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    Suprema Borga Imperiale L'avatar di StM
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    Predefinito [archivio al 12/09/2006] Sugli scaffali dello scanto c'è...

    Salvo qui un po' di articoli e interventi interessanti da vari topic, per non darli tutti in pasto all'oblìo dell'apocaFUD

    Appena avrò finito io, lascerò la palla a chiunque voglia effettuare la stessa operazione - usate questo topic, eh.

  2. #2
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    Predefinito Re: [archivio al 12/09/2006] Sugli scaffali dello scanto c'è...

    da Pietro Citati sulla riforma Berlinguer

    the_lamb ha scritto gio, 25 maggio 2006 alle 01:16
    Da Repubblica, 8 giugno 2004

    Da Berlinguer alla Moratti: il grande disastro dell'Università

    PIETRO CITATI


    QUALCHE tempo fa, ho assistito a uno spettacolo singolare. Durante una discussione televisiva, il ministro della Pubblica lstruzione, Letizia Moratti, contestata da domande volgari, disse all'improvviso con occhi brillanti e squillanti: «Ma io apprezzo moltissimo la riforma universitaria di Berlinguer. È ottima. È la migliore di tutte». Credo che l'intero paese sia stato scosso da un brivido d'estasi. Non era mai accaduto che un ministro della destra apprezzasse uno della sinistra (e viceversa). Per un istante senza tempo, gli spettatori videro Berlusconi dare un affettuoso colpetto sulla schiena di Prodi, che lo ricambiò con un bacio sulla guancia (così si amano i potenti); i baffetti di D'Alema si intrecciarono con i folti manubri di La Russa; Bossi strofinò le gote mal rasate dal barbiere di Varese con quelle ispidissime di Di Pietro; le sopracciglia di Casini si intrecciarono con quelle di Mussi; Buttiglione discusse intorno all'Essere con Cacciari; Agnoletto accarezzò teneramente Tremonti; e un'aria di quiete, di pace, di amore e di felicità si diffuse in tutta l'Italia.

    ***


    Purtroppo (o per fortuna) questa visione edenica rimase chiusa nelle immaginazioni degli italiani. Letizia Moratti si era illusa.
    La Riforma Berlinguer, approvata qualche anno fa da un ministro incompetente assistito da consiglieri incompetentissimi, era la peggiore che abbia mai funestato le facoltà di Lettere e di Filosofia e i professori ordinari, associati e i ricercatori e gli studenti delle sventurate università italiane. Non sono un professore universitario: ma ho molti amici professori, che insegnano letteratura inglese e francese, filologia romanza e comparatistica, storia antica e letteratura greca e letteratura bizantina.
    Ho chiesto notizie: cosa quasi impossibile, perché in ogni università accadono cose diverse, progetti vengono annunciati e ritirati, ardite cosmogonie costruite e il giorno dopo distrutte, voci attraversano l'aria, vengono sostituite da altre voci, che a loro volta generano voci completamente dissimili; gli studenti terrorizzati non osano più studiare, i professori impauriti e annoiati preparano la lettera di dimissioni. Non pretendo dire cose certe, come un buon giornalista. Vorrei soltanto raccontare al lettore di Repubblica la farsesca e sinistra storia delle facoltà umanistiche italiane negli ultimi anni. Forse Berlinguer è stato soltanto questo: un autore di pochades e vaudevilles neri.
    Credo che il racconto debba incominciare con una notizia. Negli anni passati, le università italiane avevano moltissimi studenti fuori corso: molto più numerosi che nelle università inglesi, francesi e tedesche. Gli studenti salivano a Roma da Lecce, da Bari, da Potenza, discendevano da Civitavecchia o da Terni: alloggiavano in squallide pensioni vicino alla Sapienza, lavoravano come camerieri, dattilografi e pony, amoreggiavano, facevano manifestazioni di destra o di sinistra per il Corso, occupavano l'università, protestavano contro i professori, esaltavano la Roma e la Lazio, si sposavano, tornavano al paese, avevano due o tre figli (che a loro volta si preparavano fin dalla nascita a diventare studenti universitari): senza mai riuscire a dare esami o a laurearsi, e qualche volta a vedere un'aula universitaria gremitissima di folla. Il cuore dell'onorevole Berlinguer era commosso e angosciato. Ma dimenticava due fatti. Il primo è che soltanto nell'università italiana si può ripetere, per trenta volte, lo stesso esame. Il secondo è che era inutile preoccuparsi dei fuori corso. Gli studenti di lettere, laureati in quattro o cinque anni, erano moltissimi. Il loro numero superava quello dei professori richiesti dalle scuole medie, dagli istituti tecnici, o dai licei. Gli studenti fuori corso avrebbero potuto fare i falegnami, gli idraulici, i corniciai, gli elettricisti: professioni nobilissime, difficilissime, e quasi abbandonate dagli italiani.
    Il secondo fenomeno era più recente. All'università si presentavano, come sempre, studenti appassionati e brillanti, che leggevano tutti i libri, frequentavano le eccellenti biblioteche italiane e straniere di Roma, discutevano di Platone e di Hölderlin, frequentavano cinema e teatri, e si nutrivano di pane, mortadella e coca cola. Ma giungevano anche plotoni di studenti che non sapevano parlare. Ignoravano il linguaggio comune, apprendevano qualche termine nuovo dalla televisione, e lo ripetevano senza conoscerne il significato: la lettura del Corriere della Sera o di Repubblica sembrava loro più ardua di quella di Finnegans
    Wake. Quanto a scrivere, nemmeno pensarci. Errori di ortografia, niente sintassi e consecutio temporum, oblio del congiuntivo, incapacità di organizzare o almeno di mettere in fila quelle debolissime idee che baluginavano nelle loro teste, amore travolgente per una parola: discorzzo. Che poi esistesse una cosa chiamata «pensiero», coltivata per secoli da Platone o da Spinoza o da Musil, ecco, questo non l'avevano mai saputo. Si accontentavano di emettere suoni vagamente romaneschi, borborigmi, biascichii, blaterii senza forma né contenuto.
    Davanti a questa situazione drammatica, il ministro Luigi Berlinguer intervenne con la forza, l'impeto e l'ardore di un generale napoleonico. Escogitò il cosiddetto modello tre più due. I suoi consiglieri lo assistettero con la fantasia degli escogitatori di parole incrociate e l'accortezza degli inventori di puzzle e giochi elettronici. Inventarono i «moduli», i«crediti» e i «debiti». Non chiedetemi di spiegarveli. Il principio fondamentale era questo. La laurea breve (in tre anni) doveva essere una specie di liceo prolungato, dove si leggevano, per esempio, i classici greci e latini quasi sempre in traduzione, si offriva una puerile storia della letteratura e della filosofia, si insegnava vagamente qualche lingua straniera. Dopo tre anni, ne conosciamo i risultati. Il livello degli studi si è incredibilmente abbassato. Non si legge più. All'università di Roma La Sapienza, la maggiore d'Italia, un professore che tenga un corso su Shakespeare di circa due mesi non può imporre ai suoi allievi la lettura di oltre duecentocinquanta pagine. L'edizione Arden commentata di Amleto ne comprende 570.
    Il professore non potrà dunque adottarla, mai, a nessun costo, perché il tenero cervello dell'allievo ventenne o ventiduenne rischierebbe di incrinarsi, sciogliersi, putrefarsi, nullificarsi, se venisse sottoposto all'intollerabile peso di trecento pagine in due mesi. Dovrà accontentarsi del nudo Amleto, senza nessuna altra tragedia o commedia, accompagnato da qualche paginetta di critica. Se le pagine adottate fossero duecentocinquantadue, lo studente potrebbe rifiutarsi di leggerle, mentre il direttore del dipartimento avrebbe il dovere di rimproverare, minacciare o punire con le verghe il professore troppo «elitario». Una parte degli studenti non acquista più libri (anche se un Oscar costa 12 euro e un classico di Repubblica o del Corriere 7.90). Pretende di usare soltanto fotocopie, che contengono esclusivamente le poche cose commentate durante le lezioni (82 versi di Shakespeare, 13 della Dickinson, 60 dell' Odissea, un capitolo di Madame Bovary, 30 righe Hölderlin). Ma siccome una minoranza degli studenti italiani è molto più intelligente dei ministri (e spesso dei professori), alcuni si ribellano e pretendono di studiare. Vogliono leggere tutta l'Iliade e l'Odissea e tutte le Metamorfosi di Ovidio e quelle di Apuleio e la Divina Commedia e il Faust e persino i tredici volumi che, nella Pléiade, raccolgono la Comédie humaine di Balzac, e naturalmente Guerra e Pace. Questo è, per fortuna, il paradosso italiano; su cento sciocchi, ci sono sempre sette ragazzi intelligentissimi: molto più fantasiosi e colti degli scrupolosi studenti americani, come dice un amico che insegna anche negli Stati Uniti. Il primo inconveniente, che l'onorevole Berlinguer non ha previsto, è che il sistema della laurea breve non funziona nelle facoltà universitarie. I fuori corso continuano ad accumularsi, nelle tristi pensioncine vicino alla Sapienza e alla Stazione Termini. Nessuno studia, o studia in modo confuso e impreciso: eppure chi ha scelto la laurea breve non riesce a laurearsi, tale è la frammentazione del sistema universitario, la moltiplicazione dei corsi inutili, il groviglio burocratico, il caos, il guazzabuglio e la confusione che la GRANDE RIFORMA ha introdotto nelle cose più usuali. Il secondo inconveniente, molto peggiore, è che la laurea breve non porta a nessun lavoro. In realtà, è una truffa. Non permette di insegnare nelle scuole medie e nei licei: consente, sì, di diventare redattore nelle case editrici, dove nessuno accoglierà mai un ventunenne che ignora la lingua italiana. Permette di fare la guida turistica e il custode dei musei: ma non credo che la richiesta sia grande. Consente una sola cosa: fare concorsi che gli permettano di partecipare a nuovi concorsi che gli apriranno la strada a altri concorsi, che infine gli consentiranno di scrivere, con mano rugosa e tremante, la domanda per un concorso definitivo: la morte. Nemmeno questa volta, forse, la sua richiesta verrà accolta.
    Dopo i tre anni di laurea breve, ci sono i due anni di studio specializzato, che dovrebbero permettere (ma non è sicuro) di insegnare nelle scuole medie e nei licei. Per ora, pochissimi hanno iniziato questo studio; ed è quindi fuori luogo parlarne. Ma ho qualche dubbio. Mi sembra difficile che chi non è riuscito a leggere 252 pagine in due mesi, si trasformi improvvisamente in un eccellente studioso di Pindaro o di Dante o di Rilke. Il risultato della GRANDE RIFORMA è che, in cinque anni, si studierà molto meno e peggio che nel vecchio, mediocre ordinamento universitario di quattro anni.
    Intanto, come una pianta tropicale malefica, la GRANDE RIFORMA estende dappertutto le sue ramificazioni; e fra poco, ce la troveremo in casa, tra le pentole, le stoviglie e i bicchieri. Le diverse università si fanno concorrenza fra loro, per attirare un numero maggiore di studenti, e per riuscirci abbassano sempre più severità degli studi. All'interno di ogni università, il professore di letteratura francese, a caccia di allievi, fa concorrenza a quello di letteratura tedesca, di letteratura inglese, o di storia della filosofia - e il modo migliore, naturalmente, è quello di far leggere soltanto sessanta pagine di Racine e trenta di Molière e dodici versi di Baudelaire, mentre l'ingenuo germanista pretende almeno la lettura integrale delle Affinità elettive (p. 290).
    Il caos, le pretese, la megalomania, le ostentazioni, l'invidia hanno raggiunto il diapason; e i professori trascorrono pomeriggi interi (come accade anche nelle scuole medie) in riunioni, discussioni e litigi interminabili. Una volta, i volumi delle collane di cultura venivano saggiamente adottati: era bello che uno studente conoscesse Curtius o Praz o Duby o Mazzarino, o addirittura Gibbon; ma ora questi classici sono stati sostituiti da librettini che in sessanta pagine spiegano Dante o le Crociate. Tutto ciò contribuisce, come l'onorevole Berlinguer non immagina, alla rapida distruzione dell'editoria di cultura, che qualsiasi governo italiano pretende di amare e proteggere con tutto il cuore. E, infine, come Claudio Magris, i professori fuggono. Non c'è alcuna ragione di restare in un'Università dove l'insegnamento è quasi impossibile. Molto meglio andare in pensione: o scrivere articoli sui giornali, dove non c'è la tre più due; o insegnare negli Stati Uniti, dove ogni professore ha la chiave della biblioteca e può entrarvi alle sette di mattina o alle due di notte, togliendo amorosamente i libri dagli scaffali con le proprie mani e studiando quello che vuole, quando vuole, come vuole, mentre nel campus illuminato dalla luna i galli neri e bianchi si inseguono con frenesia.

    * * *


    Non contenta delle imprese distruttive del suo predecessore, Letizia Moratti sta preparando progetti forse ancora più spettacolari. Mi duole di non poter essere preciso: perché, nell'argomento dell'Università, nulla è sicuro: tutto oscilla, vaga, si contraddice, con la consistenza delle nuvole rosee e grigie nel cielo tempestoso di aprile. Quello che dico oggi, domani non è più vero. Il ministro non sa quello che prepara il suo ufficio studi. Gli psicologi sabotano i pedagoghi. La Camera ignora quello che sta legiferando il Senato. Berlusconi ignora quello che pensa Tremonti: e tanto più Prodi che, nei suoi viaggi incessanti tra Bruxelles e Roma, medita certamente una nuova, grandiosa GRANDE RIFORMA, che comprenderà in sé tutte le riforme passate e future, tutte le riforme possibili e inverosimili, tentate in ogni paese del mondo. Mi limito a indicare non so se due progetti di leggi o due voci. La prima è che, da qualche parte, in un oscuro armadio barocco della Camera o del Senato, giace un progetto secondo il quale al 3 + 2 si sostituirà (o si congiungerà) l' 1 +4. Tutte le facoltà avranno un anno di corsi comuni - sociologi dei buchi neri, scienza azteca, letteratura khmer, ermeneutica della televisione, psicologia della settima età, propedeutica al sesso orale, Che Guevara e il mito classico, arte e tecnica del terrorismo, Bush e Bin Laden, metafisica di Umberto Bossi -; dopo il quale gli studenti decideranno quale facoltà scegliere. La seconda è che la laurea breve (tre anni) condurrà a due anni abilitanti: in questi due anni, non si insegnerà niente. Si insegnerà a insegnare. Alcune migliaia di pedagoghi, psicologi, teorici dell'età evolutiva, apprenderanno agli allievi le arti, i trucchi, i vezzi dell'educazione.
    Dopo questi due anni, gli studenti della laurea breve, senza sapere niente e aver letto pochissime fotocopie, andranno ad insegnare nelle medie e nei licei italiani; e così via, all'infinito, secondo un processo di decadenza che non avrà più fine. Più preoccupante è l'ipotesi che riguarda gli studenti della laurea specialistica: perché dopo tre anni di laurea breve, due anni di laurea specialistica, dovranno (forse) affrontare altri due anni abilitanti. Totale: sette anni di studi quasi completamente vani.
    Non vorrei accusare soltanto Luigi Berlinguer e Letizia Moratti. Sebbene siano nulli, sono (in parte) innocenti. Tutte queste demenze universitarie dipendono anche dagli ultimi trenta (o quaranta) anni di folle benessere e folle stupidità europea e americana. Andiamo alle Seychelles, alle Maldive, a Samoa, in Antartide, passiamo il fine settimana nella seconda, quarta o quinta casa, assistiamo alle trasmissioni in cui dodici genii discutono di cose che ignorano completamente, o otto uomini politici cercano di sedurre gli elettori con programmi che farebbero bene a nascondere. Tutti credono che la democrazia sia l'immensa facilità ! I bambini non debbono stancarsi: gli studenti universitari non debbono leggere - e mai, mai, mai, cose difficili. Proibiti, Platone, Plotino, i Vangeli, san Paolo, Pascal, Dostoevskij, Proust, Musil. Proibito camminare a piedi. Proibito nuotare. Proibito guardare il mondo senza macchine fotografiche o cineprese.
    Come ha scritto giorni fa Federico Rampini in un bell'articolo su Repubblica, i cinesi e gli indiani la pensano diversamente. Studiano cose difficilissime: fanno ricerche, moltiplicano i brevetti. Gli americani (che sono, malgrado la nostra infantile supponenza, molto meno sciocchi di noi), sono preoccupati. Mentre le fabbriche e i lavori più elementari si spostano in Oriente, l'unico strumento dell'Europa è l'estrema esattezza e precisione della mente (spero anche dell'anima). Le lauree brevi, i corsi abilitanti, la facilità generale distruggono la poca precisione rimasta. Se le riforme Berlinguer e Moratti non troveranno ostacoli, fra qualche anno non i cinesi e gli indiani ma gli abitanti del Gabon e della Nigeria insegneranno storia antica, letteratura francese e tedesca nelle nostre Università: lingua e letteratura italiana ai licei. A me piacerebbe moltissimo: ma non so cosa ne pensino gli attuali studenti di lettere. Intanto, cogli occhi spalancati sul televisore, gli italiani continueranno a fantasticare se Prodi sia meglio di Berlusconi, o Berlusconi di Prodi.

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    Da Repubblica, 23 maggio 2006

    Dalla riforma Berlinguer alle iniziative della Moratti
    Distrutta ogni probabilità che l'Italia formi un'élite moderna
    Finanziamenti, crediti, laurea breve: perché i nostri Atenei sono al collasso

    di PIETRO CITATI


    Negli ultimi sessanta anni, in Italia, sono accadute molte catastrofi: alluvioni, terremoti, inondazioni. Ma la catastrofe di gran lunga più grave è stata la cosiddetta Riforma Berlinguer, immaginata otto anni fa dal governo presieduto da Romano Prodi. Gli italiani, che hanno la memoria brevissima, se ne sono dimenticati: ma gli studenti, i professori, il paese ne subiscono il terribile effetto, che andrà moltiplicandosi nei prossimi anni. Mi riferisco alle facoltà di tipo umanistico: non a quelle a carattere sopratutto tecnico.
    La Riforma Berlinguer ha distrutto e sta continuando a distruggere la probabilità che in Italia si formi quella che chiamiamo un'élite moderna. Non voglio ripetere cose notissime: ma senza un'élite colta e intelligente un paese non vive, non si sviluppa, non si arricchisce.

    Senza un'élite, un paese è votato alla rovina: specialmente nei nostri anni, quando l'attività industriale si è in buona parte trasferita in Cina o in India, dove si sta diffondendo una cultura specializzata già superiore, per certi versi, a quella italiana. Ma all'onorevole Berlinguer, circondato dal suo radiosissimo alone di gloria, non importa nulla della nostra classe dirigente.
    La catastrofe si preparava da anni. Ricordo un mediocre studioso di diritto romano lamentarsi dolorosamente, in qualche raduno televisivo, della mortalità universitaria. Non riuscivo a capire. Pensai che la Peste, o il Colera, o il Tifo, o l'Aids, o Ebola, avessero spopolato i folti banchi della Sapienza. Lo specialista di diritto romano rassicurò il pubblico: no, Ebola non era arrivato fin qui. Il danno era molto più grave. Gli studenti universitari non terminavano le facoltà che avevano iniziato: innumerevoli fuori-corso languivano nei tristi corridoi delle università italiane. Il professore sbagliava. Che soltanto il venti o il trenta per cento degli studenti di lettere giungessero alla laurea era un fatto positivo. Se si fossero laureati tutti, l'Italia avrebbe conosciuto una disastrosa disoccupazione scolastica. Così, invece, decine di migliaia di giovani ritornavano a Barletta o a Fabriano o a Alba o a Sanremo: vi aprivano un negozio di verdure o di formaggi o di tartufi o una piantagione di garofani, e trascorrevano volentieri il resto della vita, con nella memoria un vago ricordo di Omero, di Saffo e di Erodoto.

    Mi chiedo se, alcuni anni dopo l'applicazione della Riforma Berlinguer, si possa fare qualcosa per diminuirne le conseguenze negative. Il primo fatto, generalmente riconosciuto, è che il corso minor di tre anni non serve a niente: dopo tre anni, lo studente non sa quasi nulla: non può insegnare nelle medie e nei licei; non gli resta (se ha imparato una lingua) che fare la guida turistica o lavorare in un'agenzia di viaggi, eventualmente aggiungendo ai tre anni universitari un master privato inutile e costoso.

    Intanto, il complicato meccanismo di crediti e moduli, che regge l'insegnamento secondo il modello americano, ha dimostrato la propria inefficienza. Gli esami si sono triplicati: il lavoro dello studente è aumentato; salvo che egli impara pochissimo, perché non si può insegnare qualcosa di decoroso su Shakespeare o Petrarca nel corso di poche settimane. Non è possibile che La Sapienza di Roma stabilisca che, durante un modulo, uno studente non debba leggere più di 200 pagine (testi compresi), per evitare che le sue energie psico-cerebrali e quelle dei genitori e della fidanzata vengano irreparabilmente logorate ed esaurite. Il sistema dei moduli va limitato o reimmesso nel vecchio equilibrio degli esami annuali, che era molto più efficace. Forse andrebbe ricordato che l'uggioso edificio universitario, con le grandi aule squallide, i melanconici corridoi, le scale sbrecciate, ha un solo aspetto positivo: che vi si studi.

    Dopo i tre anni di insegnamento minore, gli studenti dovrebbero affrontare i due anni di insegnamento specialistico: dico dovrebbero, perché coloro che li hanno abbracciati sono, per ora, pochi. Dopo i due anni di specialistica, può avvenire un concorso. Chi lo vince, diventa dottorando per tre anni, e riceve un piccolo stipendio. Ma dopo i tre due tre = otto anni di studio, la sua carriera è bloccata. Il dottorando è costretto a diventare, attraverso vari gradini, professore universitario. Ma se, all'Università, non ci sono posti liberi? O se egli preferisce insegnare nei licei? Questo gli è severamente proibito: i dottorandi, vale a dire i più colti e intelligenti tra gli studenti italiani, non devono insegnare nei licei, che pure avrebbero bisogno di loro.

    C'è soltanto una possibilità. Seguire altri due anni di corsi di didattica: cosa assolutamente idiota, perché per imparare a insegnare basta un corso di due mesi, congiunto con la disposizione naturale per l'insegnamento, senza la quale nessuno diventerà mai professore. Non voglio nascondere che questo è un discorso puramente fantastico, perché per il dottorando non esistono, oggi, né posti nell'università né nei licei. Egli non troverà lavoro. Non farà niente. A meno che una vasta moria (la quale pare prevista dal nostro profetico Ministero) renda libere migliaia di cattedre.

    Mi piacerebbe raccontare quali nuove cattedre l'onorevole Berlinguer e i successori e i funzionari ministeriali e i rettori di università e i presidi di facoltà e i direttori di dipartimento hanno inventato. Sappiamo che nelle università americane c'è la cattedra di gelato artigianale, di cappellini per signore, di jeans per ragazzi e ragazze, di sandali per i tropici, di computer applicati all'analisi letteraria, di retto uso dei pannolini, di bella conversazione e di corteggiamento erotico. Va benissimo. Quella non è università. Ma non sarebbe inutile ridurre radicalmente il numero delle cattedre insensate, che oggi vengono aperte nelle università italiane.

    Una recente circolare del Ministro Moratti prescrive che i professori universitari devono fare almeno centoventi ore annue di lezioni frontali. C'è di nuovo, almeno per me, la difficoltà di capire. Cos'è una lezione frontale? Secondo i dizionari, frontale vuol dire: relativo alla fronte come parte anatomica: con la fronte rivolta verso chi osserva: visto di fronte: che avviene nella parte anteriore di uno schieramento militare: sezione realizzata secondo piani perpendicolari all'asse dorso-ventrale: facciata di una chiesa: mensola di un caminetto: piastra di ferro che chiude il fondo di un camino: parte della briglia che passa sulla fronte di un cavallo: antico ornamento femminile (cerchietto o nastro o filo di perle): parte dell'elmo; parte di metallo o di cuoio che copre la fronte del cavallo. Infine, quasi spossato dalla fatica ermeneutica, trovai nel Dizionario della lingua italiana di Tullio De Mauro (Paravia) la spiegazione giusta: frontale è un metodo di insegnamento, nel quale il professore siede in cattedra, di fronte ai suoi allievi. Non amo molto l'insegnamento frontale: può essere agevolmente sostituito dalla lettura di un buon libro.

    La vera lezione, sebbene rivolta a non più di trenta studenti, è il cosiddetto seminario: soltanto nel seminario, compiuto in comune, il professore insegna agli studenti a leggere un testo, cercando insieme a loro le fonti e le allusioni e interpretandone le superfici e i segreti. Ma centoventi ore annuali di insegnamento frontale sono troppe: un vero professore deve leggere e studiare per conto proprio; ciò che esige infinito tempo e pazienza. Un ministro o un funzionario ministeriale o un preside pensano che questo sia inutile. È bene, invece, che un professore passi mattine e pomeriggi espletando del lavoro burocratico completamente assurdo, che il Ministero (visionario come tutti i Ministeri) gli impone.

    Un'altra origine di insensatezza è la distribuzione dei finanziamenti, da parte del Ministero, alle diverse università. I criteri sono molti, e non posso elencarli tutti. Basterà ricordare che la qualità della ricerca è un criterio molto meno importante di criteri esterni, come per esempio il possesso di computer. L'Università Orientale di Napoli è il luogo che, in Italia, dedica più attenzione allo studio delle civiltà orientali. Quale importanza (anche pratica) abbia, oggi, lo studio delle lingue e culture araba e cinese, non è necessario ricordare. Ma l'Università Orientale ha anche una sezione "occidentale": un professore di questa sezione ha da poco espresso la seguente opinione: l'Università deve essere più ancorata ai bisogni del territorio; vale a dire, suppongo, che l'Orientale, invece di studiare il buddismo o il manicheismo, dovrebbe dedicarsi allo studio psico- sociologico della camorra a Caserta e Castellamare di Stabia.

    Come è naturale, gli studenti che imparano la lingua e la letteratura persiana o turca sono meno numerosi di coloro che apprendono la letteratura italiana o inglese. Ma il Ministero provvede. Per il Ministero, non ha alcuna importanza che l'Università Orientale possegga una biblioteca di 200.000 volumi antichi, continuamente aggiornati, e che eccellenti studiosi vengano da Parigi o Tübingen a parlare ai giovani orientalisti. Ciò che è grave è che gli studenti siano relativamente pochi rispetto ai professori. L'Orientale va dunque punita per eccesso di serietà. Infatti, l'anno scorso, il Ministero dell'Istruzione ha tolto quattro milioni di euro al finanziamento dell'Orientale: una catastrofe. Così l'imprecisione, l'inesattezza, la cialtroneria, la demagogia - questo è per molti italiani la cultura moderna - si diffondono. Non saranno né imprecisi né inesatti i cinesi e gli indiani che, un giorno, verranno a colonizzare la cultura universitaria italiana.
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    Accattatevilli. Un paio di cose, da parte mia:
    * Citati qui parla della situazione della Sapienza di Roma, che da questo e altri commenti mi pare essere particolarmente drammatica: non so se i suoi "numeri" siano iperboli ma alla Statale di Milano, per quanto si riscontrino molti dei problemi di cui parla (in primis il casino enorme con orari e organizzazione e il fatto che per approfondire bene le cose non c'è che fare studi extra-curricolari - mentre ti mettono il fuoco al culo per giunta) non si sfiorano neanche tali livelli di pochezza. Le opere complete si fanno, altroché. Magari non in tutti i corsi, ma quelli messi peggio sono sempre evitabili. è pur vero che parlo di Filosofia e non di Lettere, ma anche lì non mi risulta quanto detto.
    * Condivido in toto l'esagerazione assurda sul falso problema dei fuori-corso; aggiungo giusto che, per male che possa andare una carriera universitaria, il solo fatto di spostarsi in un'altra città e di doversi arrangiare è un'irripetibile occasione di crescita. è così negativo?
    * Condivido soprattutto la visione di una "cultura delle coccole"; sembra incredibile come la società italiana sembri diventare "mammona" in ogni sua manifestazione.
    * Nonostante il nome di ministri e politicanti assortiti, meglio sarebbe non farne una discussione politica, visto anche che è fuori area.
    * Magari ci sarebbero altre cose, ma se lo posto qua e non in BS è anche per non sentirmi vincolato al commento. Eccheccazzo.

    Vediamo se riusciamo a mettere in piedi una discussione alla Scanto come si facevano una volta. Orsù.

    (buona notte)

  3. #3
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    Predefinito Re: [archivio al 12/09/2006] Sugli scaffali dello scanto c'è...

    da "Charles Lutwidge Dodgson"

    Valfuindor la Maia ha scritto sab, 10 settembre 2005 alle 16:49

    questo signore è meglio noto alle cronache con il suo pseudonimo, vale a dire Lewis Carroll; per le questioni biografiche, vi rimando qui
    l'opera più nota è senza dubbio "Alice's adventures in Wonderland", soprattutto grazie all'adattamento a cartoni della disney. grazie neppure tanto, perché oltre a decontestualizzare molte vicende che comparirebbero nel secondo dei libri di Alice: "Through the looking-glass and what Alice found there", riduce l'opera a mera favola per bambini. in realtà, il racconto è solo il velo che cela la logica carrolliana agli sguardi superficiali e si potrebbe usare come prova la rivista Jabberwocky (dal 1998 ha cambiato nome in The Carrollian) edita a partire dal 1969 dalla Lewis Carroll Society, dedicata allo studio metodico sui lavori dello scrittore inglese.
    ho trovato illuminante la versione dei due libri di Alice comprensiva delle note a margine di Martin Gardner, "The annotated Alice - the definitive edition", aggiunta delle modifiche apportate in "The more annotated Alice" (reperibile a 11€ su play.com). ritengo sia una lettura necessaria per comprendere appieno il lavoro di Carroll, partendo dagli svariati nonsense per arrivare alla psicologia dell'autore stesso.

    tanto per capire...

    chapter 2 - The pool of tears
    [...]I’ll try if I know all the things I used to know. Let me see: four times five is twelve, and four times six is thirteen, and four times seven is—oh dear! I shall never get to twenty at that rate! However, the Multiplication Table doesn’t signify: let’s try Geography.[...]
    spiegazione di Gardner
    The simplest explanation of why Alice will never get to 20 is this: the multiplication table traditinally stops with the twelves, so if you continue this nonsense progression-4 times 5 is 12, 4 times 6 is 13, 4 times 7 is 14 and so on-you end with 4 times 12 (the highest she can go) is 19-just one short of 20
    spiegazione di A.L. Taylor
    Four time 5 actually is 12 in a number system using a base of 18. Four times 6 is 13 in a system with a base of 21. If we continue the progression, always increasing the base by 3, our products keep increasing by one until we reach 20, where for the first time the scheme breaks down. Four times 13 is not 20 (in a number system with a base of 42), but "1" followed by whatever symbol is adopted for "10".
    personalmente, ho trovato che più proseguo nella lettura delle due opere sotto quest'ottica, più mi appare allucinata ed allucinante. mentre la prima gioca più su dialoghi e situazioni assurde, la seconda è basata sulla logica alterata nel nonsense. il masterpiece delle poesie nonsense di Carroll è, probabilmente, Jabberwocky (guardate qui per le debite spiegazioni, traduzioni, etc)

    conoscendo in modo più approfondito questi lavori, non riesco a non pensare quanto siano allucinati ed allucinanti nella geniale mancanza totale di un senso apparente, risultando in realtà perfettamente logici. normale che American McGee ne abbia tratto il suo Alice, no?


    è basilare conoscere anche John Tenniel, illustratore dei due libri


  4. #4
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    Predefinito Re: [archivio al 12/09/2006] Sugli scaffali dello scanto c'è...

    da "Dibattito sul pensiero politico di Hegel" (questo non l'ho letto, a dire il vero )

    Emack ha scritto mer, 05 ottobre 2005 alle 23:45
    Facendo ordine tra vecchi cd (evento più unico che raro), sono incappato in un backup della directory "documenti" datato "Maggio 2003". In preda ad un attacco di curiosità frammista a nostalgia, ho cominciato a mettere il naso tra gli affari informatici dell'emack di oltre due anni fa. Ho trovato questo vademecum, scritto da me in non so quale occasione scolastica, a proposito di Hegel.
    Ho pensato che forse sarebbe stato utile per qualcuno, o per far nascere una discussione a riguardo, così ho postato il pezzo.
    Prendete un caffé prima di leggere.


    1.0 - Introduzione

    1.1 – Cenni Storici e Note Biografiche

    Georg Wilhelm Friedrich Hegel visse tre momenti storici cruciali, che definirono il volto politico dell’Europa ottocentesca: la Rivoluzione Francese, l’Età Napoleonica e la Restaurazione.
    Egli maturò le proprie idee circa uno Stato ideale quando Napoleone era al potere, osservando l’efficienza con la quale veniva ristabilito l’ordine (dopo il terrore giacobino) e intuendovi un intervento divino. Considerava dunque la monarchia costituzionale come la fase più alta cui potesse aspirare lo Stato perfetto, e mirava con soddisfazione l’esempio della Prussia, che, a suo dire, racchiudeva in sé la compiutezza, la dimostrazione empirica di tutte le sue teorie.
    Hegel nutriva la più profonda ammirazione per l’ordine, per la sistematizzazione delle funzioni statali (ricordo che i criteri di nazionalizzazione e di controllo ispirarono i provvedimenti legislativi ed amministrativi che investirono anche la politica territoriale e determinarono mutamenti nell'organizzazione della città; in quei medesimi anni si avviarono le operazioni per la prima catastazione condotta con criteri moderni), che erano proprie del regime napoleonico. Al tempo stesso, il condottiero d’Ajaccio rappresentava il nemico della dissolutezza Borbonica, colui che avrebbe dovuto portare la rivoluzione (e la conseguente monarchia costituzionale) in tutt’Europa.
    Non v’è allora da meravigliarsi se lo stesso Hegel scrisse al suo amico Immanuel Niethammer, dopo la caduta di Napoleone, “ecco che tutta la putredine risale alla superficie”, riferendosi alla corruzione di costumi, di etica (per lui fondamentale nella costituzione di uno Stato) che sarebbe “tornata” con la ventura Restaurazione. Egli assunse così un atteggiamento da conservatore, che gli valse innumerevoli attriti con molte personalità politiche della sua epoca e di quelle successive.

    1.2 – Lo Stato Hegeliano

    Lo Stato è l’affermazione ultima dell’unità della famiglia, in una dimensione amplissima e di valenza più complessa e articolata. Esso è il crogiuolo tra il principio della famiglia (la cui vita è caratterizzata dall’etica e da un sentimento di comunione) e quello della società civile (privo di qualsivoglia giustificazione etica e dai connotati meramente giusnaturalistici), inserito però in prospettive totalizzanti, rappresentando l’estrema incarnazione dello spirito oggettivo. In questo modo, risulta che la volontà del singolo diviene realmente libera (poiché identifica i suoi fini particolari con lo spirito universale, oggettivato nello Stato) ed emancipata (poiché realizza che gli stessi individui esistono grazie allo stato), ma deve sottostare alla legge. Egli dunque supera il contrattualismo (che sappiamo identificate con la società civile), e viene ad affermare che il cittadino si identifica con le leggi perché consapevole che esse sono l’espressione, il mezzo per cui libertà oggettiva (della comunità) e libertà soggettiva (dell’individuo) si uniscono.
    Secondo Hegel, quindi, lo stato deve mantenere un ordinamento monarchico – costituzionale (diviso in tre poteri: legislativo, governativo e principesco), perché quello liberale è emblema di confusione tra società civile e stato stesso (il popolo, fuori da uno stato forte, sarebbe soltanto una “moltitudine informe”) e riduce quest’ultimo a semplice tutore dei particolarismi della prima, e perché quello democratico, con la sovranità popolare, devia le masse dalla concezione etica di stato (ecco perché si schierò contro i Reform Bill britannici).
    Infine, lo Stato stesso è sovrano ma non dispotico, assume formalmente le sembianze di uno “stato di diritto” (retaggio Kantiano) senza però essere liberale né democratico.
    Ed è da qui, da quest’ultimo assunto, che ha origine la polemica con i pensatori successivi, tra cui Karl Popper e Norberto Bobbio.



    2.0 – Le interpretazioni della critica

    2.1 – Hegel portavoce della Restaurazione?

    Chi ha da subito attaccato Hegel è stato uno dei suoi primi biografi, Rudolf Haym. Poggiava la sua invettiva su due fronti: il primo, era la concezione politica estremamente conservatrice del filosofo di Stoccarda (il suo Stato era del tutto identico al modello prussiano); il secondo, era il presunto carattere ossequioso che questi nutriva nei confronti della Prussia, e, per tal ragione, era da considerarsi un filosofo della Restaurazione.
    Se il primo punto fu superato repentinamente da Erich Weil, il quale sostenne e dimostrò che lo Stato di Hegel era più avanzato di quello prussiano, per ottenere una contestazione diretta e precisa s’è dovuto aspettare l’intervento di Jacques D’Hondt. Questi, sebbene ammettesse che Hegel insegnò effettivamente durante il periodo della Restaurazione, affermò che quegli, in Prussia, non avrebbe potuto restaurare nulla, perché nulla era cambiato durante l’età napoleonica. Inoltre, l’aspra polemica con Ludwig Von Haller (autore di “Restaurazione delle Scienze Politiche”), che caldeggiava per l’appunto le tesi restaurative, è emblema di quanto Hegel fosse contrario “a un ritorno al passato” (e lo ha scritto in una delle note dei “Lineamenti della filosofia del diritto”). Altro argomento contrario alle affermazioni di Haym costituì inoltre l’epistolario, di cui un estratto ho già citato nel paragrafo 1.1 (a proposito del ritorno dei Borboni).

    2.2 – Hegel “progressista”?

    Colui che diede di Hegel un’immagine “progressista” fu Ritter, il quale capovolse completamente le tesi di Haym. Al contrario di quest’ultimo, infatti, affermava che Hegel era un vero e proprio rivoluzionario, un autentico intellettuale partigiano. E, ad appoggiare tale tesi, fu Karl Ilting, il quale annunciò di aver scoperto una sorta di schizofrenia nel comportamento hegeliano, leggendo alcuni suoi appunti. Infatti, egli avrebbe appoggiato, in pubblico, la restaurazione (per non incappare nella censura del governo prussiano), e in privato la democrazia e il liberalismo. Ancora oggi, nonostante le critiche di Bobbio (che riporterò più avanti), vi sono degli intellettuali favorevoli a tale interpreatazione, tra cui il succitato professor D’Hondt, che però pone forti limitazioni al concetto di un “Hegel liberale”, alludendo ai diversi “livelli” di liberalità dell’epoca. Però non si può trascurare il pensiero di Norberto Bobbio a proposito di ciò: “Hegel non è reazionario ma non è neppure, quando scrive la Filosofia del Diritto, un liberale: è puramente e semplicemente un conservatore in quanto pregia più lo stato che l’individuo, più l’autorità che la libertà, più la coesione del tutto che l’indipendenza delle parti, più il vertice della piramide (il monarca) che la base (il popolo)”.

    2.3 – La critica di Popper

    Karl Popper, forte promotore dei sistemi di governo “aperti”, dove il popolo e l’individuo rivestono grande importanza, distrusse Hegel su molteplici aspetti del suo corpus di scritti e del suo pensiero. A livello formale, infatti, non gli riconobbe una benché minima parte di originalità e talento. Il suo giudizio, espresso nel secondo volume de “La società aperta e i suoi nemici: Hegel e Marx falsi profeti”, era il seguente: “Ma, per quanto riguarda Hegel, non penso neppure che fosse un uomo di talento. Egli è uno scrittore indigeribile e, come anche i suoi più ardenti apologisti devono ammettere, il suo stile è "indiscutibilmente scandaloso". E, per quanto riguarda il contenuto dei suoi scritti, egli è eccelso solo nella sua eccezionale mancanza di originalità. Non c'è nulla negli scritti di Hegel che non sia stato detto meglio prima di lui. Non c'è nulla nel suo metodo apologetico che non sia stato preso a prestito dai suoi predecessori apologetici”. E rincara la dose, recuperando le accuse di Haym e asserendo che “questi pensieri e metodi presi a prestito da altri egli li consacrò, con convergenza di intenti, ma senza particolare brillantezza, a un solo scopo: combattere contro la società aperta e così servire il suo datore di lavoro, Federico Guglielmo di Prussia”.
    Quest’ultimo punto in particolare, fu oggetto di discussione: se un individuo è libero quando si riconosce in organismi etici che trascendono il suo stesso essere (famiglia e stato), allora perché, allineandosi alla prospettiva dello stesso individuo, si è condannati ad essere semplice “sub-stantia”, materia sulla quale fondare lo Stato, visto che non si potrà mai raggiungere la ragione “reale” essendo questa d’esclusiva appartenenza allo Stato? Per Popper il sistema hegeliano è un ossimoro in termini, e per di più v’è l’aggravante di voler imporre norme rigide al comportamento umano. Per cui l’accusa di totalitarismo diviene ineluttabile ed inesorabile.

    2.4 – La critica di Bobbio

    Pur senza dimostrarsi un detrattore della retorica di Hegel, Norberto Bobbio (vincitore, guarda caso, del Premio Hegel per la filosofia) lo inserisce, similmente con quanto fatto da Gadamer, in un contesto storico molto più ampio rispetto a quello considerato dai precedenti critici. A detta di Bobbio, Hegel ha sbagliato i tempi, tanto più che il suo Stato, nonostante sia garante formale della libertà individuale e nonostante non voglia rivelarsi dispotico, è in netta collisione con le trasformazioni socio-politiche in atto nell’Inghilterra vittoriana, volte a conferire maggiori responsabilità elettorali al popolo, facendolo intervenire sempre più attivamente nella vita politica della nazione.



    3.0 – L’ascendente di Hegel sulle generazioni future

    3.1 – Gadamer

    Gadamer, ignorando il dibattito sulla posizione politica di Hegel, si interessa invece dell’eredità intellettuale che lasciò.
    Indubbiamente, v’è da considerare una grandissima novità: la scissione tra “destra” e “sinistra”. Hegel, fu un grande fautore del pensiero di “sinistra”, e caricò dunque di significati filosofici (e di giustificazioni morali) il suo schieramento, tanto che poi “esplosero” nelle epoche successive. Gadamer appoggia le tesi di Ilting, riportando in auge il comportamento “bipartisan” del filosofo. “In particolare, nella sua filosofia del diritto, Hegel aveva spiegato con molto acume l’importanza delle norme giuridiche per la vita della società civile (borghese) e dello Stato; ma a causa della sua posizione di professore a Berlino e forse anche per motivi molto più profondi, egli appoggiò sempre la monarchia costituzionale. Ciò suscitò, naturalmente, l’opposizione del nascente movimento democratico tedesco”. Scherzo del destino, Hegel fu molto più conosciuto dalla destra che dalla sinistra.
    Altro aspetto da considerare è l’influenza che esercitò Hegel su cultura e scienza. Sebbene non riconosciutegli, si devono a lui molte concezioni e assiomi sulla storia e sulla società. “Tutti i grandi nomi dello Storicismo devono a Hegel molte loro concezioni, come ad esempio la prospettiva dell’incidenza delle idee sulla realtà storica, che ritroviamo soprattutto in Dilthey e in un ottimo studio del suo allievo Erich Rothacker. L’eredità hegeliana si riflette in modo inconfutabile nella nostra terminologia tedesca: in Germania le discipline estranee alle scienze naturali vengono dette “scienze delle spirito”. Il significato di questa espressione risale appunto a Hegel, che da un lato si richiama alla terminologia cristiana dello “Spirito Santo”, e dall’altro allude alla diffusione dello “spirito oggettivo” nella cultura e dello “spirito assoluto” nella religione. È dunque chiaro che l’influsso di Hegel non ha avuto toni così fortemente polemici, o comunque non solo polemici: ancora oggi è in atto una lenta rinascita dell’interesse per la filosofia della natura dell’Idealismo tedesco”.
    Hegel è, dunque, la chiavarda del pensiero ottocentesco, in bilico tra un passato illuminista e un futuro socialista e positivista.

  5. #5
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    Predefinito Re: [archivio al 12/09/2006] Sugli scaffali dello scanto c'è...

    da "Natura Vs. Cultura, un opinione"

    JimmyPage ha scritto sab, 11 marzo 2006 alle 18:38
    IL PUZZLE NATURA-CULTURA
    Quanto una persona sia religiosa, progressista o conservatrice, dotata per le lingue, è parzialmente ereditabile. Eppure anche i geni sono influenzati dall'ambiente. E allora? Sono sufficienti le risposte delle neuroscienze e la ridefinizione di 'ambiente' come 'cultura dei pari?

    di STEVEN PINKER


    [tratto da “Micromega” di settembre-ottobre 2005, pp. 110-126]

    Durante buona parte del XX secolo, una posizione comune in questo dibattito [natura vs. cultura] era quella di negare che la natura umana esistesse affatto [...] La dottrina secondo cui la mente è una tabula rasa non è stata solo una posizione essenziale del behaviorismo in psicologia e del costruzionismo sociale nelle scienze sociali, ma ha avuto anche vasta diffusione nella vita intellettuale più ampiamente condivisa.

    [...]

    Se nulla nella mente è innato, allora le differenze tra le razze, i sessi e le classi non potranno mai essere innate, facendo così ella tabula rasa l'ultimo caposaldo contro il razzismo, il sessismo e i pregiudizi di classe. Inoltre, questa dottrina escludeva la possibilità che caratteristiche ignobili quali l'avidità, i pregiudizi e l'aggressività scaturissero dalla natura umana e quindi offriva speranze di progresso sociale illimitato.

    [...]

    Ma la scienza cognitiva ha dimostrato che devono esserci meccanismi innati complessi che permettono all'apprendimento e alla cultura di essere in primo luogo possibili. La psicologia evoluzionista ha documentato l'esistenza di centinaia di universali che oltrepassano le barrire tra le culture del mondo e ha dimostrato che molti tratti psicologici (quali il nostro amore per i cibi grassi, lo status sociale e le relazioni sessuali rischiose) si adattano meglio alle esigenze evolutive di un ambiente ancestrale che a quelle dell'ambiente attuale. [...] La genetica comportamentista ha dimostrato che il temperamento emerge presto e rimane piuttosto costante per tutto il corso della vita; che buona parte delle varianti tra le persone all'interno di una cultura deriva dalle differenze nei geni e che, in alcuni casi, geni particolari possono essere legati ad aspetti della cognizione, del linguaggio e della personalità. La neuroscienza ha dimostrato che il genoma contiene un ricco corredo di fattori di crescita, molecole guida dell'assone e molecole di adesione cellulare che contribuiscono a strutturare il cervello durante lo sviluppo, oltre ai meccanismi di plasticità che rendono possibile l'apprendimento.

    [...]

    Natura e cultura, naturalmente, non sono alternative. L'apprendimento stesso deve realizzarsi attraverso uno schema di circuiti innato e ciò che è innato non è una serie di rigide istruzioni per il comportamento ma piuttosto programmi che assorbono informazioni dai sensi e danno vita a nuovi pensieri e nuove azioni. […] Inoltre, poiché la mente è un sistema complesso composto da molte parti interagenti, non ha senso chiedersi se gli esseri umani sono egoisti o generosi o cattivi o nobili in senso assoluto. Essi sono piuttosto stimolati da motivazioni contrastanti nate in circostanze diverse. E se i geni influenzano il comportamento, non lo fanno andando a muovere i muscoli, ma mediante gli intricati effetti che esercitano sullo schema di collegamenti di un cervello in crescita.

    […]

    La biologia evoluzionista ci dà ragioni per credere che esistono universali speciespecifici sistematici, modi circoscritti in cui i sessi si differenziano l’uno dall’altro, variazioni quantitative casuali tra gli individui e poche se non alcuna differenza tra razze e gruppi etnici. Questa riformulazione della natura umana ci offre anche un modo razionale di affrontare le paure politiche e morali della stessa. L’eguaglianza politica, per esempio, non si basa su un dogma secondo il quale le persone sono innatamente indistinguibili, ma sull’impegno di trattarle come individui in ambiti quali l’educazione e il sistema di giustizia criminale.

    […]

    Ormai gli scienziati respingono sia la dottrina del XIX secolo secondo la quale la biologia è destino, sia quella del XX secolo per la quale la mente è una tabula rasa. […] Tutto il comportamento è frutto di un’inestricabile interazione tra eredità e ambiente durante o sviluppo, quindi la risposta a tutte le domande su natura-cultura è: «Un po’ di tutte e due». […] Inoltre, la biologia moderna ha reso obsoleta la stessa distinzione tra natura e cultura. Poiché un dato patrimonio di geni può avere effetti diversi in ambiti diversi ci può sempre essere un ambiente in cui un effetto dei geni previsto può invece essere ribaltato o cancellato; quindi i geni non impongono costrizioni significative al comportamento. In effetti, i geni sono espressi in risposta a segnali ambientali, quindi non ha senso cercare di distinguere geni e condizioni ambientali; farlo è solo di ostacolo a una ricerca produttiva. […] Questa dottrina, che chiamerò di interazionismo olistico, ha un fascino considerevole.

    […]

    Il punto non è che sappiamo che l’evoluzione o la genetica sono importanti per spiegare questi fenomeni [relativi al comportamento], ma che la stessa possibilità è spesso trattata come tabù innominabile piuttosto che come un ipotesi sperimentabile. Per ogni domanda su natura e cultura, la risposta esatta è: «Un po’ di tutte e due». Non è vero. Perché la gente in Inghilterra parla inglese e la gente in Giappone parla giapponese? Il «compromesso ragionevole» sarebbe quello di dire che la gente in Inghilterra ha dei geni che rendono loro più semplice imparare l’inglese e che la gente in Giappone ha dei geni che rendono loro più semplice imparare il giapponese, ma che entrambi i gruppi devono avere in primo luogo accesso a una lingua per poterla acquisire. Questo compromesso è, naturalmente, non ragionevole ma falso, poiché vediamo che quando i bambini hanno accesso a una data lingua, la acquisiscono allo stesso modo a prescindere dalla loro origine razziale. Anche se le persone possono essere geneticamente predisposte ad apprendere il linguaggio, non sono geneticamente predisposte, nemmeno in parte, a imparare una lingua particolare; la spiegazione del perché le persone in paesi diversi parlano in modo diverso è al 100 per cento ambientale.
    A volte l’estremo opposto si rivela corretto. Gli psichiatri di solito davano la colpa di una psicopatologia alle madri. L’autismo era provocato da «madri di ghiaccio», che non coinvolgevano i figli dal punto di vista emotivo, e la schizofrenia da madri che sottoponevano i figli a un doppio vincolo. Oggi sappiamo che l’autismo e la schizofrenia sono altamente ereditabili, e anche se non sono completamente determinati dai geni, gli altri fattori plausibili (quali le tossine, gli agenti patogeni e gli incidenti durante lo sviluppo) non hanno nulla a che fare con il modo in cui i genitori trattano i propri figli. Le madri non meritano di vedersi addossata parte della colpa se i loro figli soffrono di questi disturbi, come implicherebbe il compromesso natura-cultura. Non ne meritano alcuna.

    […]

    Questo sembra essere un compromesso interazionista ragionevole che non potrebbe assolutamente generare controversie. Ma in realtà viene da uno dei libri più discussi degli anni Novanta, La Bell Curve di Herrnstein e Murray. Qui, Herrnstein e Murray hanno riassunto il loro argomento secondo il quale la differenza nei punteggi del test sul quoziente di intelligenza tra neri americani e bianchi americani ha cause sia genetiche che ambientali. La loro posizione - «un po’ di tutte e due» - non li ha protetti dalle accuse di razzismo e dai paragoni con i nazisti. Né ha, naturalmente, stabilito che la loro posizione fosse corretta: come per la lingua che una persona parla, il divario medio nel quoziente di intelligenza tra i neri e i bianchi potrebbe essere al 100 per cento ambientale. Il punto è che in questo e in molti altri campi della psicologia, la possibilità che l’ereditarietà abbia un ruolo esplicativo è ancora causa di controversie. L’effetto dei geni dipende in modo cruciale dall’ambiente, quindi l’ereditarietà non impone costrizioni sul comportamento. Vengono di solito usati due esempi per illustrare questo punto: razze diverse di grano possono arrivare ad altezze diverse quando sono irrigate in modo uguale, ma una pianta della razza più alta può crescere di meno se viene privata dell’acqua; e i bambini oligofrenici, un disturbo ereditario che porta al ritardo mentale, possono diventare normali se viene loro somministrata una dieta povera dell’amminoacido fenilalanina.

    […]

    Nello stesso tempo, è fuorviante chiamare in causa la dipendenza dall’ambiente per negare l’importanza di comprendere gli effetti dei geni. Per cominciare, non è semplicemente vero che qualsiasi gene può avere qualsiasi effetto in un ambiente, con l’implicazione che possiamo sempre progettare un ambiente per produrre qualsivoglia risultato riteniamo valido. Anche se alcuni effetti genetici possono essere annullati in alcuni ambienti, non lo sono tutti: gli studi che misurano sia la similarità genetica che quella ambientale (come gli schemi di adozione, dove possono essere paragonate le correlazioni con i genitori adottivi e biologici) mostrano numerosi effetti principali di personalità, intelligenza e comportamento. […] Inoltre, la mera esistenza di un qualche ambiente che possa ribaltare gli effetti previsti dai geni è quasi priva di significato. Solo perché ambienti estremi possono distruggere un tratto non significa che la gamma ordinaria degli ambienti modulerà quella caratteristica, né significa che l’ambiente possa spiegarne la natura. Anche se le piante di granoturco non irrigate possono seccarsi, non cresceranno arbitrariamente alte se verranno loro date sempre maggiori quantità d’acqua. Né la loro dipendenza dall’acqua spiegherà perché genereranno spighe di grano invece di pomodori o pigne. […]

    In breve, l’esistenza di mitigazioni ambientali non rende senza conseguenze di effetti dei geni. Al contrario, i geni specificano quali tipi di manipolazioni ambientali avranno quali tipi di effetti e a quale prezzo. […] Peter Singer osserva che gli esseri umani normali in tutte le società manifestano un senso di compassione: una capacità di trattare gli interessi di altri alla stregua dei propri. Sfortunatamente, le dimensioni della cerchia morale alla quale viene estesa questa compassione sono un parametro a piacere. Per definizione, la gente prova compassione solo per i membri della propria famiglia, del clan o del villaggio, e tratta chiunque si trovi al di fuori di questa cerchia come inumano. Ma in alcune circostanze la cerchia può espandersi ad altri clan, tribù, razze o perfino specie. Un modo importante, allora, di capire il progresso morale è specificare le molle che spingono le persone a espandere o contrarre le loro cerchie morali. […]
    I geni sono influenzati dall’ambiente e l’apprendimento sociale richiede l’espressione di geni, quindi la distinzione natura cultura è priva di significato. È, naturalmente, nella natura dei geni che essi non siano attivi tutto il tempo ma vengano espressi e regolati da una varietà di segnali. Questi segnali possono a loro volta essere innescati da una serie di input, tra i quali la temperatura, gli ormoni, l’ambiente molecolare e l’attività neurale. Tra gli effetti di espressione genica ambientalmente sensibili ci sono quelli che rendono possibile l’apprendimento stesso. Abilità e ricordi sono immagazzinati alla sinapsi come mutamenti fisici e questi cambiamenti richiedono l’espressione di geni in riposta a schemi di attività neurale[/i].
    Queste catene causali non rendono, a ogni modo, obsoleta la distinzione natura-cultura. Ciò che fanno è costringerci a ripensare la superficiali equazione di «natura» uguale geni e di «cultura» uguale tutto anziché geni. I biologi hanno notato che la parola «gene» ha accumulato parecchi significati nel corso del XX secolo. Tra questi, un’unità di eredità, una specificazione di una parte, la causa di una malattia, un modello di sintesi proteica, un fattore di sviluppo e un obiettivo della selezione naturale.
    È fuorviante, quindi, identificare il concetto prescientifico della natura umana con «i geni» e considerare chiuso l’argomento, con l’implicazione che l’attività genetica dipendente dall’ambiente prova che la natura umana è indefinitamente modificabile per esperienza. La natura umana è legata ai geni in termini di unità ereditarie, di sviluppo e di evoluzione, in particolare quelle unità che esercitano un effetto sistematico e durevole sui collegamenti e la chimica del cervello. Tutto ciò è distinto dal più comune uso del termine «gene» nella biologia molecolare, vale a dire in riferimento a eliche di dna che codificano una proteina. Alcuni aspetti della natura umana possono essere specificati all’interno di portatori di informazioni diversi dai modelli proteici, tra cui il citoplasma, regioni non codificanti del genoma che influenzano l’espressione genetica, proprietà dei geni a parte la loro sequenza (per esempio il loro imprinting), e aspetti dell’ambiente materno coerenti dal punto di vista transgenerazionale che il genoma si aspetta, perché è stato modellato in tal senso dalla selezione naturale. Di contro, molti geni dirigono la sintesi di proteine necessaria per la quotidiana funzione metabolica (come la cicatrizzazione delle ferite, la digestione e la formazione dei ricordi) senza incarnare il concetto di natura umana.
    Anche i vari concetti di «ambiente» devono essere ridefiniti. Nella maggior parte dei dibattiti su natura-cultura, la parola «ambiente» si riferisce in pratica ad aspetti del mondo che costituiscano l’input percettivo verso la persona e sul quale altri esseri umani hanno un certo controllo. Esso comprende, per esempio, i riconoscimenti e le punizioni che vengono dai genitori, l’arricchimento precoce, i modelli di ruolo, l’educazione, le leggi, l’influenza dei pari, la cultura e i comportamenti sociali. È fuorviante confondere l’«ambiente», nel senso dell’ambiente psicologicamente rilevante, con l’«ambiente» nel senso di ambito chimico di un cromosoma o di una cellula, specialmente quando quell’ambito stesso consiste nei prodotti di altri geni e quindi corrisponde più strettamente al concetto tradizionale di eredità. Ci sono ancora altri sensi di «ambiente», quali le tossine nutritive e ambientali. Il punto non è che un senso sia quello principale, ma che si dovrebbe cercare di distinguere ognuno dei sensi e di caratterizzarne precisamente gli effetti.

    […]

    Molti aspetti dell’ambiente, per esempio quelli che influenzano direttamente i geni piuttosto che influenzare il cervello attraverso i sensi, provocano contingenze del tipo «se… allora…» geneticamente specificate che non conservano le informazioni nella causa immediata stessa. Tali contingenze sono molto diffuse nello sviluppo biologico, dove molti geni producono molti fattori di trascrizione e altre molecole che danno il via a successioni di espressione di altri geni. Un buon esempio è il gene PAX6, che produce una proteina che dà l’avvio all’espressione di 2.500 altri geni, che danno come risultato la formazione dell’occhio. Risposte genetiche altamente specifiche possono anche verificarsi quando l’organismo interagisce con il suo ambiente sociale, come quando un cambiamento di status sociale in un pesce ciclide maschio dà l’avvio all’espressione di più di 50 geni, che a loro volta alterano le sue dimensioni, la sua aggressività e la risposta allo stress. Tutto ciò ci ricorda sia che l’organizzazione innata non può essere identificata con una mancanza di sensibilità nei confronti dell’ambiente sia che le risposte all’ambiente sono spesso non specificate dallo stimolo ma dalla natura dell’organismo.

    […]

    I genetisti comportamentismi hanno posto rimedio a tali mancanze con studi su gemelli e figli adottivi, e hanno scoperto che, in effetti, praticamente tutti i tratti comportamentali sono in parte (anche se mai completamente) ereditabili. Vale a dire che alcune variazioni tra individui all’interno di una cultura devono essere attribuite a differenze nei loro geni. La conclusione deriva da ripetute scoperte che dimostrano come gemelli identici allevati lontani l’uno dall’altro (condividendo i geni ma non l’ambiente familiare) sono molto simili; che gemelli identici ordinari (che condividono l’ambiente e tutto il corredo genetico) sono più simili dei gemelli fraterni (che condividono l’ambiente ma solo la metà dei geni variabili); e che i fratelli biologici (che condividono l’ambiente e metà dei geni variabili) sono più simili dei fratelli adottivi (che condividono l’ambiente ma nessuno dei geni variabili). […] Naturalmente, tratti comportamentali concreti che dipendono palesemente da un contenuto fornito dalla famiglia o dalla cultura – la lingua, la religione, il partito – non sono assolutamente ereditabili. Ma i tratti che riflettono talenti e temperamenti fondamentali – quanto una persona sia brava a parlare una lingua, quanto sia religiosa, progressista o conservatrice – sono parzialmente ereditabili. Perciò i geni hanno un ruolo nel rendere le persone differenti dai propri vicini e i loro ambienti giocano un ruolo ugualmente importante.
    A questo punto si è tentati di concludere che le persone sono modellate sia dai geni che dall’educazione familiare: da come sono state trattate dai genitori e in che tipo di famiglia sono cresciute. Ma la conclusione è ingiustificata. La genetica comportamentista ci permette di distinguere due modi molti diversi attraverso i quali gli ambienti in cui vivono le persone potrebbero influenzarle. L’ambiente condiviso è quello che influisce su una persona e ugualmente sui suoi fratelli: i genitori, la vita familiare e i vicini. L’ambiente unico (non condiviso) è tutto il resto: qualsiasi cosa accada a una persona che non succeda necessariamente ai fratelli di quella persona.
    È notevole che la maggior parte degli studi sull’intelligenza, la personalità e il comportamento rivelino pochi, se non alcun effetto da parte dell’ambiente condiviso – spesso con sorpresa degli stessi ricercatori, che pensavano fosse ovvio che la variazione non genetica dovesse venire dalla famiglia.

    […]

    La scoperta che l’ambiente familiare condiviso ha poco o nessun effetto durevole sulla personalità e l’intelligenza è scioccante per l’opinione tradizionale secondo la quale l’educazione modella la personalità stessa. Getta dei dubbi su forme di psicoterapia che cercano nell’ambiente familiare le radici di una disfunzione in un adulto, sulle teorie che attribuiscono l’alcolismo, il fumo e la delinquenza nei giovani a come questi sono stati trattati nella prima infanzia e sulla filosofia degli esperti di educazione secondo la quale la microgestione parentale è la chiave di un figlio ben inserito. Le scoperte sono talmente controintuitive che si potrebbe dubitare della ricerca genetica comportamentista che vi ci ha condotto se non fossero corroborate da altri dati.
    I figli di immigrati finiscono con l’adottare la lingua, accento e costumi dei loro pari, non dei loro genitori. Grandi differenze nelle pratiche di allevamento dei bambini – madri che si affidano a babysitter contro madri che rimangono a casa, singola babysitter contro molteplici, genitori dello stesso sesso contro genitori di sesso diverso – hanno scarso effetto duraturo quando altre variabili sono controllate. L’ordine di nascita e la condizione di figli unici hanno scarsi effetti sul comportamento fuori di casa. E un ampio studio teso a valutare la possibilità che i figli possano essere modellati da aspetti unici nel trattamento da parte dei genitori (in contrasto con modalità in cui i genitori trattano tutti i figli allo stesso modo) ha dimostrato che le differenze di educazione all’interno di una famiglia sono effetti, non cause delle differenze tra i figli.

    […]

    Lo sviluppo della personalità – le idiosincrasie emotive e comportamentali di una persona – pone una serie di interrogativi distinti da quelli sollevati dal processo di socializzazione. I gemelli identici che crescono nella stessa casa condividono geni, genitori, fratelli, gruppo di pari e cultura. Anche se sono molto simili, sono lungi dall’essere indistinguibili: secondo la maggior parte dei test, le correlazioni tra i loro tratti caratteriali sono nell’ordine dello 0,5. L’influenza dei pari non può spiegare le differenze, perché i gemelli identici hanno quasi sempre in comune i gruppi di pari. Invece, l’inspiegata variazione nella personalità getta una luce sul ruolo della mera casualità nello sviluppo: differenze casuali nella fornitura di sangue prenatale ed esposizione a tossine, agenti patogeni, ormoni e anticorpi; differenze casuali nella crescita o nell’adesione di assoni nel cervello in sviluppo; eventi casuali nell’esperienza; differenze casuali nel modo in cui un cervello stocasticamente funzionante reagisce agli stessi eventi dell’esperienza. Sia le spiegazioni del comportamento popolari che quelle scientifiche abituate a chiamare in causa i geni, i genitori e la società, raramente riconoscono l’enorme ruolo che fattori imprevedibili devono giocare nello sviluppo di un individuo.

    […]

    Lo sviluppo degli organismi deve utilizzare complessi «circoli di retroazioni» piuttosto che schemi prespecificati. Eventi casuali possono alterare le traiettorie di crescita, ma le traiettorie stesse sono confinate all’interno di un ambito di schemi funzionanti per la specie. Queste profonde questioni non riguardano il problema natura contro cultura. Riguardano la cultura contro la natura: riguardano quali siano, precisamente, le cause non genetiche della personalità e dell’intelligenza.

    […]

    Il cervello è stato definito l’oggetto più complesso dell’universo conosciuto. Senza dubbio le ipotesi che contrappongono natura a cultura facendone una dicotomia o che mettono in relazione geni o ambiente con il comportamento senza guardare all’intervento del cervello si riveleranno semplicistiche o sbagliate. Ma quella complessità non significa che si debbano confondere le questioni dicendo che è tutto troppo complicato da pensare o che alcune ipotesi dovrebbero essere trattate a priori come ovviamente vere, ovviamente false o troppo pericolose per farne parola. Come per l’inflazione, il cancro o l’effetto serra, non abbiamo altra scelta che cercare di districare le molteplici cause.
    ----------------------------------

    chiedo scusa per avere deturpato e decurtato l'articolo, ma ho dovuto copiarlo manualmente dalla fonte;
    ritengo tuttavia di aver riportato tutti i passi salienti, abbastanza per poter afferrare il senso e i risultati del pezzo



    JimmyPage ha scritto mar, 14 marzo 2006 alle 17:40
    Per la cronaca, per chi volesse approfondire l'argomento - ma vedo che non sono molti - lo stesso autore lo affronta più compiutamente in un bel libro, che sto leggendo, dal titolo "Tabula Rasa. Perché non è vero che gli uomini nascono tutti uguali".


  6. #6
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    Predefinito Re: [archivio al 12/09/2006] Sugli scaffali dello scanto c'è...

    da "Stralci (e frammenti, va')"

    Il mio topic sui lavori incompiuti non è stato un gran successo... meno male, vorrà dire che la maggior parte delle persone riescono a portare a compimento le loro opere ^_^

    Alcuni dei frammenti postati li ho messi in "pensieri, parole...", ma questi due non sapevo dove metterli... li parcheggio qui.

    Emack ha scritto sab, 27 marzo 2004 alle 23:34
    In effetti quante volte ho cominciato a scrivere e poi mi son fermato, per via di un'ispirazione non ben veicolata in un sistema preciso!

    Ecco, posto qui di seguito l'inizio di uno pseudoromanzaccio cyberpunk.

    - Uno -

    “Se vuoi far ridere Dio, raccontagli i tuoi progetti”


    From: Giuseppe “jAcK t. RiPpEr” Amoruso
    To: GianGiacomo “SeriousJJR” Rossi
    Sent: September 29, 2:52 AM
    Subject: Personaggi&co.

    Ciao JJ,
    Ti scrivo per esprimere alcune mie perplessità riguardo all’impostazione ed alla pianificazione dello sviluppo del nostro progetto.
    Siamo un team onesto, ci scambiamo info e materiale principalmente via email, e a mio modo di vedere, stiamo portando avanti le cose con troppa dispersività: mi dici a cosa serve – in questa fase – pensare alla storia di background dei protagonisti, alle musiche presenti nel filmato fmv iniziale e al supporto multilingua?!
    Insomma, dobbiamo volare bassi per poter avere un minimo di speranza di riuscita! A me, in qualità di grafico, non passa neanche per l’anticamera del cervello sapere che l’orco, ad esempio, è in realtà uno che vaga per il mondo alla ricerca delle proprie radici e che è stato schiavo dalla nascita all’adolescenza. Mi basta essere a conoscenza delle sue peculiarità fisiche e, poi, diciamoci la verità, ma a chi vuoi che freghi il passato di un character! Un giocatore vuole divertirsi ad impersonare un alter ego digitale, fare una carneficina, elaborare tecniche di combattimento et similia. Vuole insomma staccare la spina al suo cervello e utilizzare le sue abilità fisiche (riflessi, velocità d’esecuzione comandi, etc.) per uccidere tutti i nemici e sentirsi il migliore, di certo non ha intenzione di crucciarsi dei problemi e delle motivazioni altrui. Inoltre, oggi nel mondo dei videogiochi vengono prima la grafica e la giocabilità di qualsiasi altra cosa.
    Infine, credo che ‘sti musici e ‘sti grafici highpoly abbiano perso qualsivoglia riscontro con la realtà… E non venirmi a dire il contrario! Cazzo, dovrebbero pensare a sfornare musiche ed effetti sonori, dovrebbero occuparsi dei filmati, dovrebbero concentrarsi sul loro campo di azione, e invece vengono a porre nuovi problemi… E quello che è più grave, è che tutti li seguono e li stanno a sentire… O sono io il pazzo o mi trovo in un gruppo che va a vento… Boh! Sappi però che ti vedo troppo assente… Ma che stai a fa’?!

    jt.R
    [email protected]



    From: GianGiacomo “SeriousJJR” Rossi
    To: Giuseppe “jAcK t. RiPpEr” Amoruso
    Sent: September 29, 3:48 AM
    Subject: Re: Personaggi&co.

    SaRve PeppeLoSquartatore!
    Scrivo come un forsennato tutte le notti, ecco che sto a fare P
    Comunque qua i pazzi sono due: lo sei tu, che invii missive a quest’ora del mattino, e lo sono anche io, che controllo la mailbox – dopo essermi dedicato alla lettura di capolavori del trash e dopo aver colato nelle mie orecchie un po’ d’insano metal (a proposito, lo sai che è uscito il live dei Culla D’Oscenità?) – invece di andare a dormire (tra qualche ora, ahimé, vi sarà scuola…)!
    Bah… E’ meglio che faccia il serio…
    Trovo molto strano il fatto che tu stia contestando la mancata descrizione delle caratteristiche fisiche dei vari personaggi. Il gioco, come più volte ho ribadito, è stato da me ampiamente descritto nel documento di game design, ed è a quest’ultimo che – adesso – tutti i membri del team devono fare riferimento. Sotto “Personaggi”, artworkers e grafici possono trovare direttive semplici, chiare e concise su come saranno più o meno i comprimari.
    Il discorso è differente per quanto riguarda la caratterizzazione dei protagonisti, che trova il suo posto nella storyboard.
    Elaborare degli eventi, costruire delle storie sui dei personaggi vuol dire creare concettualmente tali personaggi. Vuol dire far vivere delle entità che prima erano rimaste nella tua testa in stato embrionale. Tu citi l’esempio dell’orco, e io ti schematizzo che Orco à Ricerca di una propria identità personale; crisi esistenziale à Motivi questi che lo porteranno a prender parte all’avventura à Ergo, le quest saranno elaborate su misura per lui.
    Un carattere, e in special modo un protagonista, non può essere sparato nel mucchio all’improvviso. Risulterebbe artefatto, vuoto e fuori contesto. E, peggio ancora, uguale a tanti altri. Non direbbe niente di nuovo. Nessuno si affezionerebbe a lui, l’utente lo vedrebbe come semplice esecutore digitale del movimento delle proprie dita sulla tastiera. Invece, è mio compito far sì che succeda il contrario. E’ mio dovere fare in modo che il giocatore, data una prima occhiata al personaggio, riceva delle sensazioni, tragga delle conclusioni circa il suo essere. Voglio che l’andare avanti con la trama diventi per lui una droga, voglio che lui fonda il proprio essere con la sua controparte digitale, voglio che, nonostante sia lui a possedere il personaggio, si senta a sua volta posseduto, quasi come se trovarsi ad animare quell’ammasso poligoni gli recasse come effetto collaterale il provare di sentirsi animato, voglio dunque venire a creare una mutuazione giocatore – personaggio, nella quale l’uno non può fare a meno dell’altro.
    E’ per tale motivo che dedico la maggior parte del mio tempo alla caratterizzazione dei protagonisti e del contesto storico, perché, per poter sperare che anche voi, artisti e grafici, cogliate ciò che ho intenzione di comunicare (in modo che voi la rendiate sotto forma di schizzi e modelli tridimensionali) devo dare tutto me stesso, devo fare in modo che voi vi caliate completamente nella realtà alla quale sto dando, parola dopo parola, immagine dopo immagine, uno spirito, una precisa e al tempo stesso sfumata personalità.
    Ma non posso far perdere troppo tempo a voialtri, per cui t’invito a focalizzare la tua attenzione su ciò che ho affermato nel doc di design, t’invito a dar vita a quelle sbiadite composizioni di pixel così che, quando sarà giunto il momento, potremo dire di esser pronti a rendere pienamente e in forma artistica il nostro progetto.
    Per quanto riguarda la dispersione degli interessi (chi pensa al multilingua, chi ai fmv), posso soltanto assicurarti che da tempo mi era scoccata in testa l’idea di porle fine, quindi aspetta mie nuove importanti in questi giorni…

    E con ciò, ti saluto!

    ByeZ!

    SeriousJJR



    29 settembre

    Talvolta mi viene il dubbio di essere la persona peggiore di questo mondo. Mi si para innanzi l’idea che, nel distribuire agli uomini intelligenza e virtù, madre natura abbia avuto un geniale senso dell’umorismo. Ogni mattina, nel pullman, a scuola, per le strade, vedo gente letteralmente immersa in un mare magnum di mediocrità. Vi sguazza, beandosi di quello che ha e deridendo i non appartenenti all’esclusivo clan. E’ come se fosse nata (o se esistesse da sempre… non ne sono sicuro…), l’adorazione di tutto ciò che è mediocre, di bassa lega. E, la cosa bella, il tocco di humour che nelle considerazioni personali non deve mancare mai, è che i cultori del trash sono felici, e perciò non fanno assolutamente nulla per elevarsi dal proprio stato ferino. Pur percependo l’inutilità di prendere a calci la porta dell’autobus perché questa non si apre, perseverano col picchiare forte, quasi dovessero affermare il loro potere nei confronti di terzi, persone, animali, oggetti.
    Ma poi mi sovviene un pensiero… Forse non sono stati “educati” a comportarsi virtuosamente, con dignità. E allora mi vergogno di me stesso, di quanto ipocrita possa essere stato e con quanta presunzione mi sia dato da solo il permesso di ergermi a guida morale e indicare la retta via. Che, tra l’altro, oggi assomiglia ad un sentiero invaso dalle selci e da erba incolta, avendo perso il genere umano la facoltà di riconoscerla e quindi di percorrerla. Viviamo nell’era del postmoderno, abbiamo distrutto ogni nostra sicurezza, il fatto stesso che ci definiamo con un “post” suggerisce che ci sentiamo in secondo piano, che veniamo dopo, che facciamo parte del declino, che non siamo capaci di essere noi stessi ma solo brutte copie dei grandi del passato. I nichilisti dovrebbero essere contenti. Confusione, smarrimento etico e spirituale, suicidi, chi più ne ha più ne metta. Stramaledetta Ragione! Di molti, ma non di tutti, croce di chi la utilizza. Una lurida p*****a, ecco cosa sei… Invitante e inebriante, calda e sensuale, ammaliante e frizzante, prima seduci gli uomini e poi li abbandoni alla solitudine, alla follia! Come mi piacerebbe avere per maestro qualcuno, una persona sicura sul da farsi… Per quanto sbagliata possa rivelarsi una scelta, almeno sarei coerente sino alla fine… Potrei schiacciare un po’ d’erbaccia… Ecco… adesso degenero col figurato…
    Automatic Jack ha scritto sab, 27 marzo 2004 alle 23:58
    Posto anch'io uno "stralcio", dai. E' una quest del GDR "Vampiri", in cui veniva chiesto di descrivere un momento di solitudine e riposo del proprio personaggio.

    NB: Le scritte piccole sono la voce di uno spirito Vodoun, legato al mio personaggio, un cacciatore di vampiri haitiano.

    Automatic Jack ha scritto ven, 26 marzo 2004 alle 13:29
    Lucas raggiunse la piccola locanda del paese, gli incontri al cimitero erano stati interessanti, e avevano aperto molte porte sul futuro.

    Cerchi le tue risposte, mercenario? E' tempo

    Annuì nel vuoto, certo che la risposta Legba la conosceva assai bene. Cercò di non pensare troppo agli ultimi eventi. Aveva bisogno di riposare, e di capire. Il paesino era deserto, il primo sole del mattino inondava con la sua luce calda ogni cosa, trasformando la viuzza lastricata di lucido porfido in una strada di mattoni dorati e luminosi. Le nebbie e le nubi della notte si erano diradate, e un cielo roseo e punteggiato da nubi striate di rosso e di viola salutava il nuovo giorno.

    Estrasse le chiavi dalla tasca e le inserì nella rozza serratura del portoncino della locanda, lo aprì e salì le scale dai gradini consunti fino alla sua stanza. Entrò.

    Il letto era piccolo per la sua stazza, ma comodo. Testata e capezzale erano di Ebano intarsiato, che mostrava tutti i suoi innumerevoli anni d'età. Lasciò a terra lo zaino, e si stese ancora vestito, le molle del materasso scricchiolarono lievemente. Chiuse gli occhi, forse cercando una tenebra che gli fosse di conforto. Rimase steso senza pensare, ascoltando il suo stesso respiro.

    Respiro.

    Come durante i rastrellamenti del regime di Douvalier. Quando la polizia si avvicinava ai paesi e tutti i dissidenti dovevano scappare. Le corse a perdifiato fino alla foresta, nascondersi in silenzio nel sottobosco. chiudere gli occhi nella speranza di non essere visto. Ascoltare il silenzio, ascoltare il respiro.

    Come durante gli appostamenti nella giungla africana, nascosti nella vegetazione, il fucile stretto tra le mani, cercando di non essere scorti, cercare di non fare rumore, come un leone in agguato, ascoltare il silenzio, controllare il respiro prima del frastuono della battaglia.

    Come durante gli inseguimenti nelle città, l'oscurità e la paura, gli inseguimenti nelle fogne, il freddo argento dei pugnali, il cercare la tenebra in cui si nascondeva il nemico, prenderlo di sopresa, ucciderlo in silenzio e nel silenzio ascoltare il suo respiro morirgli in gola, mentre artigli e canini aguzzi si dimenavano in vane speranze di salvezza.

    E un immenso dolore, per tutte le battaglie combattute senza scelta e senza pietà. La rassegnazione della lotta perenne, dell'impossibilità della tregua e della pace.



    Io ascolto la tua danza mercenario. Danza d'oscurità e dolore, una danza mista al sangue degli eretici ai quali io ti legherò perchè tu possa insegnargli una nuova qualità di sofferenza.

    Lucas cedette al sonno, tuffandosi in un incubo confuso e frammentato. Si ritrovò nelle fogne di Praga, teatro del suo primo grande scontro con un vampiro. Pareva tutto reale come allora, le fogne imputridite, le esalazioni metifiche, i ratti e gli insetti, in un'oscurità carica d'odio e di odore di sangue. Sangue che colava dal petto sventrato del mitragliere di squadra mentre in una caldissima notte africana cercavano di difendere un ponte dalle milizie antigovernative, feroci guerriglieri con lunghi canini e artigli aguzzi. E in alto sentì una risata, chiara, distinta e lontanissima, persa in un triste cielo senza stelle, il fondo della sua anima. La risata si tramutò in urla e canti, in luci ed ombre, fronde d'alberi nell'incerta e tremolante luce di un falò. Sacerdoti che pregavano gli spiriti, pregavano con tutte le loro forze, pregavano fino a sudare, offrivano la loro anima ai pazzi demoni del sangue per ottenerne in cambio malvagità e salvezza.
    E quel respiro affannoso, quegli occhi lucidi e persi. Ogni sospiro era talmente forte da assordare, il sangue sulle mani non poteva mai più venir lavato. Marie che stava morendogli in braccio, suo marito Javier rovesciato a terra con un machete in gola. Non poteva fare nulla, si sentiva come di pietra, come se ogni movimento gli costasse una fatica immensa.
    Poi di nuovo le fogne di Praga. Non le vedeva ma ne distingueva l'odore e le voci. Il vampiro era vicino, molto vicino. Arkadij Zuganoff, con quella sua voce capace di gelare il cuore, il suo bastone con il teschio di cromo lucido. Non lo vedeva, ma era lì, di fronte a lui, e parlava. Non riusciva a capire le parole, ma gli stava facendo male, il dolore che sbocciava come un fiore con spine lucenti nei recessi della sua mente. Arkadij sorrideva, ma nell'incubo la sua immagine era confusa, nel suo sorriso i denti sembravano come teschi cromati.

    Si svegliò di soprassalto, sudato, scomposto. Cercò di rendersi conto di dov'era, e gli ci vollero parecchi secondi per ritornare in sè. Si guardò le mani, il sangue non c'era, era stato un'incubo. Solo un incubo.

    Si alzò, avvicinandosi alla finestra. Scostò le tende. Era mezzogiorno, le ombre erano fuggite, il sole era limpido stagliato in alto nell'azzurro.

    Solitudine e luce.


  7. #7
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    Predefinito Re: [archivio al 12/09/2006] Sugli scaffali dello scanto c'è...

    da "Maître à penser - La professione intellettuale"

    StM ha scritto mer, 25 maggio 2005 alle 18:19
    Da Golem

    Maître à penser
    La professione intellettuale
    di MARIA TERESA FUMAGALLI BEONIO BROCCHIERI


    E' in un testo del 1100, nell'autobiografia del filosofo Pietro Abelardo, che possiamo trovare per la prima volta la definizione chiara di un lavoro nuovo e singolare, quello dell'intellettuale. Il lavoro nel mondo antico e fino a quel secolo era per definizione qualcosa che impegnava il corpo, le mani più che la mente: del resto, solo chi non aveva bisogno di lavorare e viveva di rendita poteva studiare e si sentiva dunque veramente "libero". Ma Abelardo, messo alle strette dal bisogno, in un momento difficile della sua vita, si inventa un lavoro nuovo, l'unico che - dice - è capace di fare: si propone di guadagnarsi il cibo e la casa "lavorando con la mente e la parola", ossia studiando e insegnando. I suoi allievi, poveri quasi come lui, lo pagheranno per quel poco che possono, spesso con cibo e aiuti materiali.

    Da allora la professione intellettuale si estende e si precisa in quei secoli che dopo il Mille segnano il "decollo dell'Europa", quando con la città e nella città nasce la divisione del lavoro.

    Parliamo dunque dell'intellettuale che - nel significato degli "Intellectuels" solidali con Zola nell'affaire Dreyfus - per secoli, fin quasi a tutto il Novecento, ha avuto un profilo così ben individuabile e orgogliosamente preciso: la questione non è interessante soltanto da un punto di vista storico, perché oggi la figura dell'intellettuale ha assunto contorni sfumati e copre una gamma molto estesa di figure professionali - giornalista, professore, pubblicitario, medico, pittore, orafo, scrittore, architetto, dentista, stilista di moda, astronauta, informatico, responsabile marketing e infine anche maître à penser. Mi domando, ha ancora senso oggi questa definizione?

    L'aggettivo "intellettuale" non si applicava nel Medioevo all'uomo: era "razionale" la qualità che definiva tutto il genere umano indicando una potenzialità comune, la capacità di ragionare. Con "intellectualis" si indicava una qualità superiore, un grado in più, ad esempio la conoscenza delle idee distinta da quella "sensibile", oppure la sostanza intellettuale (anima immortale) opposta al corpo. Intellettuale era chiamato anche il piacere (voluptas) che derivava dallo studio e dalla ricerca, che per alcuni, molto pochi, era permanente e sublime felicità, ben diversa da quella "dei sensi" transitoria e fragile.

    Il termine "intellettuale" segnalava una qualità superiore, non una categoria di persone come avvenne più tardi. C'è comunque un passaggio nel significato di questa parola (un aggettivo che diventa sostantivo), qualcosa di comune alle due accezioni, una parentela sottile ma precisa: la qualità intellettuale - della conoscenza, della sostanza o del piacere - alludeva in quei tempi a qualcosa di più alto e pregevole del suo opposto, materiale e deperibile. Allo stesso modo gli intellettuali della modernità hanno sottolineato nella loro attività un aspetto superiore, un pregio particolare. E attraverso questa qualità hanno preteso sovente un ruolo privilegiato nella partecipazione alle decisioni della comunità civile di fronte ad altri gruppi appunto "non intellettuali".

    L'attività intellettuale, definitasi come professione nel contesto - si è visto - della divisione del lavoro, fece emergere una scelta che allora - oggi non più - era netta e chiara: "lavorare con le mani o lavorare con la mente e la parola". Come scriveva Abelardo.

    Per lavorare con la mente bisognava naturalmente essere "letterati", ovvero saper leggere e scrivere e dominare il mondo del discorso - una esigua minoranza in quei tempi di fronte al vastissimo gruppo dei rudes o illitterati o simplices (da notare che oggi gli analfabeti, compresi quelli "di ritorno", in Italia sono oggi sì una minoranza, ma notevole, il 27%). A metà strada fra i letterati e i rudes stavano gli uomini che, anche se sapevano leggere e scrivere, possedevano un sapere giudicato nell'ottica della antropologia platonico-cristiana troppo inquinato dalla materialità: i medici, gli architetti, gli orafi per esempio, che lavoravano sui corpi e sulle pietre, materia corruttibile. Il loro sapere era giudicato più fisico che intellettuale e meno "liberale", anche se la loro opera era di fatto sempre più ricercata e molto ben pagata alle corti dei principi e dai grandi borghesi delle città.

    Quasi sempre il lavoro era ancora sentito soprattutto come fatica, una vera penitenza e un castigo al quale Adamo era stato condannato assieme ai suoi figli: un giudizio che del resto ne rifletteva l'aspetto più evidente e diffuso, come la fatica del contadino nei campi, del marinaio ai remi, del muratore nelle costruzioni pietra su pietra. Ma si faceva strada a poco a poco una tendenza più positiva, quasi ottimistica. E' già umanesimo, scrive Le Goff. Sulla facciata del duomo di Modena lo scultore Wiligelmo (XII secolo) ci indica l'immagine di un Adamo laborioso e creativo che prevale su quella di un Adamo schiacciato dalla fatica. Lavorando in certi ambiti, il musicista, lo scultore, il pittore aspiravano - e qualcuno lo dichiarava orgogliosamente - a imitare il Creatore, "maximus artifex", e a diventare un maestro nel proprio campo, un "maître à pierres" ad esempio, perciò quasi un vir scientificus, che possiede "insieme all'arte la scienza" e la capacità di trasmetterla ad altri (questo stava scritto sul cantiere del duomo a Milano nel Trecento ).

    Ma, al vertice delle professioni, la più elevata - anche se non la più pagata come lamentano i Magistri universitari parigini - rimane per lungo tempo quella del filosofo, capace non solo di ricercare la verità, ma di comunicarla agli allievi trasmettendola con metodo e spirito critico. L'immagine oggi è appannata e immiserita e al contempo anche troppo presente e influente - dai talk shows ai dilaganti interventi di molti supposti maîtres à penser: Uno che pensa di mestiere - si sottintende - può parlare di qualsiasi cosa, dalle diete al papa, alle Lecciso.

    Ritorniamo alla professione intellettuale al suo nascere, quasi mille anni fa. L'intellettuale nell'Europa di allora si collocava in una prospettiva internazionale, viaggiava da un centro di cultura all'altro, da Parigi a Oxford, a Colonia, a Napoli, grazie alla sua conoscenza della lingua comune, il latino diffuso e noto ai litterati in misura maggiore dell'inglese oggi. Anche per forza di cose - la coincidenza della società e della christianitas - il filosofo partecipava alla vita civile e trovava naturale e doveroso l'impegno politico, svolto sovente in una dimensione collettiva di organizzazione o di riforma della società o di dissenso verso di essa. Bastano a ricordarcelo i nomi di Dante, Guglielmo di Ockham, Marsilio da Padova, Giovanni Hus, così lontani dal paradigma futuro del dotto che studia malinconico e solo nella sua torre d'avorio.
    gangio ha scritto gio, 26 maggio 2005 alle 01:36
    infatti Platone era filosofo solo nel tempo libero
    la sua vera qualifica era "addetto alla rimozione delle feci equine", ma non disdegnava il lavoro di maniscalco...

  8. #8
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    Predefinito Re: [archivio al 12/09/2006] Sugli scaffali dello scanto c'è...

    da "i Na"

    Emack ha scritto dom, 10 aprile 2005 alle 20:51
    da Viaggio nella Cina proibita, di Luc Richard, pg. 67-68

    [...]
    <<E' soltanto da pochissimo tempo che si è cominciato a sapere dell'esistenza dei Na fuori dalla Cina. In Francia, recentemente, un etnologo ha dedicato loro un libro di notevole valore. Da allora, gli articoli e i reportage si sono moltiplicati. Credendo di aver finalmente trovato una degna alternativa al soffocante predominio maschile, e cioé un modello da contrapporre al concetto insopportabile della paternità, molte femministe francesi, olandesi e americane giungono oggigiorno nella regione del Lago Lugu. Il cocktail di buddismo e "libertà sessuale" fa furore presso le sostenitrici della guerra dei sessi, per le quali l'Asia altro non è che un supermercato della cultura. Costroro vorrebbero trapiantare in occidente alcune pratiche orientali di difficile assimilazione, e lo spettacolo di questi moderni Narcisi di sesso femminile che tessono l'elogio di comunità tradizionali e di una religione fondata sulla negazione dell'io non è meno sorprendente.

    Un giornalista francese è arrivato al punto di scrivere, sul supplemento del quotidiano "Le Monde" dedicato ai libri, che l'esistenza di questo popolo avrebbe rimesso in discussione la centralità della famiglia nella concezione giudaico-cristiana della sua origine. D'altronde questo era l'unico elemento dei Na che lo interessava veramente. E, come aveva spiegato benissimo Jugdu (una donna Na incontrata precedentemente dall'autore, ndemack), i Na credono da sempre che l'uomo non giochi alcun ruolo nell'atto della procreazione. Secondo loro, la donna porta dentro di sé l'"osso", lo scheletro del suo bambino, mentre l'uomo, l'amante di una notte, non c'entra nulla. Presso i Na l'assenza del concetto di paternità deriva da una credenza che, ignorando la partecipazione dell'uomo al processo della procreazione, nega la realtà.

    Ciò che è indiscutibile, in compenso, è che al contrario di tutte le altre società, questa rimette in discussione l'idea del matrimonio e della famiglia come fondamento dell'ordine sociale. L'esistenza dei Na è di per sé la prova che una società di stampo tradizionale può funzionare sulla base di un modello diverso, e, come abbiamo avuto modo di constatare, può benissimo mantenersi in equilibrio.

    Quando rientrammo nella stanza principale, ci stavano aspettando per mangiare. Prima di servire, la donna più anziana mise un po' di cibo sulla tavoletta di pietra dietro il focolare. Dopo mangiato, uscimmo a prendere un po' d'aria. A differenza dei villaggi han, che di notte erano immersi in un silenzio di tomba, qui vi era un certo fermento. Uomini andavano e venivano in bicicletta o si spostavano da una casa all'altra. Ai lati della strada si formavano capannelli che echeggiavano di risate. Non era certo difficile immaginare come avrebbero occupato la loro serata...>>
    [...]
    ________________________________________ ______

    Questo è un passaggio di un libro che ho avuto modo di assaporare qualche tempo fa, e che mi ha fornito un notevole numero di spunti di riflessione su molteplici argomenti. Restando negli ambiti di tale brano, le questioni di cui vorrei dibattere sono le seguenti:

    1) L'Occidente sembra aver scoperto un ricchissimo giacimento culturale, in Asia. La crisi generale (o sarebbe meglio parlare di semplice "flessione"?) delle religioni occidentali ha lasciato spazio a quelle orientali, percepite maggiormente "a misura d'uomo" per l'individuo contemporaneo. Anche il massiccio flusso migratorio da est verso ovest, e la definitiva globalizzazione economica, ha fatto sì che ci imbattessimo, nella maggior parte delle occasioni per via indiretta (libri, o documentari, o racconti, o racconti di racconti, e via discorrendo), in realtà diverse dalla nostra.

    E io credo che Luc Richard abbia fatto bene a utilizzare la locuzione "supermercato della cultura", perché sintetizza l'approccio della stragrande maggioranza degli occidentali dinanzi a contesti eterogenei: si è diffusa la mentalità da fast food, del mese a tema messicano o cinese, con le solite patatine e i soliti hamburger mascherati. L'idea stessa che si ha dei tibetani - popolo dai più considerato come mansueto, ma che in realtà possiede una storia costellata di atrocità e orgoglio - penso costituisca ulteriore prova di tutto questo.

    2) Spesso abbiamo dei concetti standardizzati dei vari popoli terrestri. Io stesso ho commesso l'errore di ritenere i cinesi "gente dagli occhi a mandorla, numerosa, oppressa da un sistema centrale pseudocomunista" e stop. Invece, in Cina (che, come mi ha fatto notare l'agnellino, era - ed è - un impero) coesistono miriadi di culture variegate, roba da far impallidire la "questione italiana" (che, lasciatemelo dire, viene veramente tirata per le lunghe).

    3) In un mondo dominato dalla centralità del maschio e dall'importanza della famiglia patriarcale e "ristretta", (soprav)vivono anche differenti società, aliene ai nostri usi e costumi, che spesso esulano dalla nostra comprensione. Il modello dei Na si basa sulla preminenza della donna (non è comunque l'unico popolo ad avere questa attitudine, naturalmente), su un concetto di famiglia estremamente "allargata" (sebbene l'incesto sia riconosciuto come atto ripugnante), nella quale nessuno conosce di quale uomo discenda. Letterale applicazione della massima "mater semper certa est, pater numquam", insomma.
    L'autore riconosce che la cultura Na si basa su una "negazione della realtà"; sebbene non sia in grado di quantificarli, io credo che numerose "negazioni della realtà" siano diffuse anche nel resto del mondo. Anche il concetto secondo il quale spesso e volentieri riteniamo "naturale" un certo comportamento (ad esempio la promiscuità sessuale cui anela il maschio), è stato, in una certa misura, smentito dalla realtà dei fatti (l'uomo non è una macchina con funzioni e comportamenti preimpostati; più precisamente lo rivelano recenti studi sul cervello umano). E, allora, non ci resta che arrenderci alle contingenze storico-geografiche, o è davvero possibile giungere ad un qualcosa di assoluto?

    Gradirei molto sentire i vostri pareri.
    memex ha scritto ven, 15 aprile 2005 alle 10:52
    Emack ha scritto lun, 11 aprile 2005 alle 22:12
    [email
    Ph@ntom[/email] ha scritto lun, 11 aprile 2005 alle 18:30]Ma mi pare un po' stupido cercare dei sostituti ai valori in crisi.
    E se non si trattasse di un atteggiamento consapevole?
    potrebbe in effetti essere uno sbocco ad una "pulsione" naturale.

    non l'unico possibile (pensiamo al rigurgito reazionario - wow che retore... - al ritorno ai cari e vecchi valori di una volta che spesso è propugnato in momenti di crisi, per esempio guardiamo ai neocon, o teocon, ma non sono certo l'unico esempio)
    Rambo Bond ha scritto ven, 15 aprile 2005 alle 15:47
    Emack ha scritto dom, 10 aprile 2005 alle 20:51


    L'autore riconosce che la cultura Na si basa su una "negazione della realtà"; sebbene non sia in grado di quantificarli, io credo che numerose "negazioni della realtà" siano diffuse anche nel resto del mondo. Anche il concetto secondo il quale spesso e volentieri riteniamo "naturale" un certo comportamento (ad esempio la promiscuità sessuale cui anela il maschio), è stato, in una certa misura, smentito dalla realtà dei fatti (l'uomo non è una macchina con funzioni e comportamenti preimpostati; più precisamente lo rivelano recenti studi sul cervello umano). E, allora, non ci resta che arrenderci alle contingenze storico-geografiche, o è davvero possibile giungere ad un qualcosa di assoluto?

    "Negazione della realtà" mi sembra eccessivo. L'istituzione della famiglia (ed il suo consolidamento) sono tecniche di sopravvivenza, che le popolazioni affinano e conservano nel tempo. "Sopravvivenza" nel vero senso della parola, perchè il ruolo centrale della famiglia nella società è creare un nucleo di persone in grado di raggiungere l'autosostentamento e permettere la procreazione.
    Come "assolute" possiamo intendere tutte quelle norme e quei valori che sono assolutamente necessari in ogni tipo di gruppo sociale perché rispondono a caratteristiche fisiologicamente uguali per tutti gli uomini (per esempio la cura dei figli).
    Interessante sarebbe capire quali e quanti fattori possono influenzare l'evoluzione sociale di una certa popolazione. In questo caso, perché questa popolazione è arrivata a dare un ruolo così di spicco alla donna rispetto all'uomo (come è successo normalmente un po' ovunque invece)? Il libro accenna qualcosa?

    Emack ha scritto sab, 16 aprile 2005 alle 12:11
    Rambo Bond ha scritto ven, 15 aprile 2005 alle 15:47
    "Negazione della realtà" mi sembra eccessivo. L'istituzione della famiglia (ed il suo consolidamento) sono tecniche di sopravvivenza, che le popolazioni affinano e conservano nel tempo. "Sopravvivenza" nel vero senso della parola, perchè il ruolo centrale della famiglia nella società è creare un nucleo di persone in grado di raggiungere l'autosostentamento e permettere la procreazione.
    Come "assolute" possiamo intendere tutte quelle norme e quei valori che sono assolutamente necessari in ogni tipo di gruppo sociale perché rispondono a caratteristiche fisiologicamente uguali per tutti gli uomini (per esempio la cura dei figli).
    Condivido i tuoi argomenti, ma non le tue conclusioni. L'istituzione della famiglia è un modello che viene adottato a seconda delle contingenze, basato sulle percezioni sensoriali di una determinata comunità esistente in un determinato contesto.
    L'impulso è il medesimo per tutte le specie viventi: sopravvivere. Ma l'uomo utilizza un ulteriore strumento che solo i cetacei e i primati sembrano - sebbene in forme ed espressioni primitive - possedere: la cultura. Che varia da gruppo a gruppo. E che, alla fine, predilige certi "stimoli" ambientali piuttosto che altri.

    Sono stato poco chiaro, e pure poco convincente. Perdonami.
    Quote:
    In questo caso, perché questa popolazione è arrivata a dare un ruolo così di spicco alla donna rispetto all'uomo (come è successo normalmente un po' ovunque invece)? Il libro accenna qualcosa?
    No, purtroppo. Indica solo, a mo' di approfondimento, un paio di articoli e di libri, in lingua francese. Se vuoi, li posto.

    Ma ricordo l'esperienza di una fotoreporter, Jodi Cobb (mi pare), la quale ha dedicato molto del suo tempo nel documentare culture la cui chiavarda fosse la donna.

  9. #9
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    Predefinito Re: [archivio al 12/09/2006] Sugli scaffali dello scanto c'è...

    da "Mediterraneo: poesia ed estetica"

    Ph@ntom ha scritto sab, 19 febbraio 2005 alle 03:10
    Non ho la pretesa che ne esca una discussione ma è una lettura bellissima e dunque ve la propongo.




    arabroma.com - il sito della cultura araba
    ÖZDEMIR INCE
    Mediterraneo: poesia ed estetica




    Mia madre, che era della città di Mersin, aveva una cugina che viveva in un paese dei monti del Tauro. Si chiamava Hapa, più esattamente Hapa la folle. Era ritenuta folle perché si sedeva all'ombra dei platani e dei noci a parlare e fumare con gli uomini. La ragione dell'aggettivo "folle" era quindi evidente, ma perché non portava un nome conosciuto come Ayshe, Fatma, Gulu? In Turchia esistono nomi regionali molto apprezzati, ma Hapa non era neanche di quelli. C'era in paese qualche altro nome straniero, ma non ero ancora in età di cercarne la ragione.
    Circa trent'anni fa leggevo in un dizionario un articolo su Eracle. Fui colpito dal nome "Herakleia Pontika" (Eraclea del Ponte, in turco Karadeniz Ereglisi): infatti, per quanto ne so, esiste in Turchia una semi dozzina di piccole città e di borghi chiamati Ereºli (Eraclea). Col passare del tempo il greco "Heraklei" si è trasformato nel turco EreÞli così come "Iconion" in Konya e Cesarea in Kayseri. Un'altra parola, nel dizionario, mi colpì: "Hepa". Mi sono subito ricordato della cugina di mia madre, Hapa la folle. Accanto ad "Hepa" era scritto "Hepat", la principale dea ittita, chiamata anche Hepa o Hepata, la dea-sole di origine hurrita che si pensa sia all'origine della dea greca Ebe, figlia di Zeus e di Era, che ha sposato Eracle. E' probabile che sia uno dei diversi nomi di Cibele. Nelle iscrizioni ittite è detto che essa è adorata nel "paese dei cedri", il Libano e la Palestina. Epa è quindi Havva (Eva) stessa, designata nella Torah come moglie del primo uomo, Adamo, e madre di tutti gli uomini.
    Dio santo! Il nome della nostra Hapa la folle era quindi quello di Eva, prima madre degli ebrei, dei cristiani e dei musulmani. Anche mia sorella si chiama Havva: la cugina di mia madre e mia sorella portano quindi lo stesso nome di Ava Gardner!
    Ma che correlazione c'è tra tutto questo e il Mediterraneo, e, se esiste, l'estetica mediterranea? Veramente non lo so. Penso che fosse il 1980, uno dei tanti mesi di ottobre: dopo una buona cena ad Atene, nella Plaka alta, che dà sull'Acropoli, torno al mio albergo. E' quasi mezzanotte, ci sono pochissimi turisti nelle strade. Cammino per i vicoli stretti di Plaka verso piazza Syntagma: da lontano giunge una melodia che assomiglia alla musica del nostro Dede Effendi (1778-1846). Penso: che ci fa la musica classica ottomana a quest'ora della notte nel bel mezzo di Plaka? Cammino verso il luogo da cui proviene la musica, mi viene incontro la grande cattedrale. C'è la messa e alla porta una giovane donna distribuisce delle mandorle sgusciate: ne ha date anche a me. Si direbbe una festa tradizionale di fidanzamento o di nozze in Turchia.
    Mi ricordo degli scritti dei musicologi: sembra che inizialmente la musica ottomana sia stata influenzata dalla musica sacra bizantina, per poi essa stessa influenzare la musica sacra ortodossa. E' la storia di una élite musicale. Le musiche popolari turca e greca si somigliano: si direbbero due sorelle gemelle. Se chiedessimo ai fanatici turchi, direbbero: "I greci l'hanno presa da noi", mentre i fanatici greci pretenderebbero il contrario. Si potrebbe chiedere loro, con i versi di Yunus Emre, poeta mistico del XIII secolo: "Un padrone ha le sue terre, l'altro le sue mule, ma all'inizio di chi erano?"
    Nel mese di settembre 1998 ero in Marocco. Il ministero della cultura del regno marocchino mi ha offerto una collezione di CD: " Antologia Al-…la ", musica Andaloluso-Marocchina. Ho ascoltato i CD di ritorno a Istanbul. Sorpresa! Da un lato, musica religiosa che noi chiamiamo sufi, dall'altro, musica vicina a quella che chiamiamo turca. Ho chiesto agli intenditori. Alcuni hanno detto: "Questa musica dovrebbe essere giunta a noi con l'immigrazione degli ebrei sulle terre ottomane nel 1492" (ma è senza dubbio impossibile che sia nata unicamente così); altri hanno detto: "Una parte di questa musica è venuta da oriente verso occidente durante l'invasione dell'Africa del Nord e della Spagna da parte degli arabi". Ho sentito altre ipotesi, ma non sono riuscito a chiarire la questione.
    Ecco, vi racconto ancora un aneddoto, che sempre non ha rapporto con l'estetica: uno dei miei amici francesi, diplomatico che ha oggi il titolo di console, doveva venire a cena da noi una sera, all'inizio degli anni '70. Ha portato con sé un'amica libanese. La sera quella signora, che era di una delle più famose famiglie libanesi, salendo le scale ha detto a gran voce: "Si sente il Libano qui!" Appena entrata, ha chiesto a mia moglie cosa avesse preparato. Aveva cucinato dei "dolma". Sapete forse che il piatto che si chiama dolma è preparato svuotando melanzane o zucchine per farcirle, oppure arrotolando foglie di vite o di cavolo sulla farcia. Gli ingredienti principali sono il riso e la carne macinata. Nella mia città natale, Mersin, il dolma è preparato in un modo un po' speciale: qualche minuto prima di togliere la casseruola dal fuoco, il piatto di portata viene cosparso di menta secca, aglio pestato e succo di limone. Quelli che sono abituati al dolma fatto in questo modo non ne toccano un altro tipo. Ciò che ha fatto esclamare alla signora libanese "si sente il Libano qui!" era l'aroma emanato dal misto di limone, menta e aglio. Ed è naturale, perché Mersin è la Beirut della Turchia.
    Il mio amico venerato, grande poeta, grande sapiente della poesia, il più grande di tutti, il gran buongustaio Ali Ahmed Bey, cioè Adonis, conclude il suo articolo intitolato "Il poeta arabo contemporaneo di fronte all'eredità" dicendo: "Il poeta contemporaneo sa che il patrimonio arabo è solo una parte di un patrimonio più vasto, nel quale vuole reinserirlo per farlo sfuggire all'isolamento e alla morte. Il Mediterraneo parte da Cartagine, passando per Alessandria e Beirut per arrivare ad Antiochia, dopo aver compreso Sumer e Babilonia: tale è l'ambito in cui si radica la nostra cultura. Sono queste origini che i Greci hanno adottato ed elaborato in un movimento intellettuale unico nel genere, diventato la base della civiltà moderna. Da questa origine derivano tutte le altre tradizioni; da questa origine sono nate tutte le cose e questa sorgente, dice Cicerone, è impossibile che si prosciughi. La poesia araba moderna entra in questo mondo, ed entrandoci essa non diventa occidentale ma mediterranea". Cosi scrive Adonis.
    La geografia culturale comporta terre irrigate dal fiume della civiltà, dal quale si disseta anche ogni poeta turco moderno sensato. Su questa terra di cultura c'è senza dubbio tanto l'ombra del cipresso greco che l'ombra della palma araba. La carta geografica della civiltà, che appare per il poeta arabo delimitata a nord dai confini attuali della Siria e dell'Iraq, comprende tutti gli strati di civilizzazione dell'Anatolia (ittita, ionica, frigia, bizantina, ecc...), ma è una casseruola che contiene anche molti ingredienti asiatici.
    Il grande mistico Mevlana R™m† (XIII sec.), la cui influenza si è diffusa ultimamente per tutto il globo, che i turchi considerano turco perché era di origine turca e visse a Konia, ma che gli iraniani considerano parte della loro cultura perché aveva scritto in persiano, dice:

    "Vieni ancora, ancora vieni
    Chiunque tu sia
    che tu sia un infedele, che adori il fuoco o un idolo
    che tu ti sia pentito cento volte
    che tu abbia tradito il tuo giuramento cento volte
    Questa porta non è quella della disperazione
    Vieni come sei, vieni".


    Mi ricorda un altro testo:

    "Se un tuo fratello pecca, rimproveralo; ma se si pente, perdonalo. E se pecca sette volte al giorno contro di te e sette volte ti dice: mi pento, tu lo perdonerai" (Luca 17:3-4).

    R™m†, uno dei più grandi poeti del pensiero mistico musulmano, aveva stabilito un rapporto intertestuale con uno dei quattro libri del Cristianesimo: non contento, arredò il suo edificio poetico di morale cristiana e di pensiero classico greco. Nello scrivere queste righe, mi ricordo i mendicanti della mia infanzia, nelle strade di Mersin, che chiedevano l'elemosina nel nome della "Ave Maria". Ed è perfettamente naturale, visto che San Paolo è nato a Tarso, a diciassette chilometri da Mersin e le "Sette Chiese" si trovano in Turchia: "Quello che vedi, scrivilo in un libro e invialo alle sette Chiese: a Efeso, a Smirne, a Pergamo, a Tiatira, a Sardi, a Filadelfia e a Laodicea" (Apocalisse I:11).
    E' ora di ricordare il tema di questa riunione: " Mediterraneo: Poesia e estetica ". Un nome di mare, due punti, una forma specifica nell'uso del linguaggio, il pensiero filosofico che cerca l'essenza dell'arte e della bellezza. Senza dubbio, secondo i detti degli intenditori, il Mediterraneo non è soltanto un mare ma è, allo stesso tempo, regione geografica, cucina di storia e teatro di popoli. Allo stesso modo la poesia non è soltanto un uso specifico del linguaggio, ma anche chimica delle civiltà e delle credenze. Così come i filosofi non accettano il pensiero sul bello e sul brutto senza la nozione di bene e di male, di giusto e sbagliato, così su un piatto della bilancia dell'arte sta l'estetica e sull'altro l'etica. Considerato sotto questo angolo, il Mediterraneo si può trasformare in sensibilità e pensiero.
    Il Mediterraneo è un tavolo di nozze. Questo titolo potrebbe essere ingannevole, perché il Mediterraneo non rappresenta un insieme univoco. Esso ricorda piuttosto la formazione di una pianura o l'emersione di un atollo, un'unità di mosaici. Le tre religioni monoteiste, che formano la civiltà mediterranea attuale, sono come i tre piani di un palazzo. Nei tre piani ci sono tre imperi: quello greco, quello romano e quello ottomano. Altri locatari stanno nel piano terra: gli stati omayyade e abbaside degli Arabi, gli stati della Mesopotamia e dell'Anatolia. Decine di popoli e civiltà.
    Il teatro, i giochi, si fanno sulla scena del medio oriente, cioè del Mediterraneo orientale: non la culla di tutte le civiltà, ma quella della civiltà orientale, che ingloba l'Europa e l'America del nord.
    L'estetica marxista, caduta in disgrazia in questi tempi, per delle cause politiche indipendenti dall'essenza della creazione artistica, basa l'opera artistica sulla vita sociale. La vita sociale è vissuta sullo scenario della natura. La natura e la vita, cioè la realtà inesauribile, la religione e il mito, creano nell'immaginazione e nell'anima del poeta e dell'artista la linfa dell'ispirazione. Un'opera artistica non è forse, malgrado tutto, una produzione artistica estetica, che un individuo realizza da solo e che riflette la sua struttura mentale e psicologica? Dove e come nasce e vive questo individuo artista, in quale regione storica, sociale e geografica? Considerata da questo punto di vista, l'opera artistica non è soltanto una produzione individuale, ma anche quella di una struttura mentale e psicologica comune, c'è cioè un'identità maggiore, che fa che un'opera d'arte esista. L'identità propria di ogni artista (l'identità minore) è una particella di questa identità maggiore. Per questa ragione, ogni opera d'arte è l'impronta digitale dell'identità minore e maggiore allo stesso tempo. Questa impronta digitale fa di Kavafis un elleno di Alessandria. Seguendo questo ragionamento, l'essere mediterraneo (la mediterraneità), potrebbe essere considerato un'identità maggiore? Penso che l'identità maggiore porti in sé qualità nazionali. Il Mediterraneo può essere un crocevia dove si incontrano le identità maggiori. Ciò vuol dire che il Mediterraneo deve essere proprio come la religione e la mitologia, una delle componenti dell'identità maggiore nazionale. Per questa ragione non c'è una sola identità mediterranea, ma ce ne sono tante. Come per quel che riguarda il mar mediterraneo, anche per l'identità mediterranea esistono fatti di secondo e terzo grado. Come il mare mediterraneo che si apre ad altre acque, grazie a Gibilterra, Suez, i Dardanelli e il Bosforo e si nutre delle acque delle terre confinanti, così l'essere mediterraneo si nutre di civiltà, culture e credenze delle terre che circondano le sue e che lo immunizzano.
    Si può parlare di tre cerchi che circondano il Mediterraneo insito in un atto artistico, dall'esterno verso l'interno:
    Primo cerchio: le religioni e la mitologia. Le religioni mesopotamiche, le religioni anatoliche e le loro derivate, il giudaismo, il cristianesimo e l'islam; le mitologie mesopotamiche, anatoliche e greche; l'umanesimo.
    Secondo cerchio: la civiltà greco-romana, quella araba medio orientale; gli elementi geografici (il clima, la flora, ecc.), le religioni, le sette, i riti.
    Terzo cerchio: le strutture intellettuali ed emozionali, riflessi della cultura nazionale, le storie locali, le lingue nazionali, il folklore.
    Ho davanti a me un piccolo libro: parla di un uomo che ha consacrato tutta la sua arte a riflettere ed illustrare l'anima e il pensiero mediterranei, un uomo simbolo del Mediterraneo, Albert Camus. Camus definisce così il Mediterraneo: "Questo gusto trionfante della vita, ecco il vero mediterraneo", "Mediterraneo è un clima di pensiero e di sensibilità, quello della luce, del mare, del sole e della vita"(Presentazione della rivista Rivages).
    In questo libro, che sta davanti a me, sul tavolo, si enumerano, partendo dall'opera di Albert Camus, le proprietà costituenti che potrebbero figurare nell'opera di uno scrittore mediterraneo, circondato dalla cultura e dall'umanesimo mediterranei: ardore di vita, certezza della morte, fede nell'uomo, gusto della bellezza, preoccupazione per l'armonia umana, bisogno d'ordine e di misure, fratellanza terrestre ed esigenza di verità.
    Non mi chiedo se il Mediterraneo esista o no. Non ce n'è uno, bensì tanti. Tra questi, due sono abbastanza concreti, visibili e tangibili: da una parte, in un cortile circondato da mura elevate, attorno ad uno zampillo e a una piscina diventata il Mediterraneo, vive il Mediterraneo introverso, mistico e musulmano; dall'altra parte, davanti alla porta, per la strada, sulle piazze vive il Mediterraneo cristiano e metafisico. Dall'uno la passione senza limiti di un sub; dall'altro quella d'un alpinista. Il Mediterraneo è al contempo realista e metafisico e il vero Mediterraneo, cioè il vero poeta mediterraneo è allo stesso tempo sub e alpinista. Ecco, in sintesi, le terre del poeta mediterraneo: un paese dalla notte limitata, il cui giorno è senza confini. Così nel suo ufficio, come anche nella sua cella, egli ha il cielo e il mare.
    Quanto a me, che vi trasmetto queste rivelazioni, sono uno sciamano mediterraneo!

  10. #10
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    Predefinito Re: [archivio al 12/09/2006] Sugli scaffali dello scanto c'è...

    da "Brividi cyberpunk a Hong Kong"

    (la discussione è molto lunga, e non mi è stato possibile estrarre post singoli senza che il loro contenuto apparisse snaturato o oscuro)

    Automatic Jack ha scritto sab, 29 gennaio 2005 alle 21:14
    Articolo trovato in rete su Paolo Soleri, teorico delle Arcologie:

    Hyper Building -

    Un'Arcologia di Paolo Soleri per il nuovo millennio

    Architettura ed ecologia si fondono in un progetto estremo

    di Vittorio Caffi



    Vista sulla piazza interna



    E' in pieno Deserto Mojave, giusto a metà strada tra Los Angeles e Las Vegas, simboli estremi della civiltà dei consumi contemporanea, che Paolo Soleri ha collocato il suo progetto urbano più recente: Arcology Major, o Hyper Building.
    Si tratta dell'ultima versione di Arcologia, il concetto di città secondo l'architetto di origine torinese, che segue a Mesa City, concepita per essere scavata negli altopiani dell'Arizona; ad Arcosanti, comunità sperimentale presso Cordes Junction, sempre in Arizona, in cui il pensiero di Soleri sta prendendo lentamente forma; alle città spaziali scavate negli asteroidi, luogo di pace e occasione di progresso per l'umanità, disegnate in aperta polemica con i progetti di militarizzazione dello spazio promossi dal governo USA negli anni '80.
    Laureato in Architettura a Torino, allievo di Wright a Taliesin West nel 1947, Soleri ha fatto propria la concezione organica del maestro, mentre ne ha rifiutato l'idea di città diffusa, estesa sul territorio, per proporre il proprio pensiero urbano, che ha chiamato Arcologia.
    Arcologia è la sintesi di due discipline, Architettura ed Ecologia, che si fondono per dare vita a un nuovo progetto di città, una città condensata, in cui edifici e attività umane raggiungono il massimo della concentrazione, in maniera opposta rispetto a ciò che succede nelle città contemporanee, dove vi è il massimo della dispersione: "Arcologia - dice Soleri è l'implosione della megalopoli, della città moderna, in un denso, complesso ambiente urbano che cresce verticalmente".
    Concentrazione e complessità, governate dall'utilizzo accorto della tecnologia, secondo Soleri sono la soluzione per una città nuova, più efficiente, contrapposta alla città contemporanea dominata dall'automobile e caratterizzata dall'inquinamento, funzione diretta dello spreco che in essa si consuma: spreco di spazio, di energia, di risorse.



    L'evoluzione urbana secondo Paolo Soleri: Suburbia, Megalopoli, Arcologia




    Le Arcologie, al contrario, ne ottimizzano l'utilizzo, riducendo così l'inquinamento, e limitano al massimo lo scempio del territorio dovuto a una espansione incontrollata.
    Hyper Building, l'espressione estrema di tale visione, è stato concepito per ospitare su una superficie di 1 Km2 una popolazione di 100.000 abitanti, la stessa che a Los Angeles è distribuita su 33 Km2.
    Il sito per l'insediamento è stato scelto, coerentemente al disegno generale, con l'intento di sfruttare terre desertiche, evitando di gravare ulteriormente regioni fortemente antropizzate.
    "Man mano che la crescita della popolazione mondiale continua ad aumentare oltre quelle che sono le risorse disponibili sulla terra - dice Soleri nelle note che spiegano la concezione del progetto - diventa evidentemente imperativo preservare gli equilibri naturali sviluppando le terre marginali - le regioni aride -.
    E' essenziale imparare a vivere efficientemente in queste terre marginali, conservando risorse ed energia per creare microclimi adatti alla sopravvivenza dell'uomo - come quello in Hyper Building".
    Le regioni desertiche offrono inoltre la possibilità, grazie al forte irraggiamento solare , di produrre le grandi quantità di energia di cui un organismo complesso come questo necessita.
    La scelta del Deserto Mojave quale sede di Arcology Major ha anche un significato particolare e simbolico, l'ubicazione di questo edificio segna infatti un'aperta polemica nel confronti delle città contemporanee. "Hyper Building - dice ancora Soleri - si erge in contrasto a quegli estremi della moderna società - Los Angeles e Las Vegas - come sede per l'evoluzione della cultura dell'uomo".




    Prospetto



    Questa città-edificio è costituita da una torre alta 1.000 metri, avente diametro alla base di circa 250 metri, collocata al centro di un basamento del diametro di circa 900 metri, costituito da due esedre. E' un sistema molto compatto, che ospita in sé pressoché tutte le attività urbane e consente di preservare il terrìtorio, non più minacciato dall'espansione incontrollata della città, la cui estensione si limita alle dimensioni dell'Hyper Building.
    A ciascuno dei due elementi menzionati Soleri assegna una connotazione precisa, a sottolineare il loro essere complementari. La torre è denominata "il maschio", il basamento invece è indicato come la struttura "femmina" che, radicata nel sottosuolo, accoglie entro di sé in prevalenza funzioni di servizio: infrastrutture per la circolazione, uffici e centri commerciali, parchi, ospedali, centri culturali, impianti tecnologici, fra gli altri molto importanti quelli per gestire le riserve idriche.




    Sezione sulle esedre; copertura a verde, Garment Architecture ed effetto abside sono gli strumenti passivi per regolare il microclima di questi spazi




    Le esedre, due elementi concentrici rivolti a sud, grazie alla loro forma sono in grado di offrire schermo ai raggi solari, secondo il principio che Soleri ha sperimentato negli edifici di Arcosanti e che chiama "effetto abside": nei mesi estivi, quando il sole è a picco, la struttura ombreggia lo spazio sottostante mentre d'inverno il sole basso sull'orizzonte scalda l'interno delle volte. Schermi protettivi trasparenti od opachi, Garment Architectures da mutare secondo la stagione, possono essere collocati a coprire questa parte dell'edificio per meglio controllare l'irraggiamento solare. Una copertura a verde sui terrazzamenti esterni al doppio emiciclo, che produce ombra e contribuisce al raffrescamento del sistema, è un ulteriore accorgimento per controllare il microclima negli spazi delimitati dalle esedre.





    Sezione




    La torre, la struttura centrale, è organizzata su otto piani principali, o Terre secondo la terminologia di Soleri, con l'intento di creare spazi di ampio respiro, a scala umana. Ciascuna di queste Terre, a sua volta, costituisce uno spazio aperto multilivello e ospita residenze, spazi verdi, centri culturali, servizi per l'educazione, ospedali e alberghi.
    A metà della torre una grande serra, Park Terra Greenhouse, offre agli abitanti di Arcology Major un ambiente naturale che fa dimenticare l'arido deserto circostante. Altre serre, a livelli differenti, danno vita ad ambienti altrettanto diversi in funzione dell'altezza a cui si collocano.
    Le attività ospitate nella torre sono stratificate in maniera da creare punti focali, attraverso i quali gli abitanti sono stimolati a muoversi, il che contribuisce a rendere viva la città. Il sistema delle infrastrutture di trasporto, vitale per qualsiasi sistema urbano, qui lo è a maggior ragione, poiché ad esso si deve la capacità di creare quello che Soleri chiama Urban Effect: il pulsare della vita e delle attività nell'edificio, da un livello all'altro, dipende dal collegamenti interni che sono assicurati da un articolato sistema di ascensori e montacarichi che provvedono alla circolazione di persone e merci. Per quanto riguarda i problemi di sicurezza, un complesso sistema di scivoli, scale e un eliporto situato sul tetto della torre permettono l'evacuazione degli occupanti in tempi brevi in caso di pericolo



    Schema dei trasporti



    Un immenso parcheggio sotterraneo, in grado di ospitare 64.000 veicoli privati e 30.000 veicoli commerciali, si trova ai piedi della torre. Le automobili, che evidentemente nella concezione dell'architetto torinese non sono il mezzo di trasporto principale degli abitanti di Arcology Major, si affiancano a un sistema di trasporti a scala regionale, basato su una linea ferroviaria ad alta velocità di tipo Mag-Lev, il treno a levitazione magnetica, che assicura i collegamenti con le città più vicine, Los Angeles e Las Vegas, e con gli altri Hyper Building destinati a crescere nell'intorno del primo insediamento: Soleri prevede che al primo si affianchino almeno altri tre complessi simili, dando vita a quello che egli chiama Quartet in Arcology Major. Ulteriore sviluppo del progetto prevede inoltre due esedre a fianco del primo edificio e lo sviluppo di uno Urban Ribbon, un "nastro urbano" ad alta densità sviluppato secondo i principi dell'Arcologia lungo gli assi dei trasporti regionali.



    I flussi energetici: tecnologie attive e passive si integrano per la produzione di energia e per la regolazione del microclima in Hyper Bulding.



    L'approvvìgionamento energetico di questi insediamenti si basa sullo sfruttamento di fonti convenzionali quanto di energie alternative. La concezione di tutto il sistema, inoltre, gioca un ruolo importante nel diminuire il fabbisogno di base. Il ridotto utilizzo delle automobili per gli spostamenti, dovuto alle distanze brevi e all'alta concentrazione delle attività nell'Hyper Building, unicamente al ridotto traffico di veicoli commerciali per l'approvvigionamento di cibo che qui è prodotto nelle serre, comporta un notevole risparmio di risorse energetiche.
    Le fonti di energia alternative previste per l'insediamento abbracciano una vasta gamma di mezzi di produzione, attivi e passivi. Si sono già menzionati l'effetto abside e le Garment Architectures, unitamente alle coperture verdi, per mitigare gli effetti del forte irraggiamento estivo e sfruttare i benefici del basso sole invernale. I sistemi di ventilazione sono previsti tali da poter sfruttare le correnti di aria calda e di aria fredda con l'effetto camino.
    A questi si affiancano sistemi attivi, quali mulini a vento e pannelli fotovoltaici per la conversione rispettivamente dell'energia eolica e della luce solare in energia elettrica. Ciascuna di queste due tecnologie applicate all'Hyper Building, secondo il disegno di Soleri, arriverebbe a produrre 10 Megawatt di energia per ora.
    Il progetto dell'architetto torinese distingue in maniera molto precisa tre fasi successive per la realizzazione dell'intero complesso.
    La prima fase prevede, dopo la scelta del sito, lo scavo e la realizzazione degli impianti necessari per costruire e rendere operativo il basamento della città. Questa prima struttura, che si estende da circa 200 metri sotto il livello del suolo fino a 125 metri fuori terra, comprende le esedre e la base su cui si innalzerà la torre. Un elemento primario del sistema strutturale è costituito dai nuclei di servizio impiantistico e dagli ascensori, insieme a una griglia di colonne poste a un intervallo di 15 metri ciascuna. Terminata questa fase, comincia la vera e propria crescita urbana, durante la quale viene costruita la prima parte del fusto centrale, fino a un'altezza di 460 metri. Durante la terza e ultima fase Hyper Building viene completato fino a raggiungere l'altezza prevista di 1.000 metri.
    Soleri pone l'attenzione sulla necessità, tanto più sentita visto le dimensioni dell'insediamento, di attrezzature automatizzate per la gestione di cantiere, con dispositivi di costruzione robotizzati, che serviranno anche, a esecuzione avvenuta, per il controllo in continuo delle condizioni dell'edificio e per la sua manutenzione.
    Si tratta di un progetto ardito e di grande complessità, un progetto estremo collocato in un ambiente estremo. A ragion veduta ci si potrebbe chiedere quale sarebbe l'effettivo impatto ambientale di una struttura così grande sul deserto e su un intorno più vasto.
    Gli aspetti di reale interesse del progetto tuttavia sono ben altri, tali da farne passare in secondo piano anche la dimensione utopica. E ciò non solo perché il termine utopia non piaccia a Soleri - chi lo conosce lo sa - il quale ha sempre dato una connotazione molto concreta ai propri lavori: la costruzione di Arcosanti ne è la riprova.
    I problemi della sostenibilità, della riduzione dei consumi e degli sprechi, di uno sviluppo urbano compatibile con gli equilibri ambientali, sono tutti aspetti concreti e attualissimi che Soleri, nel proprio impianto teorico di Arcologia e in particolare in questa Arcology Major, tratta con estrema lucidità e lungimiranza. Le radicali soluzioni prospettate, quali la concentrazione della città, con la conseguente riduzione degli spostamenti e del traffico di veicoli, l'utilizzo su vasta scala di energie alternative a integrare le fonti tradizionali, i sistemi attivi e passivi per controllare il microclima, dimostrano la profonda consapevolezza che il passaggio verso la cosiddetta città sostenibile necessita grandi cambiamenti culturali e non vuole dire rinuncia alla tecnologia che è anzi strumento indispensabile per rendere fattibili strategie di gestione urbana diverse da quelle consolidate.
    L'opera di Soleri - insieme a due lavori analoghi rispettivamente dell'olandese Rem Lookhaas, che ha progettato un Hyper Building per Bangkok, e del giapponese Nobuaki Furuya - è la base sulla quale è stato costruito il lavoro che il National Building Center of Japan, centro di ricerca giapponese sulle costruzioni, ha promosso con l'Hyper Building Research Committee e che ha come obiettivo quello di sviluppare un modello di città per il prossimo secolo e il prossimo millennio che sia in accordo con questioni di compatibilità ambientale e sviluppo sostenibile.
    L'Hyper Building Research Committee vuole delineare una strategia efficace per rendere realizzabile il concetto urbano che sottende Hyper Building, lo sviluppo della città in verticale, con una densità molto alta e una concentrazione di attività eterogenee nella stessa area. Un intento di stimolare lo sviluppo tecnologico dell'industria delle costruzioni è tra gli obiettivi dichiarati della ricerca, oltre a quello di realizzare un Mini-Hyper Building, a dimostrare la fattibilità del progetto.
    Un interesse dei ricercatori e delle aziende giapponesi - quaranta sono le compagnie coinvolte in questo progetto, tra le quali Shimizu Corporation - è la conferma che Arcology Major, la visione urbana di Paolo Soleri, è qualcosa di più di un'utopia o dì un esercizio progettuale fine a se stesso. Si tratta di un'opera proiettata nel futuro, un progetto che si è detto estremo, non solo per la scala progettuale ma, soprattutto, per l'estrema concretezza dei temi affrontati.



    Bibliografia

    P.Soleri, Arcology, the City in the image of the man, MIT Press 1970
    P.Soleri, The Sketchbooks of Paolo Soleri, MIT Press 1971
    P.Soleri, Arcosanti - An Urban Laboratory?, Avant Books 1983
    P.Soleri, Hiper Bulding, Cosanti Foundation 1997
    The Building Center of Japan, Hyper Building, Tokio 1997





    ______________________________________


    Ecco, io non ci vivrei, potendo scegliere


  11. #11
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    Predefinito Re: [archivio al 12/09/2006] Sugli scaffali dello scanto c'è...

    da "Voce sola"

    BodyKnight ha scritto dom, 27 marzo 2005 alle 17:17
    "[...]La storia siamo noi
    siamo noi che scriviamo le lettere
    siamo noi che abbiamo tutto da vincere
    o tutto da perdere.[...]"
    [Francesco De Gregori; La Storia]


    In questi giorni ho ritirato fuori il mio De Gregori e mentre sentivo La Storia ho ripensato ad un testo che qualcuno mi aveva letto. Sono andato a ricercarmi la pubblicazione su cui quel testo appare; è un piccolo libricino marrone; la presentazione sul risvolto della sovracoperta recita così:
    "Un secolo di testamenti olografi («Di proprio pungno personale») tratti dagli Archivi notarili o di stato dal curatore, Salvatore De Matteis, che li ha scelti e divisi in sezioni per argomento. Sono voci solitarie, senza altra mediazione che non sia la scrittura segreta, invocanti una memoria che non ha altro appiglio se non l'estrema testimonianza di sé; esprimono riconoscenza, odio, risentimento; oppure sono canti d'amore per la vita, l'umanità, il cosmo; o banali, inattendibili disposizioni. Il loro tempo è una superflua eternità."
    E' una lettera sgrammaticata e forse delirante, ma non so, io l'ho trovata molto tenera; non è forse vero?


    §

    Mia cara mamma,
    scrivo dalospedale del campo ferito grave da unazione volontaria. Non ci stanno medicine. Il Capitano ha detto che se muoro la danno a te. Tu la fai vedere a tutti. Non lo dici che non ci volevo andare all'azione per un presentimento.
    Vorrei tornare a casa per accudire le bestie. Tu sei vecchia. Se non torno, Stella è libera di maritarsi. Le lascio il casamento, le bestie e la terra nostre. Stella deve aver cura di te, sempre. È meglio però se aspetta un poco. Se ce la faccio a tornare la sposo. Ci voglio bene da ragazzo. Un polentone mi aiuta. È uguale al nemico, ma è amico. Dice che te la portiamo insieme la medaglia. Io credo che viene solo lui perché è più fortunato. Se viene, si chiama Daniele Berto. Facci conoscere a Stella.
    Un bacio e un abbraccio forte.


    NOTA: Il testamento risulta pubblicato dalla signora «Stella» coniugata con «Daniele Berto». Al verbale di pubblicazione del testamento sono stati allegati gli estratti di morte dei ragazzo e di sua madre.


    §
    Ph@ntom ha scritto dom, 27 marzo 2005 alle 18:40
    ...siamo noi che scriviamo lettere. Tenerissima davvero.
    Quest'estate ho recuperato, nella casa dove vado solitamente in vacanza, un paio di scatole che se ne stavano lì da svariati anni. Tra i quaderni ho scoperto una lettera spedita alla bisnonna da parte di una persona che sapevo essere morto nella ritirata in Russia. In sostanza le rimproverava di scrivergli poco. I due erano compagni; poi più o meno ha capito cosa era successo (e le conferme ufficiali, si sa...), e s'è sposata.
    La posto se riesco a ritrovarla.
    Big Chief Silver Eagle ha scritto lun, 28 marzo 2005 alle 19:39
    In quel libro ci sono anche estratti di una cattiveria e una sottile malvagità soprendenti, perfino delle magistrali vendette:

    "Spiacente di avervi conosciuto"

    "Ho scritto questo mio testamento la notte del 23 aprile 1954 alle ore 01 cioe' praticamente il giorno 24 aprile 1954 mentre ero in servizio in clinica. Credo che questa data e' significativa perche' coincide col mio onomastico. Per la speciale ricorrenza di cui mai una volta vi siete ricordati, ho deciso di fare io a voi un regalo: vi comunico di avervi diseredato.

    Ho infatti alienato gradualmente il mio patrimonio immobiliare e donato il danaro che ne ho ricavato. Mi auguro di avere tempo e abilità sufficiente per sottrarvi cio' che resta. Nel caso tuttavia che mi sopravvivessero dei beni, ne nomino beneficiario la clinica sperando che conoscendo i nostri reciproci sentimenti, abbiate l'orgoglio e il buon gusto di non impugnare il presente testamento.

    Siete dunque sul lastrico e da qualche anno vivete al di sopra delle vostre possibilita'. Quando ne sarete informati, sara' tardi per ogni rimedio e avrete finalmente un buon motivo per portarmi rancore per tutto il resto della vostra vita.

    Spiacente di avervi conosciuto. Mi auguro di non rivedervi mai piu'."



    Oppure anche degli scritti che sebbene tragici, sono di una involontaria comicità:

    "Se morirebbe prima mia moglie"

    "Testamento di me medesimo malato tisico (1) lucido di mente, scritto a mano contro mia moglie Maria Cannavacciuolo maritata Buonomo Gennaro che sarei io.

    Se morirebbe prima mia moglie di me sarei grato a San Gennaro a ceri e fiori finacche' campo. Ma lei si è sempre curata bene e schiatta di salute alla faccia mia che non ce speranza, io credo.

    Approfitto della controra che sta' stravvaccata sopralletto per scrivere nascostamente nel gabinetto su carta tipo igienica (2) il mio lascito testamento di robbe poche ma stentate, col sudore della fronte per tutta una vita onesta ma sfortunata. Che se si sveglia sono mazzate.

    Non avendo la infamona fatti i figli perche' e' arida di panza e di cuore (3), lascio il basso di abitazione a mio nipote Libberato figlio di mio fratello Vittorino.

    A mia nipote Italia, sempre figlia di Vittorino, lascio per dote la mobilia con la biancheria di correto, l'anello mio, la catenina e il curniciello (4) della buonanima del nonno.

    Non cio' altro.

    Quando saro' morto dovete cercare il mio testamento qui presente dietro all'armadio. Se non lo cercate dietro all'armadio non lo trovate, e allora e' inutile che lo cercate."

    (1) Malato di tisi o rinsecchíto per altro male.

    (2) Il testamento è scritto su un foglio di cartapaglia usata per incartare.

    (3) Cioè la moglie è sterile, ma lo dice con cattiveria.

    (4) Un piccolo corno di corallo cui si attribuiscono poteri antifattura.



    Altri estratti qui: http://www.notaio.org/notarile.htm

  12. #12
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    Predefinito Re: [archivio al 12/09/2006] Sugli scaffali dello scanto c'è...

    da "My heart, a barless prison..."

    Emack ha scritto mer, 06 ottobre 2004 alle 14:03
    da repubblica.it

    A Roma da domani "Cattività", mostra di Marco Delogu
    ritratti di persone unite da forti esperienze e codici comuni
    Storie di uomini in carcere
    "Che fatica convincerli"
    Estremisti neri, brigatisti: conquistati da una polaroid
    di CRISTINA NADOTTI

    Pierluigi Concutelli
    ritratto da Marco Delogu


    ROMA
    - Una polaroid per scardinare i chiavistelli delle prigioni e svelare i codici della vita carceraria attraverso le storie dei singoli, uomini e donne. "Cattività", la mostra fotografica di Marco Delogu, (a Roma allo Studio Stefania Miscetti, in via delle Mantellate 14, dal 7 ottobre al 6 novembre) è il risultato di un lavoro di cinque anni all'interno del carcere di Rebibbia. Ritratti di carcerati, in bianco e nero e a colori, che come dicono i testi di accompagnamento dello scrittore Edoardo Albinati, catturano "qualche cosa di realmente fedele al significato della loro esistenza".

    "Sono tutte foto realizzate a Rebibbia - precisa Marco Delogu - ma sono simbolo del carcere in generale, potrebbero essere state fatte in un penitenziario qualunque". Quel che più interessa all'autore è ritrarre "l'equilibrio tra identità dei singoli e rapporti che si creano all'interno della comunità". Come ha già fatto con i suoi lavori sui fantini del Palio, sui cardinali in pensione, o sui compositori, Delogu continua la ricerca sui gruppi di persone unite da forti esperienze o linguaggi comuni.

    E quello del carcere è un linguaggio davvero difficile. "All'inizio sembrava quasi impossibile ottenere l'assenso per le fotografie - racconta Delogu - mi ha aiutato l'esperienza fatta nella classe di italiano di Edoardo Albinati, che lavora nel carcere. Alla fine anche i più restii, come il pluriomicida Pierluigi Concutelli e alcuni membri delle Br, hanno acconsentito".

    Un ruolo importante l'ha giocato la macchina scelta da Delogu, una polaroid vecchio modello, di quelle ancora a soffietto, che consentono di vedere subito le foto. Il risultato è un insieme di ritratti che vivono con forza dirompente da soli e parlano in modo inequivocabile di un gruppo che ha un destino già segnato. Come scrive Albinati, sono foto di "spiriti piuttosto che uomini, fantasmi di mezza età, mezzi uomini o spettri troppo umani, in tute da jogging, allenati per ottenere il nulla, sepolti prematuri, vecchi senza decoro di vecchiaia. Sembrano nelle foto ciò che sicuramente saranno".

    Galleria fotografica

    Barbara Ferrandu


    Wassila Ben Ahmed


    Adrovic Zacorka


    Ciocò


    Alessandro Carioli


    Sally Atta-Badu


    Adriana Rinciari


    Nazzareno Zambotti
    michy79 ha scritto mar, 07 dicembre 2004 alle 14:34
    Emack ha scritto mar, 16 novembre 2004 alle 22:48
    Mi ha stupito notare l'esagerata presenza di extracomunitari nelle carceri italiane.
    Durante il servizio civile ho fatto qualche incontro di formazione nelle carceri.
    Lo so che sono discorsi delicati, pero' quelle visite mi hanno messo in discussione sull'utilita' vera e propria delle carceri oggi.
    Se ci pensate: e' molto piu' facile finire in galera perche' si ruba cibo in un supermercato o perche' si truffano milioni di risparmiatori? e' piu' facile finire in galera perche' non si hanno i documenti a posto o perche' si evadono le tasse?
    E quali di quelle sopra esposte sono le malefatte piu' pericolose per la vita sociale?

    Onestamente io sto riflettendo da molto su queste cose.
    Buona giornata,

    Michele

  13. #13
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    Predefinito Re: [archivio al 12/09/2006] Sugli scaffali dello scanto c'è...

    da "Cultura popolare della "poesia contadina"."

    Ph@ntom ha scritto sab, 06 novembre 2004 alle 18:33
    articolo reperibile qui



    LA POESIA ESTEMPORANEA E I POETI IMPROVVISATORI
    di Corrado Barontini

    Nel mondo tradizionale l’improvvisazione poetica in ottava rima è stata spesso al centro di iniziative. Nei momenti festivi, nelle date cerimoniali (befanate e maggi) ma anche nelle pause di lavoro o nelle occasioni di ritrovo, i poeti estemporanei sono stati frequentemente un punto di incontro nello spazio pieno di voci quotidiane rappresentando il pensiero, le rivendicazioni, gli atteggiamenti conformi alla tradizione, ma anche la sapienza e la spontaneità popolare. Così le fiere, gli appuntamenti calendariali, i pranzi di matrimonio, i momenti cerimoniali ecc, insieme agli incontri di poesia a braccio (riunioni fatte per ascoltare i poeti su temi a contrasto) sono divenute le occasioni di maggior diffusione dell’ottava rima cantata. In Toscana - e in particolare in Maremma - questa forma d’arte ha trovato un terreno fertile per affermarsi prima nel mondo pastorale eppoi in quello operaio e contadino rappresentando una forma di riscatto, di denuncia e di opposizione politica con momenti di forte socialità.
    Numerose sono le presenze di poeti nel panorama della poesia estemporanea. Nella nostra regione ci sono ancora in attività una ventina di poeti tradizionali e proprio a Ribolla si realizza tuttora un incontro annuale di poesia improvvisata. Va inoltre ricordato che l’ottava rima ha saputo attirare l’interesse di alcuni personaggi dello spettacolo quali Francesco Guccini, Davide Riondino e lo stesso Roberto Benigni (quest'ultimo in gioventù l'ha praticata andando al seguito di alcuni poeti estemporanei). La Maremma ha dato i natali al poeta Gian Domenico Peri di Arcidosso (1564-1639) "nato poverissimo tra le mandre e i rusticani esercizi imparò solamente a leggere e scrivere" (così dice di lui Eugenio Lazzereschi). Il Peri ci ha lasciato una notevole produzione di poemi in ottava rima. Forma d'arte popolare, l'ottava rima affonda le proprie radici nella struttura metrico-ritmica dei poemi cavallereschi e nonostante la scarsa scolarizzazione dei poeti contadini era frequente sentire chi conosceva a memoria pezzi della Divina Commedia o versi del Tasso, dell'Ariosto e del Cavalier Marino. Anche in questa nostra epoca il "canto improvvisato" è riuscito a mantenere la propria tensione comunicativa grazie alla creatività e alle capacità espressive dei poeti estemporanei che hanno continuato ad improvvisare i loro canti
    "
    …abbia pure la sua trasformazione
    come la vuole la moderna usanza,
    ma se si definisce ottava rima
    ha sempre la sua forma come prima"

    Così scriveva a proposito dell'ottava rima Vasco Cai di Bientina, un maestro dell'improvvisazione poetica del '900. Nei suoi versi pur accogliendo la trasformazione voluta dalla "moderna usanza" ne ribadisce i confini della forma poetica.
    -----------







  14. #14
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    Predefinito Re: [archivio al 12/09/2006] Sugli scaffali dello scanto c'è...

    da "Japanimation e tecno-orientalismo: un'invenzione dell'occidente?"

    Emack ha scritto mer, 29 settembre 2004 alle 14:07
    Perdonate la lunghezza di questo brano.

    Japanimation e Tecno-Orientalismo
    Il Giappone come il sub-impero dei segni


    La parola japanimation è un neologismo formato da Japan e animation. Attualmente la japanimation è diffusa in tutto il mondo e le persone al di fuori del Giappone sono interessate ai prodotti della sub-cultura giapponese compresi i manga, la japanimation, ecc. Se una volta la gente chiedeva "che cosa è lo ZEN?", ora chiede "che cosa significa Otaku?". Ma questa è una situazione che mi lascia molto scettico. Questo fenomeno è senza dubbio un effetto della globalizzazione, del capitalismo informatico. Durante il sistema economico Fordista del passato, la globalizzazione non significava altro che "Americanizzazione" ed i media e l'intrattenimento venivano assicurati dalle animazioni della Disney.

    Tuttavia dobbiamo ora considerare seriamente il fatto che l'ambiente sociale della globalizzazione post-Fordista includerà la japanimation e dovremo ponderare sul significato che ha tutto ciò. In altre parole, la strategia di questo movimento culturale è l'effetto del sub-imperialismo. Secondo Kuan-Hsing Chen, il sub-impero è l'impero dipendente secondario che registra un'egemonia molto più sulla cultura e sull'economia che sul sistema militare. E questa nuova versione dell'imperialismo usa la sub cultura in generale. Analizzando una pellicola di japanimation, vorrei illustrare e criticare il Giappone come il sub impero dei segni.

    Ghost in the Shell

    La pellicola Ghost in the Shell (Lo Spirito nel Guscio) è ambientata nella società dell'AD 2029. Questo prossimo futuro non è informatizzato fino al punto che le nazioni o le identità etniche siano sparite, anche se le reti di molte imprese hanno ricoperto il pianeta con gli elettroni o la luce che le attraversano. In questo mondo, l'Asia orientale è una zona corporativa enorme dominata dalle operazioni informatiche ed economiche multinazionali. In questo mondo, la vita degli esseri umani è intrecciata con le tecnologie più avanzate. È un mondo della cibernetica e delle le reti di informazioni elettroniche più sofisticate, dove la distinzione fra persona e macchina a volte diventa vaga o invisibile. Per alcuni, la realtà è soltanto virtuale. Molti esseri umani in questo mondo si trasformano in cyborg, un misto di uomo e macchina. Ad eccezione del nocciolo centrale del loro cervello, alcuni in questa età hanno già sostituito un corpo cibernetico e prostetico al proprio. Il personaggio principale della pellicola, una donna di nome Motoko Kusanagi, è il capo della "Shell Squad", sezione n°9 del Ministero dell'Interno, che è stata costituita dal governo per combattere i crimini cibernetici e il terrorismo politico nella società informatica. Attraverso la rete, i crimini sono diventati più specializzati e più violenti. La storia della pellicola segue le azioni di un conflitto e di una cospirazione fra alcuni reparti ed alcuni agenti del governo. Gli eventi interessano un hacker sconosciuto che ha il nome in codice "Puppet Master" (Signore dei Pupazzi). Questo super hacker non identificato è iniziato come virus prodotto dal Ministero degli Esteri. Il "Signore dei Pupazzi" può assumere la direzione degli esseri umani per perseguire i propri scopi usando ciò che viene chiamato "ghost hacking".

    Anche se un essere umano in questo mondo può aver trasformato quasi del tutto il proprio corpo in macchina, resta comunque umano fino a quando non gli rimane il proprio "ghost" [spirito]. Il ghost è una specie di spirito, non la mente in generale. È di sicuro l'inconscio, ma è anche la memoria, che può aiutare a trovare l'identità delle persone. Il "Signore dei Pupazzi" afferma che " la memoria non può essere definita, ma definisce l'umanità." Come fosse l'acqua in una tazza, l'identità di un essere umano ha bisogno di una forma o di un guscio [shell] nello stesso momento in cui ha bisogno del "ghost". Non possiamo distinguere fra guscio e spirito negli esseri umani. Il problema non riguarda la dicotomia filosofica tradizionale fra mente e corpo. Piuttosto ci troviamo di fronte ad una questione di base della SF: il cyborg è l'essere umano o la macchina? Che cosa è il sé o l'identità per il cyborg uomo/macchina? La "Shell Squad" come organizzazione prova ad inseguire ed interferire con il "Signore dei Pupazzi" mentre il Maggiore Motoko Kusanagi prova personalmente a rispondere a questa domanda di base, dato che a volte Motoko è scettica in merito alla propria identità e al fatto se abbia o meno il proprio "spirito". Poiché il suo corpo è quasi una macchina, si ritrova ad essere preda di una paranoia secondo cui crede di essere stata creata come androide e fornita di una identità e di uno "spirito" artificiali. Infatti, alcune persone arrestate dalla "Shell Squad" perché ritenute essere il "Signore dei Pupazzi", sono risultate non essere altro che agenti a cui erano state date personalità fittizie attraverso collegamenti neurali cibernetici.

    Non erano altro che "pupazzi senza spirito" ed avevano soltanto immagini e memorie e identità personali illusorie. Questi problemi sono strettamente collegati con le micro-politiche dell'identità compresa l'opposizione e la segmentazione fra classi, generi, origini etniche e "razze". Si può dire che l'essere umano ed il cyborg appartengono a tribù e "razze" differenti. Questo contesto ricorda la problematica della "politica del cyborg" presentata da Donna Haraway. Parlando chiaramente, la domanda da porsi è se il sé sia una mente o uno spirito o se il sé non consista altro che in una tecnologia prostetica che funge da vestito, da guscio. E questo vestito o guscio che si indossa, incorpora forse il corpo e diviene lo stesso sé, o no? Così, come pubblico di questa pellicola, condividiamo la domanda con il Maggiore Motoko: il problema "dell'essenza del guscio nel sé" e la domanda "chi sono io?"

    Il "Signore dei Pupazzi" è comparso alla "Shell Squad" ed esso (o forse lui) parla attraverso un corpo cibernetico senza guscio. Sembra permettere il proprio arresto. Afferma, "io non sono una IA. Sono una entità vivente e pensante che è stata creata nel mare dell'informazione." È facile vedere qui il problema di vita artificiale (VA). Per la vita naturale, il DNA non è nient'altro che un programma destinato alla propria conservazione. La vita, dunque, una volta organizzata nelle specie, conta sui geni per fungere da sistema di memoria di se stessa. Per contro, le tecnologie informatiche e cibernetiche non sono altro che l'estensione (esplosione) della memoria umana.

    Alcuni programmi possono funzionare indipendentemente dal volere umano e così ottengono l'autonomia. Se questi processi diventassero più complessi e specializzati, allora determinati programmi o algoritmi potrebbero diventare più simili alla vita stessa. Naturalmente è molto differente dalla vita in natura, ma almeno possiamo intendere e definire alcuni programmi come Vita Artificiale (VA). In questo senso, il "Signore dei Pupazzi" inteso come VA usa il "meme" e i geni culturali per controllare molti esseri umani e sistemi. Ha un "guscio".

    Capitalismo informatico e Techno-Orientalismo

    Manuel De Landa ha già sottolineato come l'interesse nella VA venga dalla riflessione sul fallimento del paradigma dell'IA. Ha sollecitato da sempre lo spostamento da un approccio dall'alto verso il basso per uno dal basso verso l'alto, in quanto quest'ultimo dipende da processi emergenti ed autonomi nella scienza informatica. In generale, gli esperimenti di Vita Artificiale includono il disegno di una semplice copia di un animale specifico, che deve avere l'equivalente di un insieme di quelle istruzioni genetiche che vengono usate per creare la propria prole e che allo stesso tempo devono essere trasmesse a quella stessa prole. De Landa dice....

    Questa trasmissione deve essere anche "imperfetta ", di modo che si possa generare la variazione. L'esercitazione sarà considerata come riuscita se nuove proprietà, non immaginate dal progettista, emergeranno spontaneamente…"

    Se la VA fosse realmente più d'un semplice programma e potesse trasformarsi in vita, trasmetterebbe alcune informazioni alla propria prole attraverso "la trasmissione imperfetta". Il comportamento e l'intenzione del "Signore dei Pupazzi" in questa pellicola è basato su questa logica. Così alla fine di questa pellicola, il " Signore dei Pupazzi " propone a Motoko di fondersi l'uno con l'altra. Da questa unione lui sarebbe in grado di ottenere la morte, come nella vita reale, mentre Motoko potrebbe generare una prole differenziata nella rete.

    Probabilmente si potrebbe dire che abbiamo già conosciuto il "Signore dei Pupazzi" nella nostra vita quotidiana. In effetti è possibile trovare manipolatori invisibili del mercato e del sistema finanziario. Il mercato ed il capitale sempre più stanno diventando dipendenti da sistemi emergenti e da una logica non lineare. Il termine "emersione" qui indica il cambiamento improvviso di alcune condizioni in ogni sistema o un fenomeno aleatorio che si basa su di una contingenza radicale. Nel paradigma della VA, questa emersione e questo prendere decisioni dal basso verso l'alto in un sistema sono molto importanti. Ecco perché possiamo considerare il lavoro delle grandi società capitaliste e del complicato sistema finanziario virtuale dal punto di vista della Vita Artificiale (o Mercato Artificiale). Non c'è niente che assomigli alla "mano invisibile di Dio", ma ci sono alcune mani invisibili dei "Signori dei Pupazzi". Naturalmente questo non è altro che un processo anonimo, ma almeno si può dire che "Signore dei Pupazzi" è una allegoria del capitalismo informatico. De Landa presenta un punto di vista simile in merito al mercato.("Markets and Antimarkets in the World Economy", in Techno Science and Cyber Culture, Routledge 1996). Ogni sistema replicante che produca copie variabili di se stesso allo scopo di ottenere nuove forme di evoluzione, deve avere bisogno "della manifestazione divergente dell'antimercato". Il mercato per il capitalismo ha voluto sempre dire strutture auto-organizzate e decentralizzate. Ed è sempre stato un "antimercato". L'antimercato è una funzione del processo non lineare del mercato stesso.

    Analizzando questa pellicola più a fondo, andrei alla base stessa di "Japanimation". Perché questo genere di animazione è tanto sviluppato in Giappone? Penso che un motivo riguardi la visione degli occidentali della cultura giapponese. Ed il problema riguarda anche l'orientalismo. Per esempio negli anni 70 quando il complesso tedesco techno-pop dei Kraftwerk usava gesti da androide o da macchina nelle loro rappresentazioni dal vivo, prese come modello gli atteggiamenti degli uomini giapponesi d'affari in Europa. Non dovrebbe sorprendere il fatto che fossero interessati in inchini alla robot e in sorrisi inespressivi. David Morley e Kevin Rovins hanno affermato, nel loro influente libro The Space of Identity, che "gli stereotipi occidentali del giapponese lo ritengono subumano, come se non avesse sentimento, emozione o umanità." ("Techo-Orientalism: Japan Panic", in The Space of Identity, Routledge 1995.) Queste impressioni provengono dall'alto sviluppo della tecnologia giapponese, sono un fenomeno di "Tecno-Orientalismo". La base dell'Orientalismo e della xenofobia è la subordinazione degli altri in varie aree del mondo attraverso una specie di "specchio di presunzione culturale". Affiora tutta una serie di stereotipi allorché delle opposizioni binarie (culturale e selvaggio, moderno e premoderno,…) vengono proiettate sulle posizioni geografiche Occidentale e Non-Occidentale. L'Oriente esiste fintanto che l'Occidente ne ha bisogno, in quanto mette a fuoco il progetto dell'Ovest. Naoki Sakai su questo punto afferma,

    "L'Oriente non denota alcuna comunione interna tra i nomi compresi al suo interno; va dalle regioni del Medio Oriente a quelle dell'Estremo Oriente ed è proprio difficile trovare qualcosa di religioso, linguistico o culturale che sia comune tra tutte queste aree diverse. L'Oriente non è un'unità culturale, religiosa o linguistica. Il principio della sua identità sta al di fuori di sé: ciò che gli conferisce un vago senso di unità è che l'Oriente è ciò che è escluso e oggettivato dall'Ovest, al servizio del suo progresso storico. Fin dall'inizio l'Oriente è un'ombra dell'Occidente."

    Se l'Oriente è stato inventato dall'Occidente, allora anche il Tecno-Oriente è stato inventato dal mondo del capitalismo informatico. Nel "Tecno-Orientalismo" il Giappone, non solo viene localizzato geograficamente, ma viene anche proiettato cronologicamente. Jean Baudrillard definì una volta il Giappone un satellite in orbita. Ora il Giappone è stato collocato nel futuro della tecnologia. Morley e Rovins affermano,

    "Se il futuro è tecnologico e la tecnologia è stata 'giapponizzata', allora il sillogismo suggerirebbe che ora è anche giapponese. Il Giappone è il futuro ed è un futuro che sembra trascendere e spiazzare la modernità occidentale."

    La japanimation viene definita dallo stereotipo del Giappone come immagine del futuro. L'occidente è da una parte sedotto e attratto da questo modello mentre dall'altra il modello del Giappone viene guardato dall'occidente dall'alto in basso piuttosto che essere invidiato. Per di più il complesso nei riguardi del Giappone sembra contenere uno psico-meccanismo simile all'antisemitismo. Come ben si sa il capitalismo giapponese è altamente sviluppato ed è diventato molto potente in diverse aree come gli USA, l'Europa e l'Asia. Il Tecno-Orientalismo vi funziona come un manipolatore del complesso nei confronti del Giappone, in cui il Giappone è l'oggetto di trascendenza dell'invidia e del risentimento delle altre culture e nazioni. Così ora un ruolo che rassomiglia a quello dall'ebreo viene svolto sempre più spesso dal giapponese. Naturalmente è inutile collegare realmente ed essenzialmente ebreo e giapponese. Piuttosto, ebreo e giapponese fungono da figure efficaci del capitalismo informatico.

    L'automa giapanoide


    Ritengo che lo stereotipo del giapponese, che chiamerei 'giapanoide' in quanto non proprio giapponese, non esista ne all'interno ne all'esterno del Giappone. Questa immagine funziona come la superficie o piuttosto l'interfaccia che controlla la relazione tra il Giappone e gli altri. Il Tecno-Orientalismo è una specie di ribalta a specchio o macchina per immagini il cui effetto influenza il giapponese e gli altri. Questo specchio, di fatto, è semi trasparente o a due facce. E' attraverso questa ribalta a specchio e il suo apparato culturale che l'occidente e le altre persone interpretano erroneamente e sbagliano nel riconoscere una cultura giapponese sempre illusoria, ma è anche il meccanismo attraverso cui il giapponese interpreta erroneamente se stesso.

    A differenza della ribalta a specchio lacaniana, è possibile una soluzione completa per questa struttura di disconoscimento per cui un Giappone 'reale' può essere riconosciuto in modo appropriato.

    E' interessante che nel film "Ghost In The Shell", la metafora dello specchio sia molto usata, spesso in modo particolare. In particolare il Signore dei Pupazzi ha sussurrato un brano della Bibbia a Motoko allorché ha cercato di avvicinarla attraverso l'hackeraggio cibernetico. Alla fine del film, il Signore dei Pupazzi dice a Motoko - "Ognuno di noi assomiglia all'essenza dell'altro, immagini a specchio della psiche dell'altro." E dopo che si è fusa col Signore dei Pupazzi, Motoko cita la Bibbia:

    "Ciò che ora vediamo è come una pallida immagine in uno specchio… Poi ci vedremo viso a viso. Quand'ero piccola parlavo sentivo e pensavo come una bambina, ma ora che sono una persona adulta non posso più comportarmi in quel modo futile."

    Ci sono due ribalte a specchio in questo contesto di Tecno-Orientalismo. Una riguarda l'incontro tra l'umano e la macchina, tra l'umano e la rete. E un'altra è nella relazione tra il Giappone e gli altri (occidente, altri asiatici, etc.). Queste due immagini a specchio costituiscono il giapanoide come oggetto di invidia e di odio. Ho già menzionato il fatto che il giapponese è stato spesso deriso a causa dei suoi gesti robotici "automatici". Naturalmente, come ha osservato Freud, c'è una relazione molto stretta tra l'azione automatica e l'umorismo e la risata. Ma qui occorrerebbe riflettere sul perché androidi e robot vengono ridicolizzati e perché la persona derisa diventi simile ad un androide. Rey Chow ha un'analisi interessante in merito alla questione.

    "Nell'operaio alla catena di montaggio di Chaplin, ciò che si vede opera a favore di un'automatizzazione di una figura oppressa i cui movimenti corporei diventano eccessivi e comici. Essere "automatizzato" significa essere soggetto allo sfruttamento sociale le cui origini sono al di là della comprensione individuale, ma significa anche diventare uno spettacolo il cui potere "estetico" aumenta con l'atteggiamento maldestro e incapace dell'individuo."

    Affermare la cultura e l'industria del mondo moderno vuol dire fare appello a "l'altro automatizzato" introducendo il ritmo della tecnologia e della macchina di ogni età nella vita ordinaria. Fino a quando operai, donne ed etnie diverse non sperimenteranno un cambiamento radicale nelle condizioni di lavoro per mezzo dell'alta tecnologia, l'immagine della bambola automatizzata rimarrà imposta su di loro. Questa immagine è impressa anche sul popolo-nazione che si adatta in modo ampio alla mutazione delle condizioni tecnologiche. Non occorre dire che il giapponese viene visto come "l'altro automatizzato". La japanimation, che organizza l'immagine dell'automazione e dell'animazione (dando ad essa una forma di vita), costruisce e presenta un "Giappone" come una "cultura automatizzata " e come il "giapanoide" in "Tempi Postmoderni".

    E' utile tornare al "Signore dei Pupazzi" in questa pellicola, perché il "Signore dei Pupazzi" ci ricorda del controllo dell'automa. Colui che è controllato non pensa di essere un pupazzo, ma di fatto si comporta come un pupazzo controllato da un signore. E' la stessa cosa con la relazione di un'ideologia in genere nei confronti degli esseri umani. Motoko, come donna cyborg, pensa a se stessa come ad un "automa animato". Allo scopo di riempire il proprio vuoto (come cyborg, come donna, come minoranza, etc.), accetta la proposta di fondersi con il "Signore dei Pupazzi". Come minoranza abbandonerà il proprio "guscio" per un sistema più ampio e per la rete. A sua volta il "Signore dei Pupazzi", come sistema, raggiungerà la morte ed il cosiddetto ciclo della vita. Rey Chow ha già definito la strategia del cyborg femminista come rifiuto dell'opposizione binaria soggetto-umano-maschile/automa-effeminat o.

    Chow afferma che questa strategia "mantiene la nozione dell'automa, la bambola meccanica, ma cambia il suo destino dandogli vita con un aspetto differente. E' l'aspetto della femminista critica. Il suo potere di animazione ci riporta forse al linguaggio di Dio, un essere superiore che conferisce la vita ad un inferiore?" Si chiede Chow. Questo è il compito del cyborg in quanto mezza macchina, mezzo animale ed essere trasgressivo. Di conseguenza quando un soggetto raccoglie queste tattiche di trasgressione, diventa inconsciamente come un cyborg. Così per la femminista cyborg questa strategia deve essere estesa al di là della "minoranza animata ed oppressa". Le femministe cyborg devono rendere la situazione automatizzata e animata delle proprie voci come il punto di partenza cosciente nel loro intervento. Abbandonando e sacrificando la propria identità e il proprio guscio al "Signore dei Pupazzi", Motoko adotta la strategia del femminismo cyborg.

    "L'Automa Giapanoide" può essere rigettato in questo modo, ma questo rifiuto e questa resistenza sono sempre venute meno nella sub cultura giapponese. La cultura a-nazionale (non-nazionale) del Giappone e del giapponese (giapanoide) è "animata e automatizzata" in quanto non occidentale e non asiatica. In questo clima culturale un Giappone immaginabilmente separato sia dall'occidente che dall'oriente viene continuamente riprodotto nell'inconscio politico della japanimation (sub cultura). Anche se la japanimation ha spesso enfatizzato il panorama dell'Asia e del Giappone nel futuro immediato, essa indica l'operazione di dimenticare e nascondere la reale situazione dell'Asia e del Giappone. In un certo senso la japanimation è un apparato ideologico allo stesso tempo in cui è anche (virtualmente?) un armamento critico.

    Perché mai i panorami asiatici eccitano l'immaginazione cyberpunk? Di sicuro sarebbe possibile ridurre il problema all'influenza del film Blade Runner. Ma si dovrebbe considerare che la japanimation ha illustrato la mutazione dello stesso capitalismo globale appropriandosi dell'illusione dell'Asia o del Giappone. Scegliendo Hong Kong come scena di questo film e cercando di visualizzare la rete informatica e il capitalismo, il regista di questa pellicola, Oshii Mamoru, inconsciamente ha cercato di criticare il sub-imperialismo del Giappone (e delle altre nazioni asiatiche).

    La japanimation sta attraversando la diaspora culturale nel mondo ed è tradotta, comunicata e male interpretata. Si dovrebbe citare il brano da A Cyborg Manifesto di Donna Haraway: "Non c'è modo di leggere la lista seguente da una angolazione di "identificazione", di senso personale unitario. Il risultato è la dispersione. Il compito è di sopravvivere nella diaspora." Se l'immagine del guscio e della tuta nel cyborg è stata emozionante, non sarà vano scoprire "l'altro automatizzato" in varie espressioni e nello stesso capitalismo dell'informazione globale. E' un altro modo di "animare" l'altro e la minoranza.

    © Toshiya Ueno,

  15. #15
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    Predefinito Re: [archivio al 12/09/2006] Sugli scaffali dello scanto c'è...

    da blob webbico: Relativismo, Dio, migrazione culturale (?).

    Ph@ntom ha scritto ven, 16 luglio 2004 alle 16:55
    Gran parte dei caratteri sotto riportati è stata ottenuta da una semplice ricerca con Google. Enjoy.


    http://www.encuentra.com/includes/docume nto.php?IdDoc=3860&IdSec=380
    http://www.encuentra.com/includes/docume nto.php?IdDoc=3860&IdSec=380[/url]] http://www.encuentra.com/includes/docume nto.php?IdDoc=3860&IdSec=380]
    ¿Qué es el relativismo?
    ¿Tu y yo tenemos verdades distintas? ¿Tiene alguien derecho a imponerme sus valores? Conoce el peligro de aceptar una tendencia que considera inexistentes las normas de conducta universales para todos los seres humanos
    “Las condiciones de supervivencia de la humanidad no están sujetas a votación: son como son”. Robert Spaemann
    ¿Existen valores absolutos?
    Cuenta Peter Kreeft que un día, durante una de sus clases de ética, un alumno le dijo que la moral era algo relativo y que él como profesor no tenía derecho a imponerle sus valores.
    Jacques Maritain, Il contadino della Garonna

    "La Verità con la V maiuscola che mai vuol dire? Quid est Veritas, dobbiamo riconoscere che quel procuratore vedeva giusto e che era anzi all’avanguardia. Bisogna mettere solo minuscole ovunque. "Tutto è relativo, ecco il solo principio assoluto", diceva già il nostro Padre Auguste Comte. Poiché l’abbiamo fatta finita con il positivismo classico, è vero, ma il fatto è che noi viviamo nel mondo di Auguste Comte: la Scienza (lato della ragione) completata dal mito (lato del sentimento)."
    Abbagnano-Fornero
    Il sistema di politica positiva è diretto esplicitamente a trasformare la filosofia positiva in una religione positiva.
    Nietzsche, http://lgxserver.uniba.it/lei/scuola/car elli/Nietzsche.htm
    http://lgxserver.uniba.it/lei/scuola/car elli/Nietzsche.htm[/url]] "Siamo stati noi ad ucciderlo: voi ed io! Siamo noi tutti i suoi assassini! Ma come abbiamo fatto questo? […] Che mai facemmo, a sciogliere questa terra dalla catena del suo sole? Dov'è che si muove ora? Dov'è che ci muoviamo noi? Via da tutti i soli? Non è il nostro un eterno precipitare? E all'indietro, di fianco, in avanti, da tutti i lati? Esiste ancora un alto e un basso? Non stiamo forse vagando come attraverso un infinito nulla? Non alita su di noi lo spazio vuoto? Non si è fatto più freddo? Non seguita a venir notte, sempre più notte? Non dobbiamo accendere lanterne la mattina? Dello strepito che fanno i becchini mentre seppelliscono Dio, non udiamo dunque nulla?... Dio è morto! ... E noi l'abbiamo ucciso!"

    (La Gaia scienza, Ed. Adelphi, pagg. 129-130).
    Antonio Calmieri, culturacattolica.it
    sono stato "scosso" anche da un'altra vigorosa affermazione del Papa: lo stato laico e democratico non può essere uno stato senza valori. Del resto sul tema già le parole del presidente del Senato Marcello Pera erano state inequivocabili: "Anche noi non vorremmo che la nostra democrazia si alleasse con il relativismo etico, del quale invece temiamo le conseguenze. Come potremmo apprezzare, sostenere, difendere le nostre conquiste se ad esse fosse estraneo ogni concetto di verità o di approssimazione alla verità?".
    http://evangelici.altervista.org/relativ s.html
    http://evangelici.altervista.org/relativ s.html[/url]]
    Ormai per chi crede in principi morali assoluti, per chi crede nella verità assoluta sono stati coniati due termini, entrambi dai connotati oggi fortemente negativi: "integralisti" o "fondamentalisti". E, questo, con un atteggiamento contraddittorio, perché in un contesto di relativismo coerente anche gli assolutismi dovrebbero trovare accoglienza e tolleranza.
    http://www.emmabonino.it/press/about_emm a_bonino/1028
    http://www.emmabonino.it/press/about_emm a_bonino/1028[/url]]
    RELATIVISMO CULTURALE E IPOCRITA
    di Massimo Lensi

    Inaccettabile: non ci sono altre parole per giudicare l’infibulazione "dolce" proposta dal Comitato di riferimento dell’Ospedale fiorentino di Careggi. Per contrastare la pratica, diffusa anche nelle nostre comunità di immigrate, di menomare i genitali delle bambine, si propone di concedere una mutilazione simbolica, la fuoriuscita di qualche goccia di sangue indotta con una puntura in anestesia. Una forma simbolica e non cruenta, la definiscono i proponenti…
    http://digilander.libero.it/antropogica/
    http://digilander.libero.it/antropogica/[/url] relativismo_culturale.htm]
    Alcuni antropologi, ad esempio, consideravano i popoli pre-letterati privi di qualsiasi forma di religione (come fece Sir John Lubbock [1834-1914]) o provvisti di una "mentalità pre-logica" (come sostenne l'antropologo-filosofo Lucien Levy-Bruhl [1857-1939])
    ???
    "Guai a quelli che chiamano bene il male, e male il bene; che cambiano le tenebre in luce, e la luce in tenebre; che cambiano l'amaro in dolce e il dolce in amaro!"
    ???
    Non solo manga.... (Comics e tutto il resto)
    Tutti sti manga che ci piovono dal giappone con sernione....ma del buon vecchio SPAWN del grande Todd ne vogliamo parlare......
    ma la CYBERFORCE ve la ricordate...
    e il pinnone di SAVAGEDRAGON (non de dragonball!!!!
    Vi prego ditemi che esistono ancora estimatori dei Comics all'Americana!
    ???
    Dell'Oriente non posso che pensare un gran bene. Anche perché lo conosco poco. D'altronde, parlare per sentito dire è la mia specialità.
    ???
    "Tu l'hai detto" (cit.)
    http://www.encuentra.com/includes/docume nto.php?IdDoc=3860&IdSec=380
    http://www.encuentra.com/includes/docume nto.php?IdDoc=3860&IdSec=380[/url]] http://www.encuentra.com/includes/docume nto.php?IdDoc=3860&IdSec=380]
    Bien –contestó Kreeft, para iniciar un debate sobre aquella cuestión–, voy a aplicar a la clase tus valores y no los míos. Tú dices que no hay valores absolutos, y que los valores morales son subjetivos y relativos. Como resulta que mis ideas personales son un tanto singulares en algunos aspectos, a partir de este momento voy a aplicar esta: todas las alumnas quedan suspendidas.
    El alumno se quedó sorprendido y protestó diciendo que aquello no era justo...

  16. #16
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    Predefinito Re: [archivio al 12/09/2006] Sugli scaffali dello scanto c'è...

    da "L'infinito"

    Ph@ntom ha scritto ven, 05 novembre 2004 alle 01:29
    Propongo un interessante scorcio di un discorso visionabile integralmente qui .



    STUDENTESSA: Benvenuti al liceo "Giordano Bruno" di Torino. Siamo qui con Piergiorgio Odifreddi, che ringraziamo per aver accettato il nostro invito, per parlare dell'infinito. Prima di iniziare la discussione, guardiamo insieme una scheda filmata per meglio introdurre il tema.

    Già i filosofi greci posero l'infinito, che essi chiamavano "apeiron", come principio della realtà. Ma l'infinito matematico appariva qualcosa di più temibile, inclassificabile, di in-definito. I Pitagorici scacciarono dalla loro setta Ippaso di Metaponto, colpevole di aver rivelato l'esistenza dei numeri irrazionali.
    Nell'800, il matematico Georg Cantor consacrò i propri studi al tentativo di rendere definito e operativo in matematica un concetto come quello di infinito. Mosso anche da interessi filosofici e addirittura teologici, Cantor formulò una nuova categoria di numeri, i numeri "transfiniti". Un insieme infinito, secondo la definizione di Cantor, è un insieme che possiede almeno un sottoinsieme con cui è in corrispondenza biunivoca. Insomma, per gli insiemi infiniti il tutto non è sempre maggiore delle parti. Le conseguenze di questa scoperta furono enormi. Oggi l'infinito è un oggetto familiare per gli scienziati, uno strumento che pone alcuni problemi e permette di risolverne molti altri. Ma al profano, e forse anche allo scienziato, il salto dal finito all'infinito continua a dare come una vertigine. Per l'uso che ne fanno le scienze, l'infinito è un rapporto e non un'idea, uno strumento e non una essenza. Possiamo allora dire che è possibile conoscere attraverso l'infinito, ma non conoscere l'infinito? E i nostri sforzi in questa direzione saranno sempre inutili, frustrati e destinati allo scacco, come sosteneva Kant?


    ODIFREDDI: Non so se avete sentito parlare di Nicola Cusano, che non a caso era un cardinale . Perché c'è un collegamento tra l'infinito e Dio. È stato per lo meno così proposto. Ebbene Cusano verso il 1450 nelle sue opere - La dotta ignoranza e Le congetture - fu il primo a introdurre il concetto d'infinito. Oggi in matematica l'infinito è qualche cosa di abbastanza naturale, lo si usa quotidianamente, però il concetto d'infinito matematico è più recente. Verso la fine dell'Ottocento, con questo signore, di cui abbiamo sentito per lo meno il nome nel filmato: Cantor, che è colui che ha iniziato la teoria matematica dell'infinito. Quindi queste sono un po' le tre tappe; i Greci che lo rimuovevano, Cusano che in realtà l'ha introdotto in maniera filosofica teologica, e poi Cantor, che invece lo ha introdotto in maniera matematica.

    STUDENTESSA: Si parla di infinito matematico e di infinito filosofico. Esistono dunque diversi tipi di infinito o è lo stesso preso in considerazione sotto diversi punti di vista?

    ODIFREDDI: Ma guarda questo è vero per molti concetti che sono filosofici, ma che poi vengono usati nella scienza. Pensa alla "causalità", al rapporto tra causa ed effetto. L'infinito è uno di questi. Ma il modo in cui i filosofi considerano l'infinito forse non è quello che usano i matematici e gli scienziati. Gli scienziati lo usano effettivamente come infinito dei numeri. Dico "dei" al plurale perché, la cosa può sembrare strana, ci sono tanti infiniti. I matematici hanno scoperto che di infiniti ce ne sono infiniti, che è una specie di circolarità. E il primo che si è accorto che forse più di un infinito poteva esistere è stato Giordano Bruno. Siamo qui in una scuola, che è intitolata per l'appunto a Giordano Bruno. Se Voi, probabilmente avete letto le opere di Giordano Bruno, ebbene ne La cena delle ceneri, fa uno strano ragionamento. Dice: supponiamo di avere una palla, come la terra. La terra viene illuminata dal sole, ma soltanto una parte della terra viene illuminata dal sole. Man mano che ci si allontana, il sole è più lontano dalla terra, una parte sempre maggiore della sfera viene illuminata. Ora, domanda: quant'è la parte della sfera che al massimo può venire illuminata? Se il sole fosse all'infinito, allora illuminerebbe esattamente metà della sfera. Ora Giordano Bruno si chiede: ma poverina l'altra metà della sfera che cosa fa? Rimane in ombra? Allora l'idea di Giordano Bruno è: quando arriviamo all'infinito, facciamo un passo in più, incominciamo ad andare oltre questo primo infinito e il sole comincerà a illuminare la parte di dietro della sfera. Quando s'arriva all'infinito per la seconda volta tutta la sfera è illuminata. Non c'è bisogno di dire che questa è, ovviamente, è un'idea semplicemente metaforica, non ha nessun senso. Però è la prima volta nella storia in cui qualcuno pensa che ci sia effettivamente la possibilità di avere due o più infiniti. I matematici oggi sono arrivati ad averne addirittura infiniti. E chi scoprì che ci sono infiniti infiniti fu proprio quel Cantor ( Georg Cantor 1845 - 191 di cui abbiamo già citato il nome prima.

    STUDENTESSA: In che modo un'entità superiore, quale Dio, dovrebbe essere infinita? Esiste un rapporto tra religione e scienza?

    ODIFREDDI
    : Qui ci sono due domande. Naturalmente il rapporto tra religione e scienza certamente esiste, non fosse il fatto che, tanto per citare appunto Giordano Bruno, nel momento in cui le sue teorie cominciano a postulare infiniti mondi che esistono nell'infinito spazio per un infinito tempo, Giordano Bruno finisce al rogo. Quindi effettivamente rapporti ci sono, ma non sono sempre stati rapporti ottimali. Però il problema dell'infinito in teologia è un problema interessante, perché fino a quando l'infinito non c'era, o meglio, fino a quando l'infinito veniva rimosso - abbiamo detto prima che i Greci in qualche modo lo rimuovevano - si pensava che Dio non esistesse perché non c'era l'infinito. Tutte le dimostrazioni dell'esistenza di Dio di San Tommaso nella Summa theologiae: le cinque vie che portano a Dio, sono tutte basate sul rifiuto dell'infinito. Nel momento in cui Cusano, un cardinale come dicevo prima, riconduce il concetto di infinito, ecco che si fa un voltafaccia. Prima Dio c'era perché l'infinito non c'era, nel momento in cui arriva l'infinito Dio c'è perché c'è l'infinito. Quindi quello mi sembra un po' un modo di risistemare sempre le cose a proprio vantaggio. Però appunto dal 1450 fino alla fine dell'Ottocento, l'infinito fu identificato per l'appunto come qualche cosa che sta oltre il finito, qualche cosa che sta oltre il nostro mondo e dunque con il trascendente, con Dio. C'è una storiella interessante, che Vi posso raccontare: quando Cantor scoprì che c'erano più infiniti, Cantor, nonostante il suo nome, che è ovviamente di origine ebraica, era cristiano, battezzato, quindi se ne preoccupò. Ovviamente era la fine dell'Ottocento, non c'era più pericolo di andare al rogo, però volle sapere che cosa la Chiesa pensava di questo fatto, la Chiesa cattolica. Andò in Vaticano, portò i suoi lavori e disse al Santo Uffizio, che era governato allora da un cardinale tedesco: "Ma Eminenza io ho qui lavori di matematica che mi dicono che ci sono più infiniti, in realtà tanti infiniti". Il cardinale disse: "Ma, insomma io la matematica non la conosco quindi do ai miei segretari i suoi lavori perché se li studino". I segretari erano dei domenicani - Voi sapete che il Santo Uffizio si è basato spesso sui domenicani per fare i suoi affari -, e i domenicani si presero due anni, perché ovviamente hanno dovuto cominciare a studiare la matematica la teoria degli insiemi eccetera. Dopo due anni dissero al cardinale: "Guardi, secondo noi, non c'è problema, non c'è pericolo per la fede". Allora Cantor venne convocato in Vaticano e il cardinale del Santo Uffizio gli disse: "Guardi lei può parlare di questi infiniti, purché non li chiami infiniti, perché effettivamente questo darebbe una brutta idea teologica, cioè farebbe una connessione con la divinità". Allora , Cantor scelse un nome, che oggi non sarebbe tanto corretto politicamente perché ha delle implicazioni un po' diverse, li chiamò "transfiniti" e, per il colmo dell'ironia, oggi i matematici chiamano questi transfiniti "cardinali". Quindi, insomma il cerchio. L'idea del cardinale del Santo Uffizio era che oltre tutti questi transfiniti là, alla fine, c'è il vero infinito assoluto. Chiesero a Cantor cosa ne pensava : "Ma per noi matematici quello non c'è. Non esiste un infinito assoluto per i matematici, perché è contraddittorio" e il Santo Uffizio disse: "Va bene quello lì è nostro". Quindi in qualche modo ci sono delle relazioni. La chiesa si è sempre preoccupata , sempre dal momento in cui l'infinito è stato in qualche modo identificato con la divinità. Oggi però i matematici non credono che l'infinito matematico sia in qualche modo un'immagine dell'infinito metafisico. Pensano semplicemente che siano oggetti matematici e quindi li tengono abbastanza distinti.
    lello_panzieri ha scritto lun, 15 novembre 2004 alle 18:17
    Dal basso dei 3 filosofi che ho ripassato finora, scorgo una inesattezza: non tutti i filosofi greci presocratici consideravano l'apeiron l'arché, ma se non ero solamente Anassimene.
    the_lamb ha scritto mar, 16 novembre 2004 alle 00:03
    StM ha scritto lun, 15 novembre 2004 alle 23:35
    the_lamb ha scritto lun, 15 novembre 2004 alle 22:57
    StM ha scritto lun, 15 novembre 2004 alle 22:44
    [email
    Ph@ntom[/email] ha scritto lun, 15 novembre 2004 alle 19:55](ora che mi ci fai pensare...i greci non eran quelli che ravvisavano la perfezione nella finitezza?)
    Così sosteneva il mio prof di filosofia
    Grossomodo. Ma la ravvisavano, ora che mi ci fai pensare? (eeee, la memoria vacilla)
    Certo; per esempio nella geometria.
    Il cerchio, la sfera... non l'infinito. Che roba sarebbe, l'infinito?
    Così mi metti nell'angolo al primo round

    Pare una cosa delle più semplici, ma con tutta la buona volontà del professore non ho mai colto in che termini si "celebrasse" la perfezione... ad esempio come i Pitagorici apprezzassero particolarmente alcuni numeri (sul mio libro facevano vedere come il 10 fosse un numero pari migliore degli altri numeri pari perchè in qualche modo autocompiuto - e giustificavano la cosa costruendo un triangolo di 10 palline tipo carambola... ehm, grazie, ma non ho capito il senso lo stesso).
    Azz, è difficile da spiegare...

    Il fatto è che essi, ragionatori così astratti, amavano le forme, in genere le "cose" regolari. Erano affascinati dal poterle concepire - la sfera, la simmetria perfetta, le proporzioni perfette... ma allo stesso tempo erano frustrati dal non riscontrarle mai come le avevano pensate. nella realtà c'ear sempre qualcosa di irregolare. Non era giusto.
    è così che è nata la teoria delle idee... tutta questa roba sregolata doveva avere il suo archetipo. Ecco, la perfezione era nell'archetipo.

    Mi spiego?
    Ph@ntom ha scritto mar, 16 novembre 2004 alle 00:09
    I pitagorici se non sbaglio, credevano che i numeri dispari fossero più perfetti dei numeri dispari. Ad esempio

    Codice:
    N=2     N=3      N=4      N=5
    
    *       *        * *      * *
              *                  *
    *       *        * *      * *
    C'è insomma quel pallino che 'chiude' idealmente e rende finito il numero.
    Ph@ntom ha scritto mar, 16 novembre 2004 alle 12:27
    BodyKnight ha scritto lun, 15 novembre 2004 alle 23:55
    Ph@ntom ha scritto ven, 05 novembre 2004 alle 01:29
    Per l'uso che ne fanno le scienze, l'infinito è un rapporto e non un'idea, uno strumento e non una essenza. Possiamo allora dire che è possibile conoscere attraverso l'infinito, ma non conoscere l'infinito?
    La questione pare così semplice ad un filosofo. Per risolvere la diatriba dello scientismo s'è arrivati ad un accordo tra speculatori della scienza e quelli dell Sofia: "la scienza non può arrivare a conoscere di una cosa, il cos'è la cosa in se". Insomma nisba ontologia... Affermazione insignificante, soprattutto perchè non è mai esistito (e mai esisterà) un premio nobel in fisica (ad esempio) che non pensasse che alla fine, sotto sotto, dopo tutto, la matematica è; e più precisamente tutto è matematica.

    E allora come pongo io la questione? Semplice - si fa per dire: allo stato attuale non conosco nessuno che di una qualunque cosa ne abbia compreso a fondo il vero, autentico significato. Né filosofo, né scienziato, né chicchessia.
    E' vero, la scienza utilizza l'infinito come uno strumento, ma è anche vero che l'uomo apprende attraverso l'utilizzo: più si usa, in più modi diversi, più la profondità della penetrazione nel tessuto della conoscenza si incrementa. E' qualche cosa che ha a che fare con la confidenza. Dubito che chiedendo ad un matematico la sua opinione sul concetto di infinito lui non fornirà un'interpretazione un po' più elaborata e comprensibile di: "è uno strumento".
    Eppure: l'infinito è uno strumento. Te lo dico io. E' ciò che non è finito. Ma con questa affermazione ragiona, il matematico, sui risvolti operativi dell'infinito. E' per questo che non si prende in esame l'ontologia dell'infinito.

  17. #17
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    Predefinito Re: [archivio al 12/09/2006] Sugli scaffali dello scanto c'è...

    da "Françoise Sagan

    Emack ha scritto sab, 25 settembre 2004 alle 14:19
    da repubblica.it

    Aveva 69 anni. Il suo primo romanzo "Buongiorno Tristezza"
    suscitò subito scandalo, ma venne osannato dalla critica
    E' morta Francoise Sagan
    la ribelle che rapì la Francia
    Droga, alcol, gioco d'azzardo, la sua fu una vita a 100 all'ora
    Amica di Mitterrand venne coinvolta nello scandalo della Edf


    PARIGI
    - Francoise Sagan, la ragazza che nel '54 rapì e scandalizzò la Francia con Buongiorno tristezza è morta. Se n'è andata a 69 anni, nonostante continuasse a dire che aveva "voglia di vivere e di scrivere". Se n'è andata all'ospedale di Honfleur, romantico porto della Normandia, la regione dove era vissuta negli ultimi anni, facendo della sua casa il suo eremo. L'ha stroncata un'embolia polmonare. Era malata da tempo, viveva ritirata, senza più gli amici della giovinezza, quella dei tavoli ai bistrot di Saint-Germain- des-Pres consumati fino al mattino con Sartre, Juliette Greco e gli altri. Né le erano accanto più gli amici degli anni del potere e della gloria. La Sagan fu grande amica di Mitterrand.

    Una vita spericolata la sua, sopra le righe, droga, alcol, spericolate corse in auto, debiti, sempre con una sigraretta che le pendeva dalle labbra. Il maggio '68 la vide sfrecciare da un angolo all'altro di Parigi senza mai un cedimento alla banalità. Come quando, in un'infuocata assemblea all'Odeon, uno studente inferocito prese il megafono per contestarla: "Madame Sagan è venuta in Ferrari ad applaudire la rivoluzione dei suoi compagni!". La risposta che bruciò sul posto quel ragazzo amava raccontarla lei stessa: "chiesi il megafono, c'era tanta gente che ci mise due minuti per arrivare. Pensavo a una replica dura, non la trovai. Così mi alzai e urlai serissima: è falso: è una Maserati!".

    Schierata politicamente a sinistra, vicina a Mitterrand, venne arrestata e processata per droga, nel 2001, poi coinvolta nello scandalo delle tangenti della società petrolifera Elf. Un processo per evasione fiscale: non aveva pagato le tasse per una consulenza.

    Il suo vero nome era Francoise Quoirez. Era nata a Cajarc, nel 1935. La Sagan conobbe il successo giovanissima, dopo una carriera scolastica disastrosa. Si chiuse in casa per qualche settimana e scrisse il libro che l'avrebbe resa celebre. Osannato dalla critica e premiato dal pubblico, Buongiorno tristezza destò uno scandalo enorme: è la storia di una ragazza sensibile ma amorale, che provoca indirettamente ma volontariamente la morte dell'amante del padre, della quale è gelosa. Quattro anni dopo il regista Otto Preminger ne fece un film, con Deborah Kerr, David Niven, Juliette Greco e Walter Chiari.

    Nel romanzo c'è tutta Francoise Sagan e il mondo che farà da sfondo alla sua attività: i salotti, la Costa Azzurra, il whisky, la leggerezza delle emozioni. Non si fermò davanti a nulla, l'irrefrenabile Francoise Quoirez, diventata Sagan in omaggio a un personaggio di Proust: velocità pazzesche in automobile, alcol e cocaina senza freni, gioco d'azzardo, amicizie pericolose, debiti. Sempre tutto d'un fiato, senza pensarci due volte. "Sì - ammetteva con piena coscienza - sono futile. Ma la futilità consiste nell'occuparsi di cose interessanti". Una cinquantina i suoi libri.

    "La gloria e il successo mi hanno privato prestissimo dei miei sogni di gloria e di successo", amava ripetere provocatoriamente. Il padre, ricco industriale, non l'aveva scoraggiata dal vivere la vita a 100 all'ora. Di vita familiare, la Sagan ne ha fatta poca: divorziò dopo pochissimo tempo sia dall'editore Guy Schoeller, sia dall'americano Robert Westhoff, il quale le diede un figlio, Denis.

    La società ricca, agiata, ma anche pigra e snob che conosceva bene fu lo sfondo dei suoi romanzi più celebri, da Un certo sorriso a Amate Brahms?. Scrisse anche per il teatro. Nel 1984, in piena era Mitterrand, con la gauche al potere, pubblicò Avec mon meilleur souvenir, libro di ricordi che molti considerarono una specie di testamento spirituale. Ma bisognerà attendere il 1998 per leggere il libro che è rimasto il suo ultimo lavoro, Derriere l'epaulè, dietro la spalla, uno sguardo per la prima volta critico e severo sulla propria carriera.

    La Francia intera le ha reso omaggio. "Con lei - ha affermato Chirac in un comunicato - la Francia perde uno degli autori più brillanti e sensibili". Per Jack Lang, ex ministro della Cultura socialista e grande amico della scrittrice, è scomparso "un talento vivo e ardente", che ha "contrassegnato la letteratura contemporanea e per tanto tempo".
    (25 settembre 2004)
    __________________

    La Sagan manca tra le mie letture. E nelle vostre, invece?

  18. #18
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    Predefinito Re: [archivio al 12/09/2006] Sugli scaffali dello scanto c'è...

    da "Vermeer"

    Emack ha scritto gio, 26 agosto 2004 alle 00:09


    da http://it.wikipedia.org/wiki/Ragazza_col _turbante_%28Vermeer%29

    La Ragazza col turbante (o Ragazza con l'orecchino di perla) è uno dei più famosi quadri di Jan Vermeer. Pare che l'artista olandese lo abbia dipinto fra il 1665 ed il 1666 (secondo alcuni fonti in anni ancora successivi) prendendo a modello la sua giovane domestica poco più che adolescente, una sedicenne a nome Griet.

    Il dipinto, ad olio su tela, misura 44,5 x 39 cm. ed è conservato al Mauritshuis dell'Aia. È firmato "IVMeer".

    [...]

    Raffigura una fanciulla volta di tre quarti, colpisce in particolar modo l'espressione estatica, assolutamente languida ed ammaliante (secondo alcuni carica anche di un innocente erotismo), dello sguardo della giovane modella: sembra che fosse stato lo stesso Vermeer a chiedere alla ragazza, posta di fronte alla grande finestra illuminata dalla luce naturale del suo atelier, di voltare il capo più volte lentamente, tenendo socchiuse le labbra per produrre questo effetto.

    La modella indossa una veste gialla ed un turbante azzurro, da cui scende una fascia intonata alla giacca; porta all'orecchio una perla a goccia.
    lory ha scritto gio, 26 agosto 2004 alle 00:20
    sembra che il quadro fece scandalo: la bocca socchiusa, lo sguardo diretto verso il pittore erano interpretati come evidenti segni erotici e di disponibilità (come cambia la cominicazione non verbale nei tempi!!).

    Bello il libro che cerca di immaginare come possa essere nato questo quadro

  19. #19
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    Predefinito Re: [archivio al 12/09/2006] Sugli scaffali dello scanto c'è...

    da "Scrapbook di Lewis Carroll"

    Emack ha scritto mar, 10 agosto 2004 alle 02:33
    da Prezioso cimelio dell'autore di «Alice nel Paese delle meraviglie»
    In rete lo «zibaldone» di Lewis Carrol
    Sul sito della biblioteca del Congresso degli Usa scritti e disegni realizzati dal celebre autore dal 1855 al 1872

    MILANO
    - I fan del matematico e scrittore Charles Lewis Carroll (pseudonimo di Charles Lutwidge Dodgson) indimenticato autore del celebre «Alice nel Paese delle meraviglie» (1865) avranno ora nuovo materiale per approfondire la vita e il pensiero del loro beniamino.

    L'album di ricordi (scritti e disegni) redatto nell'arco di 17 anni della sua vita da Lewis Carroll è ora disponibile on line, nel sito della Biblioteca del congresso degli Stati Uniti.
    Il diario venne infatti creato nel periodo che va dal 1855 al 1872 uno dei più fecondi per lo scrittore britannico.
    L'edizione online è tratta dall'album originale acquisito successivamente alla morte dell'autore avvenuta nel 1898.
    8 agosto 2004

    __________

    E' possibile reperirlo all'url: http://international.loc.gov/intldl/carr ollhtml/lchome.html



    __________

    Ad Alice sembrò che tutto questo fosse abbastanza vero e perciò passò a un'altra domanda: "Chi abita da queste parti?" "Da QUELLA parte" disse il Gatto, e fece un cenno con la zampa destra, "abita il Cappellaio. Dall'ALTRA" e fece segno con la zampa sinistra "abita la Lepre Marzolina. Puoi far visita a chi vuoi; sono matti tutti e due".

    "Ma io non ho nessuna intenzione di andare fra i matti!" rispose Alice un po' risentita.

    "Ah, non ne puoi fare a meno!" disse il Gatto. "Qui siamo tutti matti.

    Io sono matto. E anche tu sei matta".

    "Come fai a dire che io sono matta?" domandò Alice.

    "Devi esserlo" le rispose il Gatto. "Altrimenti non saresti arrivata fin qui".

    Ad Alice la risposta non sembrò per nulla convincente; tuttavia riprese: "E tu, come fai a dire di essere matto?" "Intanto possiamo dire che i cani non sono matti" rispose il Gatto con aria sentenziosa. "Sei d'accordo?" "Sì, mi pare".

    "Bene", proseguì il Gatto "tu sai che i cani, quando sono arrabbiati, brontolano. Quando invece sono contenti muovono la coda. Io, invece, quando sono contento brontolo; e quando sono arrabbiato muovo la coda.

    Perciò sono matto".
    StM ha scritto mer, 11 agosto 2004 alle 01:14
    lory ha scritto mar, 10 agosto 2004 alle 18:55
    mi sembra così curioso che un uomo adulto tenga un diario per 17 anni! Però forse è meno insolito di quello che penso.

    C'è qualcuno che lo scrive?
    Non vi turberebbe sapere che un lontano domani qualcuno lo potesse leggere e render pubblico?
    Io non riesco mai a scrivere (neanche fare, se per questo) nulla pensando "Questo è una cosa mia, privata, nessuno la leggerà". Non ci credo. C'è SEMPRE qualcuno che legge.

    I blog ufficializzano la cosa
    Valfuindor la Maia ha scritto mer, 11 agosto 2004 alle 12:52
    "Speak roughly to your boy
    And beat him when he sneezes:
    He only does it to annoy
    Because he knows it teases.

    I speak severely to my boy
    And beat him when he sneezes:
    For he can thoroughly enjoy
    The pepper when he pleases!"

    è un libro parecchio allucinato

  20. #20
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    Predefinito Re: [archivio al 12/09/2006] Sugli scaffali dello scanto c'è...

    da "L'ayatollah Khomeini"

    Emack ha scritto dom, 20 giugno 2004 alle 22:58
    Vorrei dare il via un thread monografico su Khomeini.

    Khomeini, i sovietici e gli Stati Uniti
    Perché l'Ayatollah teme l'America
    di Daniel Pipes
    New York Times
    27 maggio 1980

    CHICAGO
    – L'Iran sembra scivolare nell'orbita sovietica. Se l'ayatollah Ruhollah Khomeini ha spesso inveito con veemenza contro il grande Satana americano, ha invece condannato di rado l'invasione sovietica in Afghanistan. L'appoggio da lui dato al prolungamento della detenzione dei 53 ostaggi americani ha indotto i Paesi occidentali a tagliare i rapporti economici con l'Iran, costringendo quel Paese a dipendere maggiormente a livello commerciale dall'Unione Sovietica.

    Per quale motivo Khomeini si aliena così gli Stati Uniti, il solo Paese in grado di proteggerlo dall'Unione Sovietica? Incapaci di rispondere a questa domanda, gli occidentali alzano le braccia in segno di disperazione e dichiarano che Khomeini si comporta in modo irrazionale. Ma questo gesto è loquace. Khomeini non è pazzo, egli incarna la tradizione islamica nella cultura iraniana e le sue azioni hanno un senso nell'ambito di quella tradizione.

    Dal punto di vista occidentale, gli Stati Uniti costituiscono per l'Iran una minaccia minore rispetto a quella rappresentata dall'Unione Sovietica, che si staglia al di là di una lunga frontiera comune e sposa una dottrina ateista incompatibile con l'Islam e con molte altre istituzioni della vita iraniana: come la proprietà privata e la famiglia, considerata come il nucleo sociale ideale.

    Ma per l'Ayatollah è l'America a rappresentare la minaccia più grave. Egli ritiene che dopo il 1953 il governo statunitense controllasse lo Scià, il suo regime e il popolo iraniano; e inoltre, egli crede che Washington stia cercando di rovesciarlo e di riconquistare il potere perduto. Il fallimento del tentativo di liberazione degli ostaggi ha confermato questo timore.

    È la cultura americana, e non quella sovietica, che si diffonde in Iran e fa raccapricciare l'ayatollah Khomeini, poiché agli occhi di quest'ultimo essa minaccia il modo di vita islamico a causa dei suoi costumi dissoluti (alcol, jeans, musica pop, locali notturni, film, discoteche, bagni misti e pornografia), del suo esibizionismo consumistico e delle sue ideologie straniere (come il nazionalismo e il liberalismo). L'Ayatollah e i suoi seguaci desiderano con fervore un Iran esente dalla dominazione straniera. Finché essi considereranno l'America come la peggiore minaccia che incombe sul loro Paese, nulla impedirà loro di appoggiarsi all'Unione Sovietica. Sebbene noi abbiamo in comune con gli iraniani il rispetto per la religione, la proprietà privata e per il nucleo familiare, il regime dell'Ayatollah ha invece molto da condividere con i marxisti a scapito dell'Occidente.

    Essi hanno in comune una notevole dose di antipatia nei confronti dell'Occidente. Il governo sovietico, al pari di Khomeini teme il fascino della cultura occidentale e prova con accanimento a mantenerla a distanza.

    Usando uno strano paragone, l'Islam vuole sostituirsi alla Cristianità come rivelazione finale da parte di Dio e il comunismo vuole subentrare al capitalismo come stadio finale dell'evoluzione economica. L'Occidente esaspera entrambi i pretendenti alla successione con il suo incessante benessere e potere. E quelli reagiscono opponendosi ad esso strenuamente. Proprio come all'inizio di questo secolo essi sferrarono un attacco contro l'imperialismo europeo, oggi l'Unione Sovietica e i membri musulmani dell'Organizzazione dei Paesi Esportatori di Petrolio (OPEC) costituiscono la principale opposizione alla potenza politica ed economica dell'Occidente. Entrambi hanno dei temperamenti rivoluzionari; rivendicano il monopolio sulla verità, e allora perché dovrebbero tollerare un solo giorno di più l'esistenza di costumi biasimevoli e perversi? Ognuno di essi diffonde il suo messaggio con petulanza retorica, pratica l'indottrinamento, ricorre a dei tribunali arbitrari e a dei plotoni di esecuzione. Entrambi tendono a non tollerare nessuna dissidenza e guardano ai non-credenti con sospetto, evidenziando il profondo solco che separa loro stessi dai profani.

    L'Islam attivista e il Marxismo mettono in evidenza la solidarietà internazionale sul nazionalismo, i bisogni della comunità su quelli dell'individuo, l'egualitarismo sulla libertà.

    Entrambi manipolano le masse e questo è l'aspetto peculiare. Disprezzando gli obiettivi modesti e le aspettative realistiche del liberalismo, gli attivisti musulmani e i marxisti perseguono degli ideali che sembrano nobili ma che sono irraggiungibili. Ad esempio, l'Islam vieta la riscossione degli interessi sui prestiti finanziari e il comunismo denuncia il profitto, eppure le attività commerciali non potrebbero fare a meno di entrambi.

    Alla fine, poiché l'Islam attivista e il Marxismo trattano ogni aspetto della vita, i loro governi tendono al totalitarismo.

    Pur se Khomeini condivide degli elementi ideologici tanto con gli Stati Uniti quanto con l'Unione Sovietica, da devoto musulmano confida nella superiorità del suo credo ed esecra entrambe le alternative.

    E comunque, alla fine, le ideologie si neutralizzano e Khomeini indirizza i rapporti iraniani con l'estero in funzione delle sue speranze e dei suoi timori, senza tener conto delle affinità teoriche.

    Al momento, Khomeini teme molto più gli Stati Uniti che l'Unione Sovietica: i russi sono vicini, ma a suo dire l'America si trova già in seno all'Iran. A suo avviso, è la nostra cultura, e non quella russa, che negli ultimi decenni ha minato il modo di vita musulmano in Iran. Finché predomineranno simili timori bisognerà aspettarsi che l'Ayatollah e i suoi seguaci faranno mutare rotta all'Iran in direzione dell'Unione Sovietica, giacché l'ideologia di quest'ultima non sembra loro peggiore della nostra.
    _______________

    Condividete quest'accostamento Islam-Marxismo?

    StM ha scritto lun, 21 giugno 2004 alle 00:24
    Un po' forzato.

    Comunque, si potrebbe usare il termine comunismo (sovietico), invece di marxismo

    E invece di islam, khomeinismo.

    Purtroppo nell'articolo questi quattro concetti vengono fusi assieme un po' confusamente (fusi confusi, bello).

    Per dire la mia sinteticamente... sì, il parallelo più o meno ha senso. Bell'esercizio.
    gangio ha scritto lun, 21 giugno 2004 alle 01:15
    Emack ha scritto dom, 20 giugno 2004 alle 22:58

    Condividete quest'accostamento Islam-Marxismo?
    Sì, però sottolineerei l'applicazione erronea di entrambe le pomate.
    Evidentemente, il bugiardino non si chiama così a caso.
    StM ha scritto mar, 22 giugno 2004 alle 14:14
    Emack ha scritto mar, 22 giugno 2004 alle 13:10
    Non è che l'accostamento superficiale di Islàm e Comunismo, da parte dell'editorialista, consiste in una becera propaganda?
    Non so se becera, ma sì. Da qui la mia distinzione dei quattro termini, evitata nell'articolo. Evidentemente a scopo propagandistico.

  21. #21
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    Predefinito Re: [archivio al 12/09/2006] Sugli scaffali dello scanto c'è...

    da "Fatti non foste per viver come bruti ma per dipingere borghesucci, bombette, mele verdi e..."

    Ph@ntom ha scritto mar, 31 agosto 2004 alle 12:18

    FATTI NON FOSTE PER VIVER COME BRUTI MA PER DIPINGERE BORGHESUCCI, BOMBETTE, MELE VERDI E QUALCHE COLOMBA (IN DEFINITIVA: SULLA SCIENZA E SUL MISTERO).

    …ovvero Ulisse e Magritte.

    La mela.

    A Magritte non piaceva la psicanalisi. Ma, come dire, i suoi dipinti ne eran –ne sono- una preda deliziosa e non fatichiamo certo a crederlo. Celeberrimo è il racconto fatto ad un amico circa la madre: si suicidò gettandosi in un fiume; al suo ritrovamento René ne vide il volto coperto da un lembo dell’indumento che indossava. David Sylvester (che dovrebbe essere un critico) si è lasciato lusingare, Gli amanti? Troppo facile deve aver pensato. Ma a magritte non piaceva la psicanalisi, giusto?: gira voce che sia stato uno scherzetto da dare in pasto ai suoi simpaticoni. E’ che, purtroppo, non ne saremo mai sicuri.
    E allora l’artista dev’essere anche un critico, sosteneva Baudelaire, il belga, per tutta risposta, gli avrebbe sputato in faccia. Quale critico, l’artista è una fata ignorante, pone in essere il mistero del mondo ma non sa proprio come ci riesce, una fata, uno stregone ignorante che si chiede di che diavolo è fatta quell’esile bacchetta. Non sappiamo chi siamo e siamo mistero di noi stessi, in ultima analisi questo coincide con il mistero del mondo. Che è un mistero che Magritte ha impastato sulla tela e che è, per lui, innanzitutto mistero, è innanzi tutto l’Immagine-essa-stessa: al bando le interpretazioni che rassicurano i poveretti.

    Adamo, colui il quale nominando le cose, le domina.

    Veniamo ad Ulisse, quello che Dante ha inquadrato all’Inferno. Un protoscienziato di quelli tosti, come dovrebbe essere qualsiasi uomo di questa terra. Il modello, in definitiva, dell’uomo occidentale e moderno. Curiosità è la sua parola d’ordine, sorrasare il velo di Maya che cela l’ignoto, cioè noi stessi, cioè il mondo. Uccidere il mistero, non ucciderlo forse: “illuminarlo” è meglio per taluni. Alla fine non si può fare a meno di chiedersi cosa rappresenti la mela di Magritte (considerate Il figlio dell’uomo o La grande Guerra). Perde colpi, lui, Ulisse, da un po’ di tempo: uomo occidentale e moderno?
    Ve lo dico, preferisco terminare con qualche splendido verso di Leopardi sbilanciandomi un pochino (e lo ammetto) per una delle due fazioni per così dire, in contrasto.


    Ahi ahi, ma conosciuto il mondo
    Non cresce, anzi si scema, e assai più vasto
    L’etra sonante e l’alma terra e il mare
    Al fanciullin, che non al saggio, appare.

    (Leopardi, Ad angelo Mai)




    -----
    (i corsivi fanno riferimento ai titoli di alcuni quadri di Magritte).
    gangio ha scritto mar, 31 agosto 2004 alle 23:21
    argomento vastissimo che liquido con un consiglio spassionato: indagare i misteri, ridurre le zone d'ombra, per conseguir virtute e canoscenza (questa volta spero di averlo scritto giusto)
    Automatic Jack ha scritto mer, 01 settembre 2004 alle 19:05
    [email
    Ph@ntom[/email] ha scritto mer, 01 settembre 2004 alle 01:40](Ebbravo il mio tosatel.)
    Hai ragione fino ad un certo punto: intendiamoci, senza Ulisse Magritte non esiste. I problemi li abbiamo nella seconda fase.
    Beh, se Ulisse avesse intuito tutto questo casino, sono sicuro che avrebbe arato Telemaco pur di non dare inizio a tutto il casino
    gangio ha scritto gio, 02 settembre 2004 alle 01:02
    [email
    Ph@ntom[/email] ha scritto mar, 31 agosto 2004 alle 12:18]


    Ahi ahi, ma conosciuto il mondo
    Non cresce, anzi si scema, e assai più vasto
    L’etra sonante e l’alma terra e il mare
    Al fanciullin, che non al saggio, appare.

    (Leopardi, Ad angelo Mai)
    Se non ho capito male, il buon Giacomo preferisce sbirciare il mondo attraverso la fitta trama di una tenda, piuttosto che vedere qualcosa che non gli piace. O non ho capito una sega?
    Ph@ntom ha scritto gio, 02 settembre 2004 alle 02:21
    Oddio potrebbe essere una interpretazione della sua psicologia, ma non è il significato letterale.
    Dunque...

    Ahi ahi = qui si deve essere fatto male.
    ma conosciuto il mondo non cresce = studiare il mondo, evidentemente non accresce la conoscenza di esso.
    anzi si scema = come sopra si riferisce alla conoscenza la quale si "rimpicciolisce" piuttosto che "ingrandirsi".
    e assai più vasto..., appare = il mondo (il cielo, la terra, il mare) a questo punto appare più vasto al fanciullo che non al saggio.
    Automatic Jack ha scritto gio, 09 settembre 2004 alle 09:10
    [email
    Ph@ntom[/email] ha scritto mer, 08 settembre 2004 alle 23:37]
    Automatic Jack ha scritto mer, 01 settembre 2004 alle 19:05
    [email
    Ph@ntom[/email] ha scritto mer, 01 settembre 2004 alle 01:40](Ebbravo il mio tosatel.)
    Hai ragione fino ad un certo punto: intendiamoci, senza Ulisse Magritte non esiste. I problemi li abbiamo nella seconda fase.
    Beh, se Ulisse avesse intuito tutto questo casino, sono sicuro che avrebbe arato Telemaco pur di non dare inizio a tutto il casino
    Ci ho pensato un po' ed ho concluso che non so niente di questo Telemaco.



    Ulisse, pover'omo, non voleva andare in guerra poichè c'aveva la moglie gnocca con la quale voleva intrattenersi e un figlio piccolo, tale Telemaco. Inoltre la sua isoletta, Itaca, era florida et felice, ergo non la voleva abbandonare.
    Per dissuadere quindi i caporioni greci che erano venuti ad esortarlo ad andare in guerra, si finse pazzo, arando i campi a casaccio e spargendo sale al posto dei semi.
    Purtroppo per lui i capoccioni greci erano assai furbi, e per saggiare la pazzia di Ulisse, presero il piccolo Telemaco e lo misero poco avanti l'aratro di Ulisse, che ovviamente non lo travolse, ma lo evitò. Grazie a questo stratagemma astuto et eziandio ingegnoso, i greci capirono che Ulisse non era pazzo e se lo portarono in guerra.

    Olè.

    Automatic Jack ha scritto gio, 09 settembre 2004 alle 14:31
    [email
    Ph@ntom[/email] ha scritto gio, 09 settembre 2004 alle 11:12]Madò, quanto sono ignorante
    (grazie per la spiegazione)
    di nulla

    Se ne deduce comunque che le gabole per evitare il servizio militare hanno storia piuttosto antica, essendo in auge già allora

  22. #22
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    Predefinito Re: [archivio al 12/09/2006] Sugli scaffali dello scanto c'è...

    da "Fatti non foste per viver come bruti ma per dipingere borghesucci, bombette, mele verdi e..."

    Ph@ntom ha scritto sab, 05 giugno 2004 alle 16:10
    Perdonate il malloppo spropositato ma è molto interessante.




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    INTERVISTA



    1 Professor Vattimo, cominciamo questa nostra conversazione, sul tema della poesia, ricordando il titolo di un libro che Lei scrisse e pubblicò nel 1968. Si intitolava Poesia e ontologia. Che cosa voleva indicare, mettendo insieme questi due concetti, quello di "poesia" e quello di "ontologia"?

    Era un modo di annunciare fin dal titolo uno degli assunti teorici, anche un po’ polemici, del libro. L’idea fondamentale era che l’estetica novecentesca, o anche del tardo Ottocento - ma forse l’estetica postkantiana in generale - avesse teso ad isolare l’arte dal dominio della verità. Si può portare come esempio la teoria estetica di Croce, secondo cui nella dialettica dei distinti i predicati che si possono attribuire all’esperienza estetica, all’arte, sono bello o brutto, ma non vero o falso. Questo significa che l’esperienza estetica non ha a che fare con l’esperienza della verità. Un tale atteggiamento, che è stato dominante nell’estetica filosofica del Novecento, era già stato discusso anche prima della pubblicazione del mio libro da autori - a cui io mi rifacevo - come Gadamer o come Heidegger. Gadamer in particolare, nel suo libro del 1960, Verità e Metodo , era partito proprio da una critica di quella che lui chiamava la "coscienza estetica" - potremmo chiamarla coscienza "estetistica" - cioè muovendo dalla critica di quell’atteggiamento che appunto considera l’esperienza dell’arte e del bello come completamente scissa dall’esperienza del vero. Gadamer argomentava, secondo me giustamente, che questo estetismo, riferito soprattutto alla filosofia dell’arte del Novecento, era il corrispettivo dello scientismo metodologistico del positivismo. Se si domanda perché nell’esperienza estetica non vi siano il vero e falso, si tende a rispondere che questi appartengono esclusivamente a quelle esperienze che si lasciano organizzare dal metodo scientifico. Ecco perché, tra l’altro, Verità e Metodo si intitola così: Gadamer voleva indicare già dal titolo della sua opera che il suo problema era quello di rivendicare l’esperienza di verità che si fa al di fuori dei campi metodologicamente organizzati come quelli della scienza. Ora, uno dei campi classici, o insomma l’emblema stesso di ciò che non è metodico, è l’esperienza estetica.
    Gadamer, che poi allargava il discorso anche all’esperienza delle scienze storiche, delle scienze umane - perché poi era questo il suo obiettivo più generale - muoveva dal recupero in senso veritativo dell’esperienza che sembra essere la più lontana dal vero e dal falso, vale a dire appunto l’esperienza estetica. Io procedevo in questa stessa direzione anche con riferimenti che non mi sembrava di trovare già in Gadamer, cioè sviluppando l’idea che le avanguardie artistiche del Novecento erano proprio una forma di rivolta degli artisti, dell’arte militante, contro l’estetismo dell’estetica filosofica. Così, mentre Croce oppure i neokantiani tedeschi sostenevano che l’esperienza estetica non ha nulla a che fare con il vero o il falso, gli artisti pensavano invece che l’arte dovesse uscire dal mondo asettico del museo, della galleria o della pura esperienza della poesia che si raccomandava per la sua sonorità, per la sua bellezza strutturale, per le forme, senza riferimenti esistenziali. In quel libro, l’esperienza delle avanguardie novecentesche mi pareva - e mi pare ancora oggi - interpretabile come una rivolta dell’arte contro la sterilizzazione a cui sembrava volerla condannare l’estetica filosofica della sua stessa epoca. E naturalmente, ancora una volta, il riferimento principale - per me come del resto per lo stesso Gadamer - era la filosofia di Heidegger; questo in parte perché per me essa è stata un’esperienza filosofica di fatto dominante, in parte perché mi sembra che sia oggettivamente fondamentale per il pensiero del Novecento.
    È con Heidegger, in fondo, che la poesia è stata completamente ricondotta all’ambito della verità, fuori dalla prospettiva limitata in cui l’aveva collocata l’estetismo filosofico del primo Novecento. Naturalmente i riferimenti a Gadamer e a Heidegger hanno due valenze differenti, perché in Gadamer il fatto che ci sia un’esperienza di verità nella poesia, e in genere nell’arte, si giustifica dal punto di vista di una concezione della verità che risale a Hegel prima che a Heidegger. Io riassumevo la posizione di Gadamer - mi sembra utile questa formula per ricordarla - dicendo che "si fa esperienza di verità, quando si fa vera esperienza". Se noi teniamo presente questa espressione, capiamo perché la lettura di un’opera d’arte, l’incontro con un’opera d’arte può essere esperienza di verità; basti pensare all’esperienza che facciamo quando leggiamo un romanzo: ci cambia la vita, forse non così radicalmente, ma certo cambia, modifica la nostra visione del mondo. Ora, effettivamente, questa concezione è di origine hegeliana: la verità è, come dire, l’incontro con un’alterità che noi assimiliamo, e quindi che non lasciamo stare nella sua estraneità, ma, assimilandola, diventiamo altri da quello che eravamo.
    In Gadamer è molto importante questa idea dell’esperienza come Erfahrung. La parola tedesca Erfahrung ha da fare anche col viaggiare, col fahren, e implica un mutamento: possiamo fare l’esempio di un individuo che ha viaggiato molto, e che, quando fa ritorno a casa, non può essere esattamente lo stesso, perché ha imparato altre cose, sa altre cose, e queste cose sono diventate parte della sua conformazione mentale. Se compiamo una vera esperienza, e cioè qualche cosa che ci costringe, ci spinge a cambiare, facciamo un’esperienza di verità. In questo senso, l’incontro con l’opera d’arte, che è l’incontro con una visione del mondo "altra", che ci scuote, o anche semplicemente che ci arricchisce, rappresenta il senso dell’esperienza del vero che si fa nell’arte e in genere in tutti quei campi, come per esempio la conoscenza filosofica, la conoscenza storica eccetera., che alla mentalità di ispirazione positivistica del tardo Ottocento sembravano escluse dal campo del metodo scientifico. Certo, la storia non sarebbe capace di verità scientifica, se la scienza fosse solo la conoscenza di leggi generali. Allora il punto è: questi saperi che non hanno da fare con principi generali, con leggi generali, ma con fatti specifici, sono saperi capaci di verità? Direi di sì, se l’esperienza che facciamo in questi saperi è una vera esperienza. L’argomento di Gadamer, che sta alla base di Verità e Metodo, si muove attorno a questa prospettiva.


    2 È stato Heidegger che, nel saggio intitolato L’origine dell’opera d’arte, ha chiarito, forse più radicalmente di quanto non lo abbia fatto Gadamer, l’incontro con l’opera d’arte come un’esperienza di verità. Vuole ripercorrere i motivi principali di questo saggio?

    Nel saggio L’origine dell’opera d’arte (Der Ursprung des Kunstwerkes ), che è del 1936, Heidegger chiama l’opera d’arte una "messa in opera della verità". Qui effettivamente troviamo la possibilità di parlare di "poesia e ontologia" o di "poesia e filosofia" o di "poesia e verità" o di "arte" in genere. In che senso l’opera d’arte è "messa in opera della verità"? Prima di tutto è ovvio che, per parlare di opera d’arte come "messa in opera della verità", bisogna avere una certa concezione della verità, che in Heidegger non è, e non può essere, quella della verità come corrispondenza di una proposizione a uno stato di cose. Molto spesso, naturalmente, la tradizione ha parlato di verità della poesia, ma, poiché ne ha parlato in riferimento a questa concezione della verità come enunciazione vera di stati di cose, cioè in termini di proposizioni che corrispondano a uno stato di cose, ha sempre dovuto concepire la poesia secondo il motto latino del miscere utile dulci, che esprime l’idea per cui nella poesia si possono dire delle verità, descrivendo, per esempio, come stanno le cose con l’essenza dell’uomo o le leggi morali, eccetera. Perché tali verità vengono espresse in poesia? Una ragione può essere, ad esempio, che in questo modo la gente le impara meglio; anche i proverbi, in genere, si formulano come dei versetti, espressi in termini "poetici", con delle metafore.
    Sembrerebbe dunque che vi sia una verità della poesia, che è la stessa verità che si può dire in proposizioni astratte, ma presentata con termini immaginosi, metaforici, perché piace di più o si ricorda meglio. Ora, non è questo il senso in cui Heidegger parla di "una messa in opera della verità", perché per lui la verità, prima di essere la descrizione oggettiva di uno stato di cose, è l’apertura di un orizzonte di una possibile descrizione dello stato di cose. Non è tanto difficile da capire: noi descriviamo uno stato di cose usando degli strumenti, dei termini, dei paradigmi, dei presupposti, i quali per noi sono alla base della possibilità di descrivere in modo veritiero quello stato di cose. Ma i paradigmi, l’"apertura", per così dire, il sistema dei presupposti in base a cui possiamo dire la verità, nel senso di descrivere validamente lo stato di cose, tutto questo insieme precede questa verità espressa come corrispondenza nella proposizione alla cosa. E questo insieme difficilmente è oggetto, a sua volta, di una descrizione vera, perché per essere descritta veridicamente avrebbe bisogno di un altro sistema di presupposti, di un’altra apertura e e così via.
    Si comprende benissimo che, procedendo in questo modo, si potrebbe risalire all’infinito. Heidegger non vuole tanto risalire all’infinito per distruggere logicamente l’idea di verità, ma richiamare la nostra attenzione su un fatto che era anche, in fondo, alla base della critica marxiana dell’ideologia ossia che quando noi enunciamo una proposizione vera, presupponiamo un sistema di criteri che a sua volta non enunciamo in una proposizione vera, ma all’interno dei quali in qualche modo siamo - come dice Heidegger – "gettati", ci "apparteniamo", "ci siamo": è il nostro equipaggiamento. I nostri occhi noi non li descriviamo, mentre descriviamo ciò che vediamo con gli occhi; quando ci mettiamo a studiare i nostri occhi, magari li studiamo in base a un’immagine, che però guardiamo pur sempre con i nostri occhi, che, nel momento stesso in cui li usiamo per guardare, non possiamo vedere. È una cosa abbastanza ovvia, che però filosoficamente diventa importante, perché in fondo è alla base della stessa idea che la poesia sia capace di verità.


    3 Professor Vattimo, in che senso dunque la poesia "dice" il vero?

    La poesia non dice verità a livello della proposizione corrispondente all’oggetto, ma "dice" - esprime, rappresenta, mostra - qui è difficile qui usare un verbo adeguato - la verità dell’orizzonte a cui apparteniamo quando poi diciamo delle singole verità. Quando noi parliamo di poesia e verità, per esempio, è abbastanza facile cadere in un errore di banalizzazione. Che cosa dice una poesia, quale verità enunciabile ricaviamo da una poesia di Pascoli, di D’Annunzio, di Carducci? Quando cerchiamo di volgere la verità della poesia in singole verità proposizionali, per lo più ricaviamo delle proposizioni banali: "Gli uomini sono mortali", "La vita è difficile", "L’esistenza è sempre schiacciata dal problema della libertà". Questo vuol dire che, se guardiamo alla verità della poesia, la prima cosa a cui siamo richiamati è una nozione di verità non proposizionale, non descrittiva, non misurata sul principio della conformità. Allora, se c’è una verità nella poesia, questa verità è pensabile solo come apertura originaria dentro cui siamo gettati, orizzonte all’interno del quale possiamo diventare consapevoli di noi stessi, che è dunque cosa ben diversa da una verità enunciata come proposizione descrittiva all’interno di questo stesso orizzonte.
    Il rapporto con questa verità è poetico anche perché non può essere descrittivo-proposizionale o scientifico: se noi ci sforziamo di afferrare questa verità, ci accorgiamo che è impossibile renderla in termini di proposizioni dimostrabili, oggettivabili. Con esse siamo in un rapporto che si potrebbe chiamare "abitativo", nel senso che c’è nella nostra esistenza, alla base di ogni nostro enunciato tematico, una più originaria appartenenza che noi non riusciamo a tematizzare. Noi non possiamo dire che, poiché non riusciamo a tematizzarla, dobbiamo trascurarla. Trascurarla, infatti, significherebbe lasciarsi guidare da pregiudizi che noi non sospettiamo neanche di avere - il che è abbastanza pericoloso. Sapere di appartenere ad un orizzonte che non possiamo oggettivare davanti a noi - perché ciò è contraddittorio con la nozione stessa di orizzonte -, significa già sforzarsi di fare esperienza di questo orizzonte con altri mezzi. In fondo, tutta la storia delle arti nella storia della cultura è questo.
    Le arti non hanno mai detto verità utili, utilizzabili, sistemabili in un trattato, e tuttavia ci sono sempre state. Controbattere sostenendo che ciò è accaduto solo perché l’uomo ha inevitabilmente anche un aspetto di "oziosità" è una spiegazione un po’ troppo banale, soprattutto se si pensa alla vita degli artisti, all’interesse che la gente porta all’arte, anche all’importanza sociale che l’arte ha sempre avuto nella cultura. Che l’arte sia messa in opera della verità tende a spiegare meglio tutte queste cose; c’è una verità più originaria delle singole verità che possiamo enunciare e il rapporto con questa verità più originaria non si può per definizione tematizzare in proposizioni enunciabili: esso costituisce il senso dell’esperienza estetica. Nella pittura, nella musica, nella poesia noi mettiamo in opera, in qualche modo, questa apertura della verità. Heidegger naturalmente collega a questo anche tutto un altro insieme di contenuti filosofici. Uno, in modo particolare, è l’idea che la verità non sia sempre la stessa in tutte le epoche, e cioè che non è vero che tutti gli uomini sono sempre gettati in un orizzonte di verità sempre uguale, ma che ci sono delle cesure, dei cambiamenti nell’orizzonte di verità in cui noi ci troviamo. Anche questa è una cosa che si capisce, se si pensa a teorie diverse da quella heideggeriana, ma forse a questa vicine nell’intenzione. Intendo riferirmi, ad esempio, a una teoria come quella di Thomas Kuhn, ad esempio, che parla dei "paradigmi", secondo cui le scienze provano, dimostrano proposizioni, però all’interno di un insieme di presupposti, di assiomi, che costituiscono appunto il paradigma all’interno del quale si prova o si falsifica una proposizione. A sua volta, il paradigma, anche per Kuhn, non è oggetto di prova o di falsificazione, perché altrimenti si esigerebbe un altro paradigma più ampio all’interno del quale si possa provare qualcosa o falsificare qualcosa. Quindi, anche in questo caso, i paradigmi all’interno dei quali si muovono le verità della scienza sono storicamente dei fatti complessi.
    Certamente non si può dire che essi siano dei fatti irrazionali, però sono dei complessi eventi storici a cui gli scienziati appartengono e all’interno dei quali trovano o falsificano proposizioni. Ebbene, se noi pensiamo a questo, possiamo avere un’idea, ancora una volta, di che cosa Heidegger intenda quando dice che l’arte è "messa in opera della verità". "Messa in opera" che può essere storicamente mutevole, proprio perché le epoche, i paradigmi, non sono sempre gli stessi.
    È la ragione per cui l’arte è una storia e non accade una volta sola. Altrimenti basterebbe una sola opera d’arte, come ad esempio una tragedia greca, per tutte le epoche. Ma non è così, perché oltre alla tragedia greca, esiste la Divina Commedia o l’opera di Shakespeare, tra le quali noi cogliamo delle differenze: in queste diverse opere d’arte si aprono dei mondi diversi, dei mondi storici all’interno dei quali l’umanità del passato è vissuta e dentro cui ancora viviamo noi, mediandoli con il nostro mondo storico, con i nostri poeti, con le nostre opere d’arte.


    4 In Heidegger l’esperienza estetica come esperienza di incontro con la verità è soprattutto un’esperienza poetica. Perché, professor Vattimo, proprio la poesia, perché i poeti, per dirla con il titolo di un saggio di Heidegger, hanno un ruolo privilegiato?

    Perché nel saggio Sull’origine dell’opera d’arte di Heidegger c’è anche una sorta di riconduzione di tutte le arti alla poesia come arte della parola. Ora questo è un tema naturalmente complesso, forse anche controverso tra gli interpreti di Heidegger, però Heidegger certamente ritiene che, in qualche senso, la funzione inaugurale di apertura di un mondo storico che l’opera d’arte ha, si realizza in modo speciale, in modo privilegiato nell’arte della parola. "Apertura di un mondo storico" può voler dire due cose. Svelamento di un mondo storico - e in questo caso ci troviamo in temi che sono familiari alla storia dell’estetica e della filosofia. Hegel, per esempio, sosteneva che, almeno in certe fasi dello sviluppo dello spirito, la verità dell’epoca, la verità dello spirito di un’epoca, si rivela nell’arte e non nella religione o non nella filosofia.
    L’estetica hegeliana sostiene che nella storia dell’umanità, l’età in cui l’arte è il luogo supremo di rivelazione dello spirito dell’epoca è stata l’età classica greca. C’è un’epoca nella storia dello spirito in cui lo spirito si rivela a se stesso, si documenta, in qualche modo, più adeguatamente nell’arte che non nella filosofia o nella religione, mentre, ad esempio, lo spirito medievale si rivela piuttosto nella religione cristiana; il senso del gotico è il senso di un’arte la cui verità è però la religione. Bene, noi possiamo intendere in questi termini la posizione di Heidegger, per cui nell’opera d’arte si apre un mondo storico, nel senso che in essa vi si rivela. Ma l'originalità di Heidegger è nell’idea che nell’opera d’arte si "inaugura" un mondo storico: non solo si apre, nel senso che si svela più adeguatamente, ma accade prima di tutto lì.
    Il linguaggio è uno degli strumenti fondamentali attraverso cui noi accediamo al mondo; non accade che prima noi vediamo il mondo e poi troviamo le parole per descriverlo, perché, come mostrano le nostre esperienze anche a livello psicologico, se non abbiamo la parola, in un certo senso non vediamo la cosa. Secondo Heidegger, è soprattutto il linguaggio quello che ci dà accesso al mondo. Noi ereditiamo un insieme di capacità per vedere il mondo, ereditando un certo linguaggio, la nostra lingua naturale, che però non è naturale in quanto eterna; è naturale nel senso che è la nostra lingua madre, la lingua che impariamo quando siamo bambini. Ebbene, questo linguaggio, che non è sempre uguale - le lingue sono mai state tutte eguali nel corso della storia - costituisce un fatto naturale e storico insieme. In quanto fatto storico ha dei momenti principali in cui ovviamente cambia. Heidegger identifica i momenti di "inaugurazione" di una lingua di un’epoca con certi grandi eventi poetici. Noi diciamo abitualmente a scuola che Dante è il padre della lingua italiana, che la traduzione della Bibbia di Lutero ha fondato il tedesco moderno, che Shakespeare è, quasi come Dante, il padre della lingua inglese, eccetera. Talvolta questo lo diciamo in maniera banalizzante, ma per Heidegger c’è una verità in tutto ciò molto profonda, e cioè che nella poesia si inaugurano svolte decisive delle lingue naturali. Quindi, anche in questo senso, l’opera d’arte "mette in opera la verità" e la mette in opera come opera d’arte linguistica, perché dal punto di vista di Heidegger, anche per interpretare storicamente delle opere d’arte non linguistiche - per esempio la pittura di Michelangelo o di Goya - noi, per esprimerne il carattere aprente, inaugurale, utilizziamo delle parole.


    5 Abbiamo visto che per Heidegger c'è una certa originarietà della poesia rispetto alle altre arti: quali sono i problemi suscitati da questa tesi?

    Questo è un punto su cui pochi studiosi di estetica concorderebbero pienamente, perché l’esperienza dello spazio, per esempio, che si fa con la pittura, con l’architettura, con le arti visive, si può considerare ragionevolmente ancora più originaria, o almeno altrettanto originaria, di quella delle parole. Heidegger stesso, in un’opera tarda, la breve ma intensissima prolusione degli anni Sessanta intitolata L’arte e lo spazio, potrebbe fornire elementi per andare in questa direzione, in quanto qui egli sostiene che, se dovesse riscrivere Essere e Tempo, riconoscerebbe altrettanto originario, nella nostra esperienza, lo spazio.
    Heidegger, mettendo allo stesso livello spazio e tempo come forme originarie della nostra esperienza, avrebbe forse anche dovuto rivedere il rapporto tra arti del linguaggio e arti visive, spaziali. Dunque per gli studiosi heideggeriani, su questo probabilmente c’è ancora molto da lavorare. Però il senso fondamentale è: l’opera d’arte ha una funzione inaugurale rispetto ai mondi storici, soprattutto in forma di opera d’arte poetica - "dichterisch wohnt der Mensch auf dieser Erde", "poeticamente abita l’uomo su questa terra" è un verso di Hölderlin a cui Heidegger fa riferimento in un saggio sulla poesia. Ovviamente l’abitare richiama l’esperienza dell’architettura, delle arti della visione; il "poeticamente" significa, se dobbiamo prenderlo alla lettera, nell’interpretazione che dà Heidegger di questo verso di Hölderlin, che l’abitare storico dell’uomo ha a che fare con lo stare in un ambiente, ma questo stare in un ambiente è vissuto esistenzialmente anzitutto come appartenenza ad un linguaggio che è parola.
    I versi di Hölderlin che Heidegger commenta con l’espressione a cui io mi sono poco fa richiamato, sono in realtà due, tra loro simili. L’altro dice: "voll Verdienst doch dichterisch wohnt der Mensch auf dieser Erde", "pieno di merito e tuttavia poeticamente abita l’uomo su questa terra". Qui, secondo me, c’è un’ulteriore dimensione di questo significato aprente dell’opera d’arte, che vale la pena illustrare. Questo distico hölderliniano, "pieno di merito e tuttavia poeticamente abita l’uomo", contiene anche un altro elemento, non solo quello dell’abitare, non solo quello della poesia nel senso di arte della parola, ma anche quello di una opposizione tra "abitare poetico" e "merito".
    Ancora una volta, quella verità che si apre nella poesia e che è l’apertura dell’orizzonte all’interno del quale poi noi possiamo enunciare le verità nel senso tematico, proposizionale della parola, quella verità è anche qualcosa che ci proviene e che noi non costruiamo. Ecco perché c’è un’avversativa tra il "pieno di merito" e "tuttavia poeticamente abita l’uomo". "Pieno di merito" vuol dire: certamente l’uomo abita sulla terra, costruendo case, producendo automobili, ascensori per facilitarsi l’esistenza, per difendersi dai pericoli della natura, e così via; tuttavia, dice Hölderlin, l’uomo "abita poeticamente". C’è qualche cosa, alla base di tutta questa opera che è propria dell’uomo, che non è attività, ma è prima di tutto qualcosa come ricezione, passività
    In fondo, anche noi, quando facciamo esperienza di poesia, parliamo quasi spontaneamente di grazia. Gli applausi che si rivolgono ai grandi interpreti hanno da fare col ringraziamento e poi, tradizionalmente il bello dell’arte è stato accostato all’idea di grazia, non tanto alla graziosità che è un’accentuazione della facilità del movimento - si dice che un balletto è grazioso, che una piccola opera d’arte è graziosa, quasi come se fosse qualcosa di meno del bello -; la grazia è, per esempio, il creare "in stato di grazia", il che costituisce l’originalità del genio. Tutti questi modi in cui la tradizione ha enfatizzato l’esperienza estetica, hanno una loro radice nel "doch", nell’opposizione tra l’attività utile, produttiva, volontaria, di cui noi abbiamo merito, l’uomo ha merito, e il trovarsi gettato in un mondo disponendo già, per esempio, del linguaggio e di un insieme di vie di accesso agli enti, che non ci siamo costruiti da noi e che sono alla base di tutto il nostro costruire. Questo è importante per capire qual è quel tipo di verità che si può dare nella poesia.


    6 Professor Vattimo, vi sono altre dottrine estetiche che possono illustrare la concezione heideggeriana dell’arte?

    Un altro grande pensatore estetico del Novecento è stato Michel Dufrenne, autore di varie opere tra cui una Fenomenologia dell’esperienza estetica, e un saggio intitolato Il poetico; egli è stato un filosofo, diciamo, di scuola fenomenologica ma molto sensibile anche alle suggestioni heideggeriane. Ebbene, Dufrenne aveva descritto l’opera d’arte come un "quasi soggetto", il che ci serve molto per capire che cosa possiamo intendere Heidegger a proposito dell’apertura nel mondo. Un "quasi soggetto" è un "oggetto" che si incontra nel mondo e che non si lascia trattare come un puro oggetto. Un’opera d’arte è una visione sul mondo, non un pezzo di mondo.
    Un romanzo, un quadro, una sinfonia, non sono cose che si aggiungono ad altre nel mondo, ma contengono sempre, in qualche modo, l’appello a reinterpretare il mondo. L’"altro" con cui mi incontro, se non è un individuo che voglio usare per un certo scopo, ma è uno che ascolto come un "altro", mi offre un’interpretazione del mondo con cui mi debbo misurare, non è un oggetto che metto accanto agli altri tranquillamente, aggiungendo un pezzo al mio mondo.
    Qualcosa di questo genere si può intendere per capire di che cosa parliamo quando diciamo che un’opera apre un mondo. È una prospettiva altra sul mondo, che può diventare un oggetto del mio mondo, ma se desidero appendere un quadro nella mia camera, lo faccio non soltanto perché sta bene lì; qualcuno può anche intenderlo solo così, in termini puramente decorativi, ma se poi cercassimo di spiegarci perché sta bene, secondo me, scopriremmo sempre che sta bene perché evoca, apre immagini di mondo alternative a quelle dentro cui sto e quindi non è semplicemente una parte, un pezzo passivo, inerte nel mio mondo, ma è un soggetto che mi parla.


    7 C’è però un’altra considerazione che dobbiamo fare, sempre riguardo ad Heidegger. Lei non crede che vi sia in Heidegger una sorta di intonazione religiosa? In fondo Heidegger parla di poesia, ne parla in generale come luogo originario, però poi sceglie, di fatto, alcuni poeti in particolare, ne privilegia alcuni, Hölderlin su tutti. Ecco, che cosa significa questa scelta? Che cosa intende fare Heidegger con questa operazione?

    Qui il discorso potrebbe, dovrebbe essere molto ampio. È vero che Heidegger sceglie Hölderlin tra i poeti - uno dei poeti che commenta più frequentemente, con cui ha convissuto, per così dire, per tanto tempo, fino a definirlo come "il poeta del poeta", cioè il poeta della poesia. Questo è molto interessante perché collocherebbe Hölderlin e Heidegger nell’orizzonte di uno dei tratti caratteristici della poesia novecentesca o dell’arte novecentesca, che è intensamente caratterizzata dall’autoriflessione. C’è tutta una storia della pittura, per esempio, tra Otto e Novecento, che vede l’evoluzione della pittura come un’accentuazione della consapevolezza dei mezzi della pittura: il colore, il quadro, la tela, le linee, la prospettiva spaziale. Quindi mi sembra molto significativo che Heidegger sia così sensibile a questo. Diciamo però che il discorso di Heidegger va ancora oltre, non solo scegliendo Hölderlin in quanto "poeta del poeta", ma anche Rilke, per esempio, o, negli scritti degli anni Cinquanta, Trakl, che è un poeta difficile perché "maledetto" in molti sensi, un poeta espressionista del tutto diverso dai poeti "vati" che ci si aspetta che Heidegger commenti; ebbene, la scelta di questi poeti non è in Heidegger slegata da una considerazione epocale.
    Ancora una volta, non ci sono poeti che esprimono meglio di altri l’essenza eterna dell’arte, ci sono poeti che sono più eloquenti, più capaci di dirci che ne è dell’essere nella nostra determinata epoca.
    Il destino dell’essere nella nostra determinata epoca ha probabilmente a che fare anche con il fatto che il poeta poeti sulla poesia, nel senso che l’autoriflessività della poesia hölderliniana, che parla del poeta, diventa determinante per Heidegger, perché è particolarmente in sintonia con un’epoca dell’essere che è quella che Heidegger tenta di cogliere.
    Che cosa può voler dire tutto questo? Traduciamolo un po’ sommariamente nei nostri termini. Non sempre e non in ogni epoca culturale o della storia dell’essere è così chiaro che l’esperienza della verità sia esperienza dell’orizzonte piuttosto che esperienza delle proposizioni vere, come ho detto prima. È nella nostra epoca, che Heidegger chiama della "fine", del "compimento" o del "superamento" della metafisica, che ci diventa possibile capire meglio che la verità non è soltanto o principalmente la proposizione che descrive adeguatamente lo stato di cose, ma è l’appartenenza ad un orizzonte dentro cui siamo "gettati", che ci è donato.
    In questa epoca, in cui diventa comprensibile - perché è finita la metafisica - questa esperienza della verità come appartenenza, allora è più verosimile cercare il vero nei poeti e in certi poeti che poetano sulla poesia. Ecco perché il discorso è complesso. Heidegger non avrebbe mai detto che si debba in ogni epoca cercare la verità piuttosto nella poesia; ma soltanto che nella nostra epoca diventa possibile cercare la verità nei poeti, in quei poeti che sono particolarmente consapevoli del significato della poesia in questa epoca. Quest’idea è complessa, ma non del tutto inverosimile. Non tutti i poeti sono uguali, non sempre il rapporto tra verità e poesia si svela nello stesso modo. Per Heidegger di questa epoca sono emblemi poeti come Hölderlin, Rilke, Trakl, George.


    8 Professor Vattimo, lasciamo per un momento la poesia, per tornare proprio al discorso invece più globale sull’arte. Lei ha parlato dell’arte, dell’esperienza estetica come esperienza di verità. Possiamo allora radicalizzare il discorso e intenderla proprio come esperienza ermeneutica?

    Possiamo sicuramente parlare di esperienza ermeneutica in rapporto a questa verità intesa come appartenenza all’apertura. L’ermeneutica è quella posizione filosofica che individua l’esperienza della verità non come descrizione oggettiva di stati di cose, o quanto meno non solo come descrizione oggettiva di stati di cose, ma prima di tutto come abitare dentro un’apertura che ci regge e ci rende possibile qualunque descrizione oggettiva. Come a Marx interessava capire l’ideologia che sta dietro le nostre descrizioni del mondo, così a Heidegger interessa cercare di risalire a questa verità come apertura alla quale apparteniamo, a questo paradigma. Ora, questo risalire è un dialogo con la poesia. Heidegger ha spesso parlato della filosofia, del pensare, come dialogo di filosofia e poesia .
    Il dialogo di filosofia e poesia è sempre in corso e in esso entra in gioco il modo di vedere la verità come orizzonte a cui apparteniamo, il che non è molto lontano dalla religione. A mio parere una riflessione intensa, approfondita, sul rapporto di filosofia e poesia per il pensiero, non può che condurre anche a ritrovare una certa valenza religiosa di ciò con cui la filosofia ha a che fare. Potremmo dire che se ciò che ci si svela nella poesia è quella verità che ci è data come dono, come grazia - si potrebbe dire -, e con cui siamo in un rapporto di dialogo chiarificatore, interrogativo, non puramente contemplativo e passivo -, allora quell’altra forma della vita spirituale che Hegel, come ricorderete, metteva insieme a filosofia e arte, riguarda sicuramente la religione.
    Io credo che il pensiero contemporaneo, attraverso l’esperienza dell’ermeneutica, nella misura in cui riceve di nuovo un accesso ad una ricerca della verità, ad un ascolto della verità che si dà nella poesia, sia in qualche modo richiamato anche ad un’esperienza religiosa. Ciò che caratterizza il pensiero di oggi in una larga parte della filosofia - anche se non in tutta - è dapprima un nuovo ascolto della poesia, ma sempre più anche una nuova sensibilità religiosa che non mette da parte la poesia. Probabilmente se vi sarà una nuova esperienza religiosa del pensiero, essa dovrà essere sempre più intensamente collegata con l’esperienza estetica, comportando, a partire da questo aspetto, una ridefinizione dell’esperienza religiosa stessa.

    Intervista realizzata il
    20 giugno 1996, Milano - RAI

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    Predefinito Re: [archivio al 12/09/2006] Sugli scaffali dello scanto c'è...

    da "L'estetica del brutto"

    (non riporto la pur breve discussione seguita...)

    Emack ha scritto mer, 02 giugno 2004 alle 13:52
    da http://www.emsf.rai.it/articoli/articoli .asp?d=35

    Remo Bodei
    L'estetica del brutto
    intervista di Silvia Calandrelli rilasciata alla DEAR di Roma il 30-7-96


    Professor Remo Bodei, la definizione del brutto incontra le stesse difficoltà, se vogliamo, rovesciate e speculari, di quella del bello. Vi è qualche strategia allora per definirlo, per delimitare bene il campo?

    Il brutto è sempre stato considerato come l'ombra del bello, come il suo fratello gemello cattivo. Sostanzialmente, all'inizio della nostra civiltà, il brutto, come il falso ed il cattivo in senso morale, è una mancanza, è un'assenza di bello, un'assenza di vero, un'assenza di buono. Quindi l'unica strategia per capire che cosa è il brutto, è di strapparlo nella sua storia da questa assenza e vedere come acquisti progressivamente dei caratteri ben determinati e poi come acquisti anche diritto di cittadinanza nella patria dell'arte.
    Nella filosofia greca, soprattutto tra Platone e Plotino, il brutto si presenta sotto la forma del "non-essere". Una statua manca della proporzione giusta - secondo il canone di Policleto - quando ad esempio una testa maschile non sia, dal mento all'attaccatura dei capelli, un decimo dell'altezza del corpo. Se proporzioni canoniche come questa non sono rispettate, allora la statua viene brutta, è colpita da questa maledizione del non-essere, nel senso che c'è qualche cosa che non dovrebbe essere così.

    [...]

    Lei ritiene che la sensibilità dei nostri giorni sia ancora legata a questo pathos vero e proprio per il brutto?

    Credo di no, però dobbiamo pensare a cosa ha significato questo pathos per il brutto. C'è stato un periodo in cui l'arte si è posta come compito quello di svelare la presenza del dolore e delle lacerazioni all'interno della società e di ritrovare in questo rimosso il senso più autentico del bello. Puntando cioè solo su tale rimosso e quindi con forme di privazione sensoriale.
    Dice Adorno: "l'arte è in lutto". C'è una specie di divieto del piacere, io non devo godere durante la rappresentazione delle opere d'arte, cioè devo soffrire, devo sostanzialmente avere dell'arte una concezione ascetica. Adorno ha pagine molto belle proprio sul carattere della musica. La musica ha un aspetto di sofferenza, ma ha anche un aspetto liberatorio che si manifesta soltanto col pianto. Leggerei solo una sua frase: "L'uomo che si lascia defluire in pianto e in una musica che non gli assomiglia più in nulla, lascia contemporaneamente rifluire in sé la corrente di ciò che egli non è e che aveva ristagnato dietro lo sbarramento degli oggetti concreti. Col suo pianto e il suo canto egli penetra nella realtà alienata". Parole difficili, che però vogliono dire che se noi, attraverso l'arte, e in questo caso la musica, riusciamo a togliere questa barriera che ci separa dal mondo da cui ci siamo staccati, quindi dalla realtà alienata; se noi facciamo rifluire il mondo in noi e nello stesso tempo, attraverso questo allentamento della tensione, che si manifesta nel pianto, facciamo in modo che la nostra soggettività si metta di nuovo in contatto col mondo, ecco che l'arte a questo punto non mi dà soltanto dispiacere, ma anche piacere.
    Io credo che attualmente noi - per rispondere alla domanda - siamo stanchi forse di questa overdose di arte che fa soffrire e come tendenza generale - sociologicamente parlando, non artisticamente parlando - si cerca un bello senza dolore. Probabilmente questo dipende dal fatto che la sperimentazione si è avvitata su se stessa e che molte volte non c'è più creatività. Quello che è interessante è che il brutto non viene più necessariamente considerato un lievito o un concime per il bello. Si possono fare delle cose belle, senza pagare il pedaggio del brutto. Che questo sia un fatto transitorio o un fatto permanente, non lo so, però certamente perdendo il contatto col rimosso o col brutto probabilmente si sacrifica qualcosa e tempo verrà, presago, "il cor mel dice", in cui, dopo tutta questa fase luttuosa dell'arte del Novecento, il senso delle avanguardie potrà essere ripreso e senza avere la pretesa di affondare nuovamente nel brutto e nel rimosso, si dovrà pur fare i conti con ciò che un'arte troppo pacificata nel presente ci propone.

    ___________________________

    Si cerca il bello senza dolore. Può esistere, il bello senza dolore?

  24. #24
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    Predefinito Re: [archivio al 12/09/2006] Sugli scaffali dello scanto c'è...

    da "L'amore dei poeti."

    Ph@ntom ha scritto ven, 16 luglio 2004 alle 15:37
    […] Un giorno, nella sala da pranzo dove c’eravamo fermati, c’era Louise, la figlia della governante tedesca del nostro amico. Sembrava aspettarci e c’invitò a giocare alla poules, alle galline. Boreale quindicenne, faccino imbambolato, capigliatura biondo quasi albino giungente all’attacco delle cosce, lunghissime gambe cranachiane. Ci fece accoccolare sotto la tavola come si fa per i propri bisogni quando manchi altro modo per alleggerirsene. Anche la damigella, in mezzo a noi, si accoccolò allo stesso modo e poi, a uno a uno, sbottonò i pantaloncini e prese tra l’indice e il pollice affusolati, incredibilmente graziosi, l’oggettino, che, è la sua natura, scattò. Erano coserellini immaturi, i nostri, avevamo sei o sette anni. Lei scuoteva il capo: “Pouah! Oust! Filez! Un peu plus vite que ca, s’il vous plait! Quoi? Vous avez le toupet de rouspeter, petit nigauds ! Hélas ? Vos prouesses, on les a éprouvées, gros vauriens ! ». Il caso non intaccò la nostra innocenza, ma da quel giorno in noi s’era steso come un velo. Era un lievissimo velo, ma, dopo tutto, da quel giorno, Eva s’era affacciata alla mia vita. […]

    (G.Ungaretti)

  25. #25
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    Predefinito Re: [archivio al 12/09/2006] Sugli scaffali dello scanto c'è...

    da "Scoperta la più antica città Maya"

    Emack ha scritto mer, 05 maggio 2004 alle 23:40
    da repubblica.it

    Un archeologo italiano, Francisco Estrada Belli, ha rinvenuto
    in Guatemala reperti di una civiltà risalente al 500 a.C.
    Scoperta la più antica città Maya
    "Costretti a riscrivere la storia"
    Due maschere in stucco, alte 5 e larghe 3 metri trovate a Cival, rimandano a una società molto complessa e sviluppata

    ROMA
    - Due maschere di pietra che raffigurano volti umani con denti di serpenti sono stati rinvenuti, tra altri reperti straordinari, dall'archeologo italiano Francisco Estrada Belli in una località finora poco esplorata del nord-est del Guatemala, nel sito di Cival. Secondo lo studioso, docente alla Vanderbilt University di Nashville, si tratta di reperti di una delle più grandi città dell'epoca pre-classica Maya. Della scoperta hanno scritto oggi New York Times e Le Monde.

    Le maschere, riemerse dalla foresta tropicale pressochè intatte rivelerebbero rituali religiosi di una civiltà ben più antica, sofisticata e complessa di quanto si è pensato finora. Non solo: la scoperta porterebbe "indietro" l'orologio con cui si data l'inizio della civiltà Maya, visto che i reperti scoperti risalgono al 500 avanti Cristo, mentre comunemente si data al 300 avanti Cristo l'inizio dell'era.

    Francisco Estrada Belli, nato a Roma nel 1963, si è trasferito - come tanti brillanti ricercatori - negli Stati Uniti subito dopo essersi laureato in Archeologia e Antropologia all'Università della Sapienza nel 1991. E' dal 1995 che conduce ricerche in Guatemala e dallo scorso anno, come docente dell'Università Vanderbit, è stato incaricato dalla National Geographic di esplorare un'area poco battuta nel Nord Est del Paese.

    "Gli scavi a Cival - rivela lo studioso italiano - hanno portato alla superficie piramidi pre-classiche, sculture monumentali, offerte sacre e oggetti religiosi in giada che gettano una nuova luce sulle cerimonie e sul simbolismo delle prime dinastie Maya". Si tratta di scoperte che potrebbero costringere gli storici a riscrivere le tappe di quella civiltà.

    L'apogeo di Cival è avvenuto infatti molto prima delle altre antiche città Maya del Guatemala e dello Yucatan. A Cival vivevano probabilmente diecimila persone, nel momento del suo massimo splendore, diverse centinaia di anni prima del periodo Maya classico. "La città - ipotizza l'archeologo - fu probabilmente abbandonata dopo un attacco violento da parte di una potenza emergente, come Tikal".

    La disposizione degli edifici di Cival serviva a misurare il tempo. La città "aveva una funzione astronomica - ha spiegato il ricercatore - l'asse dei principali edifici e la piazza erano orientati verso il sorgere del sole dell'equinozio".

    Sono però le due grandi maschere antropomorfiche in stucco, alte cinque metri e larghe tre metri, ad aver entusiasmato l'equipe archeologica e a promettere di divenire un sensazionale richiamo turistico per il sito. I volti, in un ottimo stato di conservazione, sono identici: gli occhi, intagliati a forma di 'L' , hanno per decorazione disegni di piccoli gusci di chicchi di grano. "Probabilmente - ha osservato Estrada-Belli - si tratta delle divinità Maya del frumento".

    Le bocche, squadrate, hanno al centro un paio di denti da serpente; le orecchie sono rettangolari ed hanno un motivo ad 'U' nel centro. L'archeologo ritiene che nel sottosuolo potrebbero essere ancora nascoste altre due maschere di pietra dello stesso tipo. E' presumibile infatti che le quattro sculture fossero adagiate sulla scalinata del tempio a piramide, dove si arrampicava il re Maya della città per rappresentare il rito simbolico della creazione.

    La maschere, gli scrigni di giada, le lastre di pietra incavate con immagini di re e tutti gli altri oggetti dissepolti a Cival fanno pensare - dicono gli studiosi - ad una società sviluppata come quella di epoche molto più tarde. Il periodo classico dei Maya si estende dal 300 a.C. al 900 d.C., quando questa civiltà, famosa per le sue piramidi a gradoni e il calendario, cominciò inesorabilmente a declinare.
    (5 maggio 2004)

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