    i suoi sforzi a sottomettere e
    a sfruttare metodicamente il prossimo,
    piuttosto che non a lavorare e a scoprire
    le risorse naturali.
    La tendenza parassitaria non è certamente
    un istinto originale nell’uomo.
    Essa non si manifesta nelle poche orde
    che possono a tutt’oggi ancora vivere
    in totale ‘stato di natura’ e presso le
    quali, almeno secondo la testimonianza
    degli esploratori, non si conosce la
    schiavitù o qualsivoglia forma di asservimento
    personale, né dominio, né furto,
    né rapina, né assassinio per furto.
    Non esiste negli antropoidi. Né si può
    concepire quel fenomeno fino a che
    la specie trova nella natura le condizioni
    per la propria esistenza. Quando
    quest’ultima si comporta come un cuoco
    o un oste e prepara la tavola tanto
    per uno come per tutti quanti, non
    può sorgere il desiderio di togliere al
    vicino con l’astuzia o con la violenza
    quello che si può prendere senza lotta
    e senza resistenza al banchetto nel
    quale i viveri sono ugualmente accessibili
    a tutti. […] Quando però le condizioni
    esterne divennero sfavorevoli
    per l’uomo primitivo, egli pensò subito
    che gli sarebbe stato più comodo farsi
    mantenere dai propri simili, dato che
    la natura non riusciva più a mantenerlo
    a sufficienza. Il parassitismo sorse così
    nell’umanità sulla base della legge del
    minimo sforzo. Il risultato bell’e pronto
    del lavoro altrui è di consumo più facile
    e più agevole di quanto non lo siano le
    risorse naturali grezze che l’uomo potrebbe
    ricavare dalla natura ed è chiaro
    che occorre un minor dispendio di
    fatica, di attenzione, di perseveranza,
    di ingegno e di abilità nel togliere al
    prossimo gli oggetti che servono all’uso
    dell’uomo piuttosto che a fabbricarli
    da sé, quando il prossimo è più debole,
    più pusillanime e più bonario. […]. La
    difficoltà della lotta per la vita svegliò
    nell’uomo la tendenza al parassitismo,
    che risultava più comodo della lotta diretta
    contro la natura crudele.[…].
    La forma più primitiva e rozza di parassitismo
    è l’aperta violenza: assassinio
    e rapina degli individui singoli, guerra
    contro un’altra tribù o un altro popolo.
    […] Le condizioni sfavorevoli alle quali....



    Per continuare a leggere ... http://brunoleoni.servingfreedom.net/OP/29_Nordau.pdf

  14. #64
    Sbonk
    ospite

    Predefinito Re: La Biblioteca di BackStage

    Fabio Mini- La guerra dopo la guerra (Einaudi, per chi volesse)

    "Il problema è sorto con il tentativo d'imposizione di "leggi" imperiali occidentali in ambiti culturalmente estranei. Gli imperi più longevi si sono sempre ben guardati da tale imposizione. La Cina antica aveva limitato la propria sfera imperiale a ciò che era cinese. Non per magnanimità o lungimiranza, ma per disprezzo di ciò che non lo era.Questo tuttavia aveva evitato che l'imposizione dei propri modelli si estendesse ad ambiti culturali che non fossero in grado di concepirli e capirli. Un fatto che ne ha garantito la sopravvivenza e che è da mezzo secolo in pericolo proprio a causa del tentativo di imposizione sulle minoranze uygure, mongole e tibetane. L'impero romano si è mantenuto in piedi grazie ad una limitata ingerenza nelle culture esterne.(...) La stessa cosa è avvenuta per l'impero persiano.(...) Per la Gran Bretagna, il Giappone e tutte le altre potenze coloniali che si erano invece fatte strumenti e artefici di progetti d'imposizione drastica su culture completamente diverse il risultato è stato sia l'estirpazione e l'annullamento di molte di tali culture sia il fallimento degli stessi imperi dopo nemmeno un secolo di vita."

  15. #65
    TeoN
    ospite

    Predefinito Re: La Biblioteca di BackStage

    Luca Telese - "Cuori Neri"

    www.cuorineri.it

    Telese, giornalista del manifesto, ex-portavoce di rifondazione comunista, giusto per non dar adito direi che non e' un simpatizzante di area, ha ricostruito 21 delitti, ventun casi di omicidi e stragi degli anni di piombo con documenti e interviste a protagonisti e un ottimo lavoro di indagine.

    E' decisamente un bellissimo documento per capire oggi cosa volevano direi quegli anni e sopratutto vederli con gli occhi di oggi, oltre che guardare i protagonisti di oggi com'erano allora e sopratutto, confrontare le posizioni di allora a quelle di oggi.

    Decisamente consigliato a chiunque di qualsiasi schieramento.

  16. #66
    Moloch
    ospite

    Predefinito Re: La Biblioteca di BackStage

    <Come va il Dizionario?> chiese Winston, alzando la voce, per superare il rumore.
    <Va lento, ma va bene> disse Syme. <Sono agli aggettivi . E` un lavoro meraviglioso.>
    S’era come illuminato immediatamente, al solo accenno al Dizionario. Mise di lato la ciotola, prese il pezzo di pane con una mano e il cubo di formaggio con l’altra e si chinò sulla tavola, per non essere costratto a urlare.
    <L’undicesima edizione è la definitiva> disse. <Stiamo dando alla lingua la sua forma finale... la forma che dovrà avere quando nessuno potrà parlare una lingua diversa. Quando avremo finito, la gente come te dovrà impararla di nuovo. Tu crederai che il lavoro consista nell’inventare nuove parole. Neanche per sogno! Noi distruggiamo le parole, invece. Dozzine, ma che dico? Centinaia di parole ogni giorno. Stiamo riducendo la lingua all’osso. L’undicesima edizione non conterrà nemmeno mezza parola che cadrà in disuso prima del 2050.>
    Cominciò a mordere avidamente il suo pezzo di pane, ne inghiottì un paio di bocconi, e poi ricominciò a parlare, col trasporto tipico dei pedanti. La sua faccia magra e scura prese ad animarsi, gli occhi smisero l’atteggiamento ironico e quasi si persero come nell’inseguimento di un sogno.
    <Ah, è davvero una gran bella cosa, la distruzione delle parole. Naturalmente il grosso delle stragi è nei verbi e negli aggettivi, ma ci sono anche centinaia di sostantivi di cui si può fare benissimo piazza pulita. Non è soltanto questione dei sinonimi. Ci sono anche gli antinomi. In fondo, a pensarci bene, che bisogno c’è di mantenere una parola che è soltanto l’opposto di un’altra parola? Una parola contiene il suo opposto in se stessa. Prendiamo la parola buono, per esempio. Se c’è una parola come buono, a che serve una parola come cattivo? La parola sbuono servirà altrettanto bene, se non meglio... perchè costituisce un opposto preciso, mentre l’altra parola non lo costituisce affatto. O ancora, se vuoi qualcosa di meglio, di più forte che buono, che ragione c’è di mantenere una serie di parole imprecise, vaghe, inutili come eccellente, o splendido, o il resto che sai? Plusbuono servirà a dare tutti i significati, ovvero bisplusbuono se ci sarà bisogno di qualcosa anche più forte. Naturalmente noi usiamo già codeste forme, ma nella versione finale della neolingua non ci sarà null’altro al di fuori di esse. Nello stadio finale i significati di bontà e di cattiveria saranno affidati a sei parole soltanto... che saranno in realtà una parola sola. Non vedi la bellezza di tutto questo, Winston? Il primo a pensarci fu G.F., naturalmente> aggiunse dopo un secondo.
    A sentir nominare il Grande Fratello, il volto di Winston tradì una sorta di incolore emozione. Ciononostante Syme sentì subito come una mancanza d’entusiasmo.
    <Non hai ancora capito bene che cos’è la neolingua, caro Winston> disse tristemente. <Anche quando scrivi continui a pensare in archelingua. Ho letto alcuni di quei pezzetti che scrivi di tanto in tanto nel Times. Non c’è male, ma sono traduzioni. Intimamente, non sei ancora riuscito a staccarti dalle convenzioni dell’archelingua, con tutta la sua imprecisione, con tutte le sue inutili sfumature di significato. Non senti ancora la bellezza della distruzione delle parole. Non sai che la neolingua è l’unica lingua del mondo il cui vocabolario s’assottigli di più ogni anno?>
    Winston lo sapeva, naturalmente. Sorrise, in attitudine di condiscendenza, almeno nella sua intenzione, ma non si fidava di parlare. Syme diede un altro morso al suo pezzo di pane nero, lo masticò in fretta e poi riprese:
    <Non ti accorgi che il principale intento della neolingua consiste proprio nel semplificare al massimo le possibilità del pensiero? Giunti che saremo alla fine, renderemo il delitto di pensiero, ovvero lo psicoreato, del tutto impossibile perchè non vi saranno più parole per esprimerlo. Ognuna delle idee che sarà necessaria verrà espressa esattamente da una “unica” parola, il cui significato sarà rigorosamente definito, mentre tutti gli altri significati sussidiari verranno aboliti e dimenticati. Già nell’undicesima edizione non siamo troppo lontani da questi risultati. Ma il processo di riassorbimento delle parole continuerà a lungo dopo che tu e io saremo morti. Ogni anno ci saranno meno parole, e la possibilità di pensare delle proposizioni sarà sempre più ridotta. Anche oggi, naturalmente, non c’è nè ragione nè giustificazione per lo psicoreato. E` tutta questione d’autodisciplina, di verifica della realtà. Ma un bel giorno non ci sarà bisogno nemmeno di questo. La Rivoluzione sarà completata solo quando la lingua avrà raggiunto la perfezione. La neolingua è il Socing, e il Socing è la neolingua> aggiunse con una specie di mistica soddisfazione. <Non hai mai pensato, caro Winston, che per l’anno 2050 nemmeno un solo essere umano sarà in grado di capire il significato d’una conversazione come quella che stiamo tenendo ora?>
    <A meno che...> cominciò Winston esitante, e quindi si fermò.
    Aveva avoto sulla punta della lingua la frase “A meno che non si tratti di prolet” ma si era controllato in tempo, poichè non era troppo sicuro che quell’osservazione fosse del tutto ortodossa. Syme, tuttavia, aveva indovinato quel che Winston voleva dire.
    <I prolet non sono esseri umani> disse con sufficienza. <Nel 2050, e forse anche prima, qualsiasi sostanziale nozione dell’archelingua sarà scomparsa. Tutta la letteratura del passato sarà completamente distrutta. Chaucer, Shakespeare, Milton, Byron... esisteranno solo in neolingua, non soltanto trasformati in qualcosa di diverso, ma sostanzialmente trasformati in qualcosa che contraddice quel che erano prima. Anche la letteratura del Partito si trasformerà. Anche gli slogan si trasformeranno. Come si potrà avere uno slogan, per esempio, come “la libertà è schiavitù” quando il concetto stesso di libertà sarà del tutto abolito? Lo stesso clima del pensiero sarà diverso. Infatti non ci sarà il pensiero così come lo intendiamo oggi. Ortodossia significa non pensare, non aver bisogno di pensare. L’ortodossia è non-conoscenza.>
    “Uno dei prossimi giorni” pensò ad un tratto Winston, afferrato da una profonda convinzione “Syme verrà senz’altro vaporizzato. E` troppo intelligente. Egli vede le cose e le sa esprimere con troppa chiarezza. Il Partito diffida di gente simile. Un giorno scomparirà dalla circolazione. Gli si legge in faccia.”
    Winston aveva finito il pane e formaggio. Si volse un po’ dalla sedia per bere la tazza di caffè. Al tavolo vicino l’uomo dalla voce stridula continuava imperterrito. Una giovane, che forse era la sua segretaria e che volgeva le spalle a Winston, lo stava ascoltando e sembrava approvare entusiasticamente tutto ciò che lui diceva. Di quando in quando Winston coglieva frasi come <Mi sembra che abbiate “proprio” ragione. Sono “proprio” dello stesso parere anch’io!> pronunciate da una giovane voce femminile piuttosto melensa.
    Ma l’altra voce non si fermava un minuto, anche quando questa stava parlando. Winston conosceva l’uomo di vista, ma non sapeva niente di lui, se non che lavorava nel Reparto Amena. Era un tipo di circa trent’anni, con un collo grosso e muscoloso e una immensa bocca mobilissima. Se ne stava un po’ adagiato all’indietro, e, per via della posizione in cui stava, gli occhiali prendevano in pieno la luce e presentavano a Winston soltanto due dischi luminosi senza occhi.
    Quel che più spaventava Winston era che dal torrente di suoni che gli usciva di bocca non si riusciva a distinguere una sola parola. Ad un tratto, però, Winston colse una frase: “Eliminazione totale e definitiva del Goldsteinismo” sbraitata tutt’insieme, in un pezzo solo, si sarebbe detto, come una riga a stampa che fosse stata composta nel piombo senza spazi fra le parole. Il resto era soltanto rumore, un rumore monotono e stridente, un continuo qua-qua-qua.
    Sebbene non fosse possibile udire ciò che l’uomo stava dicendo, non ci potevano esser dubbi sull’effettiva natura del suo discorso. Denunciasse Goldstein o chiedesse misure più energiche contro gli psicocriminali e sabotatori, fulminasse maledizioni contro le atrocità dell’esercito eurasiano, esaltasse il Grande Fratello ovvero gli eroi del fronte di Malabar, non faceva nessuna differenza. Qualsiasi cosa dicesse si poteva esser sicuri che era pura ortodossia, puro Socing. Mentre stava guardando quella faccia senza sguardo con la mascella che si alzava e abbassava freneticamente, Winston aveva come la sensazione che quello non fosse un essere reale ma una specie di fantoccio: non era il cervello dell’uomo che parlava, era la sua laringe. Quel che veniva fuori da lui era materiato di parole, ma non era un discorso nel senso vero e proprio: era un rumore emesso senza la coscienza di produrlo, proprio come il verso di un papero.
    Syme se ne stette zitto qualche minuto, e col manico del cucchiaio si mise a tracciare ghirigori sulla pozza di brodaglia. La voce dall’altro tavole continò con il suo caratteristico rumore da papero, comprensibile anche attraverso tutto il chiasso.
    <C’è una parola in neolingua> disse Smyne <che non so se conosci: sarebbe ocolingo e vorrebbe dire “parlare come un’oca”. E` una di quelle interessanti parole che posseggono due significati contraddittori. Se l’adoperi per un avversario, costituisce un’offesa, se invece la usi per qualcuno con cui vai d’accordo, costituisce una lode.>
    Non ci potevano essere dubbi che Syme sarebbe stato presto vaporizzato, pensò ancora Winston. E lo pensò con una sorta di tristezza, anche se sapeva che Syme lo disprezzava e provava quasi antipatia per lui, e lo avrebbe denunciato, senza scrupoli, come psicocriminale, se avesse avuto la minima ragione di farlo. C’era qualcosa in Syme che non andava. C’era quacosa di cui era sprovveduto: discrezione, quella specia di noncuranza, quella particolare forma di stupidità che evita il pericolo. Non si sarebbe potuto dire che era eterodosso. Credeva nei principi del Socing, venerava il Grande Fratello, godeva delle vittorie, odiava gli eretici e i dissenzienti, e non soltanto con sincerità ma con uno zelo instancabile, con l’essere sempre pronto e al corrente in un modo in cui non lo erano gli altri membri del Partito. Pure c’era qualcosa intorno a lui che metteva in sospetto. Diceva certe cose che sarebbe stato meglio non dire, aveva letto troppi libri, frequentava il Caffè del Castagno, che era un rifugio di pittori e musicisti. Non c’era nessuna legge, nemmeno non scritta, che vietasse di frequentare il Caffè del Castagno, pure il luogo era, in un certo modo, sconsigliabile. I vecchi capi screditati del Partito, prima d’essere vittime del repulisti, usavano raccogliersi lì. Lo stesso Goldstein, si diceva, seppure una qualche decina di anni innanzi, c’era stato visto, qualche volta. Non era difficile prevedere la sorte di Syme. Eppure era un fatto altrettanto certo che se Syme, anche solo per un secondo, avesse potuto capirte quel che passava per la testa di Winston, l’avrebbe istantaneamente denunciato alla Psicopolizia. Lo avrebbero fatto tutti, è vero, ma Syme l’avrebbe fatto più che tutti gli altri. Lo zelo non bastava. L’ortodossia era la non-conoscenza.


    George Orwell
    1984

  17. #67

    Predefinito Re: La Biblioteca di BackStage

    L'industria dell'Olocausto di N. Finkelstein

    "L'Olocausto si è dimostrato un'indispensabile arma ideologica." "L'anomalia dell'Olocausto nazista non deriva dall'evento in sé ma dallo sfruttamento industriale che è cresciuto attorno a esso." "La campagna in corso dell'industria dell'Olocausto per estorcere denaro all'Europa in nome delle 'vittime bisognose dell'Olocausto' ha ridotto la statura morale del loro martirio a quella di un casinò di Montecarlo." Sono solo alcune delle tesi provocatorie sostenute in questo libro da Finkelstein, ebreo americano e figlio di sopravvissuti allo sterminio, che in questo libro mette in discussione due dogmi: l'Olocausto è un evento storico unico ed è il punto culminante di un'odio irrazionale ed eterno dei gentili contro gli ebrei.
    Tanto per dare a Cesare quel che è di Cesare

  18. #68
    Moloch
    ospite

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    Analyzzami sta fava

  19. #69
    Moloch
    ospite

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    Non dicevo al Marchese comunque

  20. #70
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    interessante

  21. #71
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    !!!
    Un domani, in caso di invasione zombesca potrei (potrei) anche leggermeli questi WOTs...

  22. #72

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    Cazzo, mi avete fatto prendere un colpo.

  23. #73
    Il Nonno L'avatar di Edward Green
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    Ma questo thread è antico.

    Cmq qualche nuovo libro da consigliare?

  24. #74
    PinHead81
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    Ma tutti bannati qui dentro?

  25. #75
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    Predefinito Winning in an online-casino - myths and reality

    inutile spot del bot.

    ricordo a tutti(soprattutto ai soliti 3) che lo spam è punito con il ban
    Ultima modifica di abaper; 28-10-10 alle 23:28:31

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