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  1. #26
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    Predefinito Re: [archivio al 12/09/2006] Sugli scaffali dello scanto c'è...

    da "Significato e memoria nella società della tecnologia"

    Emack ha scritto mar, 06 aprile 2004 alle 12:46
    http://www.mediamente.rai.it/biblioteca/ biblio.asp?id=184&tab=int

    Arthur e Marilouise Kroker
    Mestre, 30-11-1996
    Controcultura e guerriglia high-tech


    [...]

    Domanda 6
    Cosa sembra essere più affascinante nel complesso dei nuovi media e come pensa che comunicheremo in futuro?

    Risposta ( Arthur Kroker )
    Quello che ho notato nel processo di globalizzazione dei media, è che c'è una tendenza ad immaginare il mondo ma a non comprenderne nulla. Il pensatore francese Jean Baudrillard ha ragione, quando afferma che possediamo forme di comunicazione imponenti. Abbiamo un vero sovraccarico di informazioni. Ma, nello stesso tempo, in un modo esatto ed eguale, abbiamo una grande diminuzione di significato umano; abbiamo sistemi di comunicazione di massa, e, allo stesso tempo, siamo di fronte ad una vera degenerazione di significato umano. Per me c'è stata una degenerazione non semplicemente del linguaggio, ma una degenerazione delle prospettive umane. In molti modi, credo che la nostra cultura sia diventata profondamente autistica. Forse per autoprotezione, ma forse siamo quasi entrati anche in una nuova fase di degenerazione sociale.

    [...]
    Domanda 8
    Voi dite che i computer non posseggono memoria perché non contengono un giudizio politico ed estetico. Cosa possiamo fare con i computer? Come possiamo utilizzarli al meglio?

    Risposta ( Arthur Kroker )
    Abbiamo affermato ciò confrontando cosa può accadere nella memoria di un linguaggio di computer rispetto alla memoria umana. La gente sminuisce sempre la nozione della memoria umana. Noi non pensiamo che sia vero perché crediamo che la memoria umana sia diventata ipertesto molto prima che gli sviluppatori di software producessero l'ipertesto. La memoria umana possiede quello che la memoria di computer non possiede: essa non è solo e semplicemente la messa insieme di fatti, ma consiste anche nel dimenticare informazioni, e nel far fluttuare i fatti nel proprio ricordo immaginario, che rappresenta la realtà del proprio passato. In questo modo, l'effettiva nozione della memoria di computer, rappresenta una reale degenerazione delle possibilità della memoria. Tuttavia, non voglio dire che la tecnologia digitale non contenga possibilità realmente interessanti per analizzare la nozione della memoria. Potremmo usare la nuova tecnologia per creare un passato fatto di "ricombinazioni" di fatti e storie costruite allo stesso modo, in cui, per esempio, applicare alla narrazione la nozione di montaggio, di ordinamento e di intreccio del futuro con il passato, e della creazione di nuove forme di narrativa. I media lo fanno continuamente. Queste nuove tecniche di memoria del computer sono assimilabili a quello che viene chiamato il "newcast", che troviamo in qualsiasi spettacolo televisivo.

    Ph@ntom ha scritto mar, 06 aprile 2004 alle 13:41
    E' vero.
    Non bastava l'"Homo videns" di sartoriana memoria. No. Stiamo oltrepassando la misura: diventiamo "Homo informaticus" (concedetemi il latino maccheronico). Una becera degenerazione.
    Cioè non solo siamo uomo-che-assorbe-passivo, trasmutiamo bensì nell'uomo che fa della sua passività lo strumento per *comprendere* il mondo, e in una certa maniera ci "attiviamo" per questo. Ci raddrizziamo dalla nostra postura ingobbita assorta nella contemplazione di uno schermo luminoso quasi come gazze ladre, per sfoggiare la nostra nuova attenzione e sicurezza, la nostra preparazione "informatica" del mondo.

    Sono sicuro che molti inconvenienti come quello che stà succedendo in Iraq in queste ore, siano risolvibili anche senza avere la presa diretta (si dice così?) 24 ore al giorno.

  2. #27
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    Predefinito Re: [archivio al 12/09/2006] Sugli scaffali dello scanto c'è...

    da "Censorship"

    Emack ha scritto mar, 06 aprile 2004 alle 22:08
    Alla cerimonia dei Juno Awards, gli oscar della musica canadese,
    a Edmonton, ha fatto il verso alla performance di Janet Jackson
    La Morissette contro la censura
    fa un finto spogliarello
    E' stata costretta a togliere una parolaccia da una canzone


    Il finto spogliarello

    EDMONTON - Dal seno di Janet Jackson all'ironia di Alanis Morissette. Alla fine della sua esibizione alla cerimonia dei Juno Awards, gli oscar della musica di Edmonton, la cantante canadese ha fatto il verso a Janet Jackson. Ma non ha avuto il coraggio di spogliarsi, facendosi scivolare ai piedi il vestito e restando in una finta nudità: aveva una tuta color carne completa di finti capezzoli e una caricaturale cascata di pelo pubico.

    Il finto strip ha però un messaggio duro: "Viviamo in un Paese in cui il corpo umano è considerato bello - ha detto la cantante di Ottawa - Non dovremmo aver paura di un seno scoperto!".

    Il suo scopo infatti è stato solo di ridicolizzare la censura americana: "Sono orgogliosa di poter vivere in un Paese in cui è possibile mostrare il mio corpo." Poi ha bacchettato le stazioni radiofoniche che l'hanno costretta a togliere la parola "asshole" (letteralmente 'scemétto') da una delle sue canzoni: "Vivono in un momento in cui hanno paura di tutto", ha affermato.
    (6 aprile 2004)

    _________________________________

    1. In una società democratica, è auspicabile la presenza della censura?
    2. In caso di risposta affermativa alla precedente domanda, in che misura essa deve intervenire?

    Invito tutti a considerare la questione da una prospettiva di comunicazione di concetti artistici.
    StM ha scritto mer, 07 aprile 2004 alle 11:49
    Bip, bip, bip la maestra

    Il seno della Jackson non credo ci riguardi, non era mostrato con intenti artistici

    Invece la censura alle canzoni, per esempio... fino ad un certo punto direi che non deve esserci, ma se cominciano a spuntare messaggi razzisti? Si sconfina nell'illegalità, se non sbaglio.
    Greenphlock Gringott ha scritto mer, 07 aprile 2004 alle 13:32
    Io sono contro la censura in tutte le sue forme ed intenzioni.
    Durante le guerre la censura viene utilizzata per non far capire ai civili la gravità della situazione.
    In tempo di pace invece si usa la censura per sanzionare comportamenti che vanno contro la morale dello stato.
    Siano essi attività criminali oppure "spettacoli degradanti".
    La censura è diventata uno strumento di potere e di contrllo sul Altro.

    Cotrolla l'informazione e finirai per controllare chi fa uso dell' informazione stessa.

    Mi chiedo se si possa ancora parlare di democrazia (ovvero pluralità di opinioni e punti di vista) quando uno stato o un 'ente si permette di giudicare e censurare un mio comportamento ,un discorso, uno scritto o una canzone .
    Oppure gli stati moderni sono false democrazie?Alcune posizioni (opinioni) sono ammesse le altre no.
    Emack ha scritto mer, 07 aprile 2004 alle 15:45
    Il nazismo chiuse la Bauhaus, definita "arte degenerata".
    In Italia sono stati recentemente annullati da forze politiche concerti dei Death SS, definiti "arte degenerata".
    Negli USA, negli anni Ottanta, il PMRC pretendeva una fortissima censura contro l'"arte degenerata".

  3. #28
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    Predefinito Re: [archivio al 12/09/2006] Sugli scaffali dello scanto c'è...

    da "Overclocker: i nuovi ribelli? [intervista a Bruce Sterling]"

    Emack ha scritto ven, 23 aprile 2004 alle 14:29
    da www.espressonline.it

    Tutto il potere
    agli Overclocker

    Usano il pc per andare oltre il presente. Tra fantascienza e utopia. Ecco i nuovi ribelli secondo il profeta del cyberpunk Bruce Sterling

    di Francesca Tarissi



    Cinquant'anni ad aprile e aria gioviale, Bruce Sterling è lontano anni luce da quell'immagine dark che si visualizza istantaneamente in chiunque pronunci la parola "punk". Nessun chiodo di pelle iperborchiato, nessun accessorio strano di metallo, niente anelloni, piercing o capelli colorati dritti in testa. Il guru del movimento letterario cyberpunk, lo stesso che ne delineò il manifesto poetico-politico nell'antologia di racconti fantascientifici "Mirrorshades", il texano che guidava un gruppo di giovani (allora) talenti che intendevano vivere ed esperire la tecnologia "sottopelle", oggi è un signore appena informale ed eccentrico. Ma l'ex ragazzaccio di Brownsville non ha rinunciato a muovere le idee e a proporre al mondo la sua personale visione della tecnologia, connessa con la politica.

    Lei è venuto in Italia per partecipare a un convegno sulla roboetica, l'etica applicata ai robot. Che cosa ci fa uno scrittore cyberpunk in mezzo a tanti scienziati e accademici?

    "Negli anni '80, quando scrivevo per le riviste di fantascienza, mi sarebbe piaciuto davvero molto entrare in contatto con un certo mondo scientifico. L'idea che adesso ho un peso letterario sufficiente da potermi rivolgere a persone di questo tipo, mi diverte e al contempo mi interessa molto. Temo, però, che ciò significhi che dovrò comportarmi come un intellettuale rispettabile. Del resto, ormai preferisco essere un intellettuale rispettabile piuttosto che un orribile cyberpunk...".

    Non si considera più un punk?

    "In passato lo sono certamente stato. Ho ancora gli orecchini, la giacca di pelle nera... Quando avevo 25 anni, e cioè 25 anni fa, ero più in conflitto con la cultura del momento di quanto non lo sia adesso. Ero un punk, uno scrittore punk bohémien. Ora sto uscendo da tutto questo".

    Ci sono ancora i cyberpunk nel 2004?

    "Oh, direi che i nomi e le definizioni non hanno importanza. I nomi cambiano continuamente: bohémien, flapper, hippie, punk, raver, dissident. C'è sempre una minoranza giovanile scontenta. Fa parte della condizione umana ed è positivo perché può portare a una maggiore chiarezza di quanto ci circonda. Il movimento punk in senso stretto non diverrà mai un movimento di massa. Oltre la metà della popolazione americana ha accesso a un computer. Io ho un portatile e anche lei sicuramente ne ha uno. Sono questi gli aspetti che si diffondono veramente, non tanto il fatto che la gente legga le parole che io ho usato nelle mie idee, le idee che ho discusso vent'anni fa. La vera vittoria non è il fatto che io abbia detto qualcosa che ha avuto effetto, ma è che adesso siamo tutti cyber. Io sono un cyberpunk, ma c'è un cyberesercito, una cyberaccademia, un cybergoverno, una cyberstampa...".

    Quindi in realtà siamo tutti dei cyberpunk?

    "Sì, tutti. Perché la verità è che non hai bisogno di essere un punk quando si tratta di un'idea nuova. Quando hai un'idea nuova e rivoluzionaria la gente ti definisce punk. Non sono stato io a scegliere quel nome. Guarda quanti computer ci sono oggi in giro. I computer sono ovunque, gli aspetti cyber sono ovunque. Ho un computer così piccolo da poterlo tenere in tasca. Venticinque anni fa non esisteva e adesso eccolo qua: non solo ne ho uno, ma è anche europeo!".

    D'accordo però che il nome punk suoni un po' datato?

    "Sì, è sorpassato. Passo molto tempo con i giovani scrittori e gli dico sempre di non definire se stessi cyberpunk, perché è fuori moda. Molto meglio che si definiscano Overclocker".

    Scusi?

    "In Rete vengono definiti Overclocker quelli che amano spingere il proprio computer oltre i suoi limiti teorici. In senso lato, gli Over Clocker sono quelle persone che cercano di guardare e andare sempre un po' oltre le frontiere del presente. Ecco perché gli Overclocker sono gli eredi dei cyberpunk. Io e quelli della mia generazione restiamo dei cyberpunk perché siamo troppo vecchi per essere Over Clocker. Questi nuovi scrittori di fantascienza, come Cory Doctorow e Charles Stross (i più conosciuti), o anche Karl Schroeder, Peter Watts, Wil McCarthy e Alastair Reynolds, hanno invece al massimo trent'anni. Hanno letto i nostri lavori e in un certo senso sono i nostri eredi spirituali. La differenza tra noi e loro è costituita da vent'anni di sviluppo tecnologico. Ciò significa che vivono e lavorano in una società diversa da com'era la nostra. Gli Over Clocker utilizzano le e-mail e pubblicano sui blog: noi vecchi cyberpunk, alla loro stessa età, eravamo invece abituati a stampare con le Xerox e a battere con la macchina da scrivere".

    Tra i nomi che mi ha citato, c'è n'è uno in particolare che lei considera il suo vero erede spirituale?

    "Esiste un gruppo di giovani scrittori che più volte l'anno si riunisce da me. Io esercito indubbiamente una certa influenza su di loro e sul gruppo letterario di discussione che abbiamo creato insieme, ma in nessun modo cerco di far sì che loro scrivano secondo il mio stile. Sponsorizzando "Turkey City Workshop" (questo è il nome del gruppo), sto cercando di ripagare il debito che io ho verso gli scrittori che mi aiutarono quand'ero giovane e sconosciuto. Io penso che ognuno debba dare ai propri eredi gli strumenti di cui hanno bisogno per creare i propri lavori, evitando il più possibile di opprimerli con l'eredità che lasciamo loro".

    Che cosa scrive adesso?

    "Via via che invecchio e divento rispettabile, scrivo di cose più serie. Mi occupo soprattutto di politica contemporanea. Sono tempi molto duri per gli Stati Uniti. Non mi ricordo di aver mai vissuto un momento così brutto. Le cose vanno male quasi come negli anni '50 e a metà degli anni '70. Stanno succedendo delle cose molto brutte".

    Scorge all'orizzonte dei pericoli per la nostra libertà civile e digitale?

    "Sì, esatto. Occorrerebbe stabilire delle leggi. L'argomento è molto serio. Le libertà civili legate a Internet sono in una fase iniziale. Ma occorre essere consapevoli che la libertà civile ed elettronica non è un qualcosa che si può avere e basta. Bisogna conquistarla nuovamente, di volta in volta. Bisogna continuamente ricrearla. Il mio sospetto è che il pericolo più grave oggi sia rappresentato da una sorta di conquista pianificata dello Stato da parte di multinazionali corrotte. Quando a essere implicati sono i livelli più alti del governo, allora diventa impossibile innovare. La società finisce impantanata in una serie infinita di speculazioni di stile mafioso che non portano a nulla. In questo senso, penso che la Russia sia all'avanguardia rispetto al resto del mondo. Non grazie al modello sovietico, ma a modelli tipo Yujos Oil: un nuovo ordine mondiale gestito da imbroglioni con dei conti in banca all'estero, che possono comprare e rivendere i politici a loro piacimento. Qualcosa di simile a quanto sono state Enron negli Usa e Parmalat in Italia. Una società del genere può apparire libera dal di fuori, con i suoi annunci televisivi colorati e le donne curate e ben vestite, ma la sua cultura, la cultura che permea la società, è ferma, impantanata, e soffoca lentamente per mancanza di onestà".

    E come si può combattere un simile stato di cose?

    "Si può combattere riconoscendo e proteggendo quelle cose che, come ebbe a dire una volta Italo Calvino, "non sono parte dell'inferno". Bisogna essere consapevoli di ciò che succede e riconoscere che non ci sono vittorie finali nella battaglia per la "libertà". Il prezzo della libertà potrebbe benissimo essere "la vigilanza eterna", ma dato che noi esseri umani non siamo eterni non abbiamo bisogno di soluzioni permanenti e incredibili. Ci basta fare del nostro meglio mentre abbiamo la fortuna di essere qui. Il pericolo maggiore è quello di una guerra civile globale. Un movimento globale che si scontra contro il capitalismo a livello mondiale. Con effetti devastanti. Ma cose orrende sono avvenute durante tutto il Ventesimo secolo e siamo comunque sopravvissuti. Non credo nell'Apocalisse. Trovo che l'idea dell'Apocalisse sia noiosa. Potremmo attraversare un brutto momento di una decina d'anni, ma non sarebbe permanente, quindi non dovremmo disperare. Corriamo un rischio, ma è soltanto un rischio. I momenti brutti passano, proprio come quelli belli".

  4. #29
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    Predefinito Re: [archivio al 12/09/2006] Sugli scaffali dello scanto c'è...

    da "Dittatura, verità, realtà, storia."

    Emack ha scritto mar, 13 aprile 2004 alle 16:45
    da ilriformista.it

    FILOSOFIA. IL RAPPORTO TRA VERITÀ E POLITICA ANALIZZATO IN LUNGO E IN LARGO
    Quando la libertà è questione di centimetri
    Chi disse che l’economia cresce se al potere ci sono i bassi? Non Orwell, per lui 2+2 non fa sempre 4


    Fate attenzione alla sublime discrepanza tra il contenuto e la forma di questa citazione: «Quando gli odierni studi sui rapporti tra costituzione e carattere saranno giunti a risultati più generali, lo storico futuro del capitalismo affronterà senza dubbio la questione, domandandosi se, per caso, ai tanti fattori materiali e spirituali, che sembrano oggi poter spiegare la localizzazione geografica delle manifestazioni capitalistiche, non si debba aggiungere quello d'una diversa costituzione degli individui al potere (…). Noi pensiamo che in ricerche future, sul nostro argomento, sarà tenuto largo conto del fatto che a una fase di attenuazione dell'attività economica nei paesi dell'Europa mediterranea corrisponde una andata al potere, come elementi delle classi dirigenti, di individui longilinei; mentre, nell'epoca del ravvivarsi dell'attività economica nei paesi dell'Europa atlantica, troviamo che le classi dirigenti sono costituite in prevalenza di brevilinei». L'autore nota, con lo stile tipico del compassato studioso di cose politiche, un evento che successivamente, dal punto di vista biografico, lo riguarderà (dall'alto) da vicino, e cioè che in periodi di difficoltà economiche vanno al potere uomini politici longilinei (alti di statura), mentre in periodi di benessere economico salgono al potere individui brevilinei (e cioè verticalmente svantaggiati). Ora, chi può aver sostenuto simile tesi patafisica con tanta comicissima (e inconsapevole) serietà? Chi poteva essere direttamente interessato a una scoperta di questo tipo? Diamo qualche indizio. La citazione è tratta da un libro del 1934. Il titolo, insospettabilmente weberiano, è Cattolicesimo e protestantesimo nella formazione storica del capitalismo. E l'autore si chiama (ci siete arrivati?) Amintore Fanfani. Ora, quello che a noi però qui interessa, non è tanto Fanfani e l'elogio dell'individuo brevilineo, ma il rapporto tra verità e politica di cui le tesi di Fanfani rappresentano un esempio marginale e purtroppo trascuratissimo.

    In un libro recentemente pubblicato da Einaudi e curato da Simona Forti, La filosofia di fronte all'estremo, sono infatti raccolti vari interventi (di Raymond Aron, di Jan Patocka, di Hannah Arendt, di Emmanuel Lévinas, di Michel Foucault, di Claude Lefort, di Leszek Kolakowski, di Václav Havel, di Reiner Schürmann, di Jacques Derrida, di Jean-Luc Nancy) che affrontano l'argomento mostrando, da diverse prospettive teoriche e da diversi orizzonti temporali, il rapporto che la filosofia intrattiene con la politica nella sua versione estrema: quella del totalitarismo. Nell'impossibilità di rendere conto di tutte le posizioni che il volume prende in esame, vale la pena soffermarsi su quanto scrive il filosofo polacco Leszek Kolakowski nel saggio: Il totalitarismo e la virtù della menzogna. Kolakowski si chiede: che ne è della verità, della ragionevolezza della scienza, della filosofia e del sapere storico in una società completamente controllata da un potere totale? Contrariamente a quanto normalmente si pensa, un regime dittatoriale non si fonda su una verità indiscutibile, forte e rigidamente dogmatica, ma sulla negazione di ogni tipo di verità e sull'eliminazione del principio di realtà. In 1984 Orwell ripete più volte l'affermazione secondo cui anche l'evidenza matematica (2 più 2 fa 4) può essere negata se il tiranno decide che lo debba essere, al punto che gli stessi sudditi non sono più in grado di opporre alcun argomento in grado di confutarne la presunta verità. Scrive Kolakowski: «non rimane nient'altro se non le credenze universalmente imposte, che, naturalmente, possono essere cancellate il giorno successivo. Non esiste un criterio di verità praticabile, eccetto per ciò che viene dichiarato vero in ogni istante dato». Lo stesso Kolakowski, a proposito, racconta un episodio che l'ha riguardato da vicino: nel 1950, durante una visita all'Hermitage di Leningrado, il vicedirettore del museo gli disse: «noi abbiamo, compagni, nei sotterranei, molti dipinti borghesi corrotti e degenerati. Sapete, tutti quei Matisse, Cézanne, Braque e così via. Non li abbiamo mai esposti nel museo, ma forse un giorno lo faremo, in modo tale che il popolo sovietico possa vedere con i propri occhi quanto l'arte borghese sia caduta in basso». Ma sette anni più tardi Kolakowski capitò ancora in quel museo e lo stesso vicedirettore, cambiando orientamento, questa volta gli comunicò: «qui vedete i capolavori dei grandi pittori francesi: Matisse, Cézanne, Braque e altri. E sapete che la stampa borghese ci accusa di rifiutarci di esporre questi dipinti? Ciò a causa del fatto che ad un certo punto alcune stanze del museo vennero ridipinte e temporaneamente chiuse». L'ambizione totalitaria è quindi quella di costringere i propri sudditi a una continua (e impossibile) adeguazione della propria personalità e delle proprie credenze alle esigenze arbitrariamente imposte dal potere. Il risultato, scrive Kolakowski, è lo sradicamento di ogni forma spontanea di vita sociale e la sua sostituzione con un rituale formalizzato. È quanto racconta, ad esempio, Václav Havel nel saggio successivo a quello di Kolakowski, Storie e totalitarismo: nel regime cecoslovacco, una volta che il potere era diventato il detentore di ogni verità, la storia si era come necrotizzata e «il tempo pareva fare come surplace oppure girare in tondo, pareva frammentarsi in istanti intercambiabili». Viene in mente Alexandre Kojève quando, volendo definire le stesse esperienze che Václav Havel, insieme a milioni di altre persone vittime di sistemi politici totalitari, avevano vissuto, scriveva: «La fine della storia è la morte dell'Uomo propriamente detto. Dopo questa morte restano dei corpi vivi dotati di forma umana, ma privi di Spirito, cioè di Tempo o di potenza creativa».
    ______________________________

    Ritenete che una dittatura si fondi sulla negazione di qualsiasi sorta di verità e qualsiasi sorta di legame con la realtà?
    Io sono dubbioso.
    Mi viene in mente un esempio banale: il nazismo. Esso si fondava - a un livello superficiale di analisi - su una serie ben precisa di dogmi.
    StM ha scritto mer, 14 aprile 2004 alle 11:21
    Non capisco il tuo dubbio sul nazismo... i dogmi erano tutta fuffa, esattamente come chiedi. Il nazismo si basava sulle storie strampalate della superiorità germanica, ad un'esame superficiale come dici tu. E ovviamente la negazione della verità era pratica abituale nel giornalismo.

    Non conosco dittature che abbiano risparmiato la libertà di stampa (neanche tante democrazie, ma lasciamo stare), e questo dovrebbe bastare a fugarti i dubbi.

  5. #30
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    Predefinito Re: [archivio al 12/09/2006] Sugli scaffali dello scanto c'è...

    da "La Scena, i Computer, l'Ego-stimolazione"

    Emack ha scritto ven, 23 aprile 2004 alle 14:43
    da http://www.abnormalia.net/900/demos/d-sc e.htm

    La Scena, i Computer, l'Ego-Stimolazione
    di Macno


    La scena è uno strumento di piacere.
    Lo è ogni cosa con cui noi interagiamo volentieri.
    L'uomo è incessantemente alla ricerca di piacere, in un modo o nell'altro, spesso per vie traverse e alquanto misteriose.
    Il piacere può essere fisico o psicologico.
    Può essere l'abbuffata ad un pranzo di nozze o il ritiro in ascetica meditazione, la compagnia di una persona amata o il controllo della radio locale.

    Ci sono strumenti di piacere che sono particolarmente versatili e soddisfacenti. Il computer ne è un perfetto esempio.
    Il possessore lo usa nel modo che preferisce, riempie il suo hard disk di tanti piccoli attrezzi immateriali che usa per suo diletto, esplora, conosce, configura, lo plasma secondo le proprie necessità e i propri desideri.
    Magari lo abbellisce con immagini porno per soddisfare parzialmente anche i desideri più ancestrali.
    Ogni utente tende a fare del suo computer il giocattolo perfetto, quello che risponde alle proprie necessità nel modo preferito.

    Una fonte di piacere psicologico è l'Ego Stimolazione.
    Qualsiasi cosa positiva detta o riferita a noi aumenta la nostra opinione di noi stessi, gonfia l'ego, ci stimola la sete di riconoscimento e affermazione.

    La scena è un mondo di Ego-Stimolati.
    I singoli giocatori di questo grande gioco agiscono e producono per Ego-Stimolarsi, per affermare il proprio nome tramite le proprie opere. A differenza di un computer, la scena non può essere facilmente plasmata secondo i propri desideri, uno ci si deve adattare per succhiarne al meglio le sue risorse Ego-Stimolanti.
    La ricerca di Ego-Stimolazione spinge programmatori, grafici, musicisti e tutte le altre specie a dilapidare tempo facendo demo e produzioni varie senza lucro e senza riconoscimenti nel mondo reale.
    Li costringe a realizzarli secondo i canoni e le leggi etiche ed estetiche esistenti.
    Li induce contemporaneamente a cercare di cambiare questi canoni, che non sono assoluti ma evolvono con la scena, a svolgere un ruolo attivo su di essa, a tentare di fare con essa quello che si fa con un computer.


    La scena è finta, ma i suoi effetti sui suoi membri sono reali.
    E' una vita parallela dove le personalità si sperimentano, dove si possono raggiungere successi non possibili nella vita reale.
    Ci si può innamorare della scena e della propria vita al suo interno, lo si fa perché la vita reale non concede le stesse soddisfazioni, perché non produce le stesse Ego Stimolazioni.

    La scena fa bene all'Ego, dunque, ma è pericolosa come la stessa Ego Stimolazione.
    E' una droga che induce tolleranza e dipendenza. La Stimolazione viene ricercata sempre in dosi maggiori, commenti benevoli fatti e ripetuti nella scena sulla propria opera non fanno più effetto, lasciano indifferenti, ci si è abituati.

    L'Ego Stimolazione è alla base della motivazione nella scena, quando non viene più somministrata o quando non si possono più dare dosi maggiori, lo scener si stufa, perde interesse, lascia la scena.

    Non c'è motivo di credere che quanto detto sopra non valga anche per ogni altro genere di Scena, cioè per ogni realtà alla base di ogni attività umana.

    Precedentente pubblicato su Infamia 2, rivista su disco sulla scena demo Amiga
    _________________________
    Per arrivare all'egostimolazione, nella scena bisogna accettare le regole preesistenti e contemporaneamente tendere a mutarle. Affascinante.

    E' così anche altrove, sicuramente. Ma in quale misura?

  6. #31
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    da "Il teppismo è un rituale abortito"

    Emack ha scritto ven, 02 aprile 2004 alle 16:51
    da ilriformista.it

    ULTRA’ 1.SECONDO HILLMAN, IL TEPPISMO È «UN RITUALE ABORTITO» DA RISACRALIZZARE
    DI EDOARDO CAMURRI
    La violenza negli stadi? E' l'ira degli dèi pagani
    Per il filosofo junghiano servono più leggi «marziali». Ma anche più amore nel culto divino dei calciatori


    Un giorno dell'Ottocento, secondo il resoconto del poeta Heinrich Heine, la dea Diana comparì in un bosco e confessò a uno dei suoi infiniti corteggiatori: «Gli dèi antichi non sono morti, si tengono solo nascosti entro grotte montane e templi in rovina». E in effetti gli stessi cristiani, almeno fino al Concilio di Trento, condividevano quell'opinione e ritenevano che le divinità pagane continuassero ad esistere ancora sotto la forma di demoni maligni. Erano consapevoli della loro presenza e, in qualche modo, sapevano anche come tenerne conto. Fino alla fine del medioevo, infatti, in periodi determinati dell'anno, gli dèi antichi ricevevano una degna celebrazione: durante la festa dell'asino, simbolo tradizionalmente legato a satana, quest'animale veniva introdotto nel coro della chiesa, occupava un posto d'onore e riceveva addirittura straordinari segni di venerazione e, nella «festa dei folli», un vero e proprio baccanale, il basso clero si abbandonava ai gesti più sconvenienti e parodiava, rovesciandola, la liturgia cristiana. La gerarchia ecclesiastica conosceva quindi una verità ormai dimenticata: «Si trattava - scriveva il filosofo francese René Guénon - di canalizzare in qualche modo le tendenze dei demoni maligni per renderle il più possibile inoffensive, assegnando così a queste manifestazioni degli stretti limiti che non era permesso oltrepassare». Non celebrare gli dèi antichi significava infatti estendere all'inverosimile le loro tendenze demoniache provocando, a tutti i livelli dell'esistenza individuale e collettiva, il rovesciamento dell'ordine nel disordine.
    Ma se gli dèi non sono morti, oggi, ormai dimenticati, dove sono finiti? Per Jung «gli dèi sono diventati malattie» e, per un dei suoi più grandi allievi, James Hillman, è necessario sapere come evocarli per comprendere meglio le tendenze fondamentali del nostro tempo. In una lezione intitolata Città, sport e violenza tenuta all'Università dei Firenze nel giugno del 1990 e reperibile sul sito internet della rivista Adelphiana (adelphiana.it, cliccare su «archivio 2002»), James Hillman discute un tema dibattutissimo in questi ultimi giorni, quello della violenza sportiva nel calcio, per riconoscere come, dietro questo fenomeno, agiscano ancora gli antichi dèi pagani in cerca di un'adeguata celebrazione. Ora, la cosa può sembrare bizzarra, ma confrontare la spiegazione di Hillman con quelle comunemente utilizzate (da sociologi, marxisti, psicoanalisti, strutturalisti) per comprendere la violenza sportiva, porta ai suoi argomenti una persuasività sorprendente. Le spiegazioni dei sociologi, infatti, si mantengono quasi sempre al livello della tautologia e, ridotte all'osso, si possono ridurre a questo: la violenza esiste perché esiste la violenza; le spiegazioni marxiste, per definizione, annullano invece i problemi perché tutto ciò che accade è destinato a essere superato dalla vittoria della loro teoria, mentre gli analisti freudiani, di norma, non possono mai arrivare a conclusioni definitive per l'inesauribilità dell'inconscio libidinoso (e, quando ci arrivano, i risultati sono irresistibilmente comici come quello, raccontato dal grande allievo di Freud, Georg Groddeck, secondo cui i protestanti sarebbero contrari al celibato dei preti in quanto pro testiculus, eccetera). Quindi, qual è la spiegazione di Hillman? Tutti gli sport (dal ping pong al calcio) sono tradizionalmente il luogo di manifestazione di Marte, il dio della guerra, l'eroe possente, il danzatore. E, come avevano compreso i cristiani medioevali, ignorare una divinità comporta la manifestazione della sua ribellione e della sua furia distruttrice. Scrive Hillman: «Il teppismo è un rituale abortito. Lo considero una richiesta del dio alla popolazione affinché il suo potere venga riconosciuto e rispettato. In una città laica il dio marziale non trova egida per la propria furia. E così il suo potere si disperde in una violenza laica e casuale, ritorcendosi contro i suoi stessi adepti, gli spettatori e i tifosi, che nel loro inconsapevole tentativo di onorarlo provocano soltanto una repressione ancor più severa». Occorre quindi rivolgersi alla mitologia e trovare in questo luogo la soluzione perché, come scrive Hillman, «dopotutto gli dèi (…) sono intelligenze. Quando inventano ciò di cui hanno bisogno dobbiamo supporre che sappiano cosa stanno facendo».
    Nella mitologia Marte è sempre accompagnato da Venere, la dea della bellezza, e il suo maestro è Priapo, colui che gli insegna a danzare e a trasformare in espressione rigorosa (e limitata) il suo istinto distruttore. Venere e Priapo hanno quindi la funzione di canalizzare positivamente la forza di Marte e di rendere onore alla sua divinità in cerca di riconoscimento. Quali sono quindi le soluzioni che Hillman suggerisce per arginare la violenza sportiva? Vediamone alcune. Fare in modo che gli eventi sportivi invitino esplicitamente Marte a prenderne parte: «Più musica marziale, bandiere, canti; più arbitri, più giudici, più autorità; più sfilate, costumi, cerimonie». Prevedere rituali specifici per gli spettatori: «Si inventi un rite d'entrée e un rite de sortie più formalizzato, cosicché il dio che governa lo stadio venga racchiuso all'interno dello spazio sacro». Ricordarsi di Venere e prevedere sul campo balli, esibizione e bellezza; le telecamere devono soffermarsi più a lungo sulle signore in tribuna e i giornalisti devono enfatizzare la danza del gioco (passaggi, assist, stile). I giocatori, infine, devono essere concepiti più come esseri semidivini che come comuni mortali. Facendo così, scrive Hillman, si può aspettare più serenamente il calcio d'inizio sapendo che, anche se «li abbiamo dimenticati, gli dei invece si ricordano bene di noi».
    Emack ha scritto ven, 02 aprile 2004 alle 17:13
    Chizuru ReLOUDed ha scritto ven, 02 aprile 2004 alle 16:58
    Affascinante.
    E plausibile: se un derby fosse prima di tutto un grande show, messo in scena dalle due squadre, da canti, balli, ballerine ( )e cerimonie... beh, credo che di violenza vera se ne vedrebbe molta meno.
    Costerebbe anche di più, pero'.

    Quote:

    Per quanto riguarda l'ultimo paragrafo: sicuri che vengano trattati come comuni mortali?
    Hillman dovrebbe essere statunitense, e la' il calcio è quasi dilettantistico...

    L'uomo deve dunque recuperare una ritualità antica?
    Chizuru ReLOUDed ha scritto ven, 02 aprile 2004 alle 17:17
    Costerebbe meno dei danni che fanno i tifosi allo stadio. O le multe che tutte le settimane vengono inflitte dal giudice sportivo.
    Eppoi si può seguire il modello americano: lo sport è un prodotto, e va commercializzato il meglio possibile. Le ragazze che danzano all'intervallo fanno parte dello show offerto.
    Comunque in america non ho mai sentito di risse fra tifosi. Perché qua sì e là no?
    Il discorso di Hillmann sulla violenza nello sport si può estendere anche in altri campi? Non esiste solo Marte.
    Chizuru ReLOUDed ha scritto ven, 02 aprile 2004 alle 17:24
    Emack ha scritto ven, 02 aprile 2004 alle 17:20
    Più che altro non mi convince questa tendenza a definire come "innaturale" ogni manifestazione umana dal moderno ad oggi.

    Mi spiego meglio: perché la preparazione delle bandiere, degli striscioni, la comitiva di tifosi riunita, le palpitazioni pre-derby, non dovrebbero essere ritenute "rituali"?
    Forse lo sono, ma non sono gradite a Marte; non riescono a incanalare la violenza, portando poi a situazioni come quelle dell'ultimo Roma-Lazio.
    Ma è una spiegazione che non convince nemmeno me
    Tupaq Amaru ha scritto ven, 02 aprile 2004 alle 17:43
    Chizuru ReLOUDed ha scritto ven, 02 aprile 2004 alle 17:33
    Tupaq Amaru ha scritto ven, 02 aprile 2004 alle 17:26
    beh bisogna capire dove fimisce il rituale (che onestamente trovo cmq patetico ...) e dove inizia la voglia semplice e pura di violare le regole ......

    istinto che credo sarebbe riduttivo cmq spiegare con la sola motivazione di essere parte degli istinti primordiali dell'uomo ....
    Ma è la voglia di violarle o "solo" l'atto pratico della violazione, il teppismo puro e semplice, a manifestarsi quando si è in gruppo?
    that is, io idiota voglio picchiar un poliziotto già dal martedì, ma lo faccio solo alle 15 della domenica, oppure è la mia presenza allo stadio che mi porta a voler menare le forze dell'ordine?
    beh va da persona a persona ,ma considererei anche il caso che c'è chi usa l'ambiente stadio ,l'ambiente del tifo per dar sfogo alle proprie voglie violente ,poichè si sà che la logica del "branco" la conoscono bene tutti ....


    Ph@ntom ha scritto ven, 02 aprile 2004 alle 19:19
    Emack ha scritto ven, 02 aprile 2004 alle 17:20
    Più che altro non mi convince questa tendenza a definire come "innaturale" ogni manifestazione umana dal moderno ad oggi.

    Mi spiego meglio: perché la preparazione delle bandiere, degli striscioni, la comitiva di tifosi riunita, le palpitazioni pre-derby, non dovrebbero essere ritenute "rituali"?
    Tel disi mi.
    Perchè non sono rituali. Be, questa frase è solo apparentemente tautologica.
    Mi spiego meglio, questi non sono avvertiti come rituali. Diventano rituali nel momento in cui li si chiama "rituali", e ,perdonatemi, questo sarebbe già un grosso salto. Il fatto è che rituali sono solo quelli degli africani.
    Certo, ci dovrebbe essere la volontà. A che pro lo sa solo Hillmann. Io non ci credo tanto.

    Chizuru
    that is, io idiota voglio picchiar un poliziotto già dal martedì, ma lo faccio solo alle 15 della domenica, oppure è la mia presenza allo stadio che mi porta a voler menare le forze dell'ordine?
    Nella maggior parte dei casi è indubbiamente la seconda.
    Come si dice in questi casi, imho?<--mai usata questa espressione
    ale#12 ha scritto mer, 07 aprile 2004 alle 14:37
    Chizuru ReLOUDed ha scritto ven, 02 aprile 2004 alle 17:17
    Costerebbe meno dei danni che fanno i tifosi allo stadio. O le multe che tutte le settimane vengono inflitte dal giudice sportivo.
    Eppoi si può seguire il modello americano: lo sport è un prodotto, e va commercializzato il meglio possibile. Le ragazze che danzano all'intervallo fanno parte dello show offerto.
    Comunque in america non ho mai sentito di risse fra tifosi. Perché qua sì e là no?
    Il discorso di Hillmann sulla violenza nello sport si può estendere anche in altri campi? Non esiste solo Marte.
    Penso che la presenza di cheerleaders, ballerine etc etc non sia una conseguenza della loro diversa concezione dello sport, non una delle cause.
    L'evento sportivo negli stati uniti è uno show, come può esserlo una rappresentazione teatrale, o un film. Gli spettatori hanno magari delle simpatie verso una determinata squadra, ma in fondo il risultato importa meno dello spettacolo. Di conseguenza assume molta importanza anche ciò che circonda l'evento sportivo in se, balletti, presentazioni coreografiche, luci, fuochi d'artifico.....
    L'asssenza di violenza ( relativa, in alcune città è successo che, per festeggiare la vittoria di un campionato, migliaia di tifosi ubriachi abbiano devastato interi quartieri) è una diretta conseguenza di questa visone tipicamente americana dello sport.
    In europa l'evento sportivo assume più il significato di uno scontro: rivalità, campanilismo, tifo, passione, polemica e violenza.
    ale#12 ha scritto mer, 07 aprile 2004 alle 14:48
    Chizuru ReLOUDed ha scritto ven, 02 aprile 2004 alle 16:58
    Affascinante.
    E plausibile: se un derby fosse prima di tutto un grande show, messo in scena dalle due squadre, da canti, balli, ballerine ( )e cerimonie... beh, credo che di violenza vera se ne vedrebbe molta meno.Per quanto riguarda l'ultimo paragrafo: sicuri che vengano trattati come comuni mortali?

    Perplesso.....
    Al tifoso da stadio poco importa del "contorno", vuole vedere la propaia squadra vincere, e basta.
    Mi ricordo qualche anno fa, durante le pause c'era un tizio in costume da gallo (simbolo della città) che si esibiva in acrobazi varie.... dopo 3 partite non si è più visto, a meno che la squadra non stesse dominando, ogni volta usciva sotto bordate di fischi.

  7. #32
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    Predefinito Re: [archivio al 12/09/2006] Sugli scaffali dello scanto c'è...

    Da Perché loro (i non occidentali) odiano noi (occidentali)?

    Emack ha scritto mer, 11 agosto 2004 alle 13:35
    Voglio dare il via a un thread che richiami tutti gli episodi in cui Europa e Stati Uniti si sono resi protagonisti di eventi che hanno lasciato dietro di sé rancore e rabbia.
    Mi frullava in testa quest'idea da un pezzo, sin da quando appresi della notizia che sto per riportare.

    da La maledizione bianca di Haiti

    di Eduardo Galeano


    Il primo giorno di quest'anno, la libertà ha compiuto due secoli di vita nel mondo. Nessuno se n'è accorto, o quasi nessuno. Pochi giorni dopo, il paese del compleanno, Haiti, ha occupato qualche spazio nei mezzi di comunicazione; ma non per l'anniversario della libertà universale, bensì perché là si è scatenato un bagno di sangue che ha finito per rovesciare il presidente Aristide. Haiti fu il primo paese dove la schiavitù venne abolita. Tuttavia, le enciclopedie più diffuse e quasi tutti i testi scolastici attribuiscono all'Inghilterra quello storico onore. È vero che un bel giorno cambiò idea l'impero che era stato campione mondiale di traffico negriero; ma l'abolizione britannica avvenne nel 1807, tre anni dopo la rivoluzione haitiana, e risultò così poco convincente che nel 1832 l'Inghilterra dovette tornare a proibire la schiavitù.

    Non c'è niente di nuovo nel fatto che Haiti venga ignorato. Da due secoli è vittima di disprezzo e castigo. Thomas Jefferson, padre della libertà e proprietario di schiavi avvisava che da Haiti veniva il cattivo esempio, e diceva che bisognava «confinare la peste su quell'isola». Il suo paese lo ascoltò. Gli Stati Uniti impiegarono sessant'anni a concedere il riconoscimento diplomatico alla più libera fra le nazioni. Nel frattempo, in Brasile si chiamava haitianismo il disordine e la violenza. I padroni delle braccia nere si salvarono dall'haitianismo fino al 1888. Quell'anno il Brasile abolì la schiavitù. Fu l'ultimo paese al mondo.

    ***

    Haiti è ritornato a essere un paese invisibile, fino alla prossima strage. Mentre è rimasto sugli schermi e sulle prime pagine, all'inizio di quest'anno, i media hanno trasmesso confusione e violenza e hanno confermato che gli haitiani sono nati per fare bene il male e per fare male il bene. Dai tempi della rivoluzione, Haiti è stata capace di offrire solo tragedie. Era una colonia prospera e felice e adesso è la nazione più povera dell'emisfero occidentale. Le rivoluzioni, hanno concluso alcuni specialisti, conducono all'abisso. E alcuni hanno detto, e altri hanno suggerito, che la tendenza haitiana al fratricidio proviene dall'eredità selvaggia che viene dall'Africa. Il mandato degli antenati. La maledizione nera, che spinge al crimine e al caos.

    Della maledizione bianca non si è parlato.

    ***

    La rivoluzione francese aveva eliminato la schiavitù, ma Napoleone l'aveva resuscitata:

    -Qual è stato il regime più prospero per le colonie?

    -Quello anteriore.

    -E allora che venga restaurato.

    E per tornare a impiantare la schiavitù ad Haiti mandò più di cinquanta navi piene di soldati. I neri ribelli vinsero la Francia e conquistarono l'indipendenza nazionale e la liberazione dagli schiavi. Nel 1804 ereditarono una terra bruciata dalle devastanti piantagioni di canna da zucchero e un paese bruciato dalla guerra feroce, ed ereditarono «il debito francese». La Francia fece pagare cara l'umiliazione inflitta a Napoleone Bonaparte.Poco dopo la sua nascita, Haiti dovette impegnarsi a pagare un indennizzo gigantesco per il danno che aveva fatto liberandosi.
    Quella espiazione del peccato della libertà le costò 150 milioni di franchi d'oro. Il nuovo paese nacque strangolato da quella corda legata al collo: una fortuna che attualmente equivarrebbe a 21.700 milioni di dollari o a 44 bilanci generali dell'Haiti dei giorni nostri. Molto più di un secolo ci volle per pagare il debito, che gli interessi di usura andavano moltiplicando. Nel 1938 si ebbe, finalmente, la redenzione finale. A quel tempo, Haiti apparteneva ormai alle banche degli Stati Uniti.

    ***

    In cambio di quel capitale, la Francia riconobbe ufficialmente la nuova nazione. Nessun altro paese la riconobbe. Haiti era nata condannata alla solitudine.

    Nemmeno Simón Bolívar la riconobbe, anche se le doveva tutto. Navi, armi e soldati gli aveva dato Haiti nel 1816, quando Bolívar arrivò sull'isola, sconfitto, e chiese protezione e aiuto. Haiti gli diede tutto, con l'unica condizione che liberasse gli schiavi, un'idea che fino ad allora non gli era venuta in mente. Poi, il padre della patria trionfò nella sua guerra d'indipendenza, ed espresse la sua gratitudine mandando a Port-au-Prince una spada in regalo. Di riconoscimento neanche a parlarne.

    In realtà, le colonie spagnole che erano diventate paesi indipendenti continuavano ad avere schiavi, sebbene alcune avessero, inoltre, leggi che lo proibivano. Bolívar promulgò la sua nel 1821, ma la realtà non mostrò di accorgersene. Trent'anni dopo, nel 1851, la Colombia abolì la schiavitù, e nel 1854 il Venezuela.

    ***

    Nel 1915 i marines sbarcarono ad Haiti. Vi rimasero diciannove anni. La prima cosa che fecero fu occupare la dogana e l'esattoria. L'esercito di occupazione trattenne il salario del presidente haitiano finché non si rassegnò a firmare la liquidazione del Banco de la Nación, che divenne una succursale della City Bank di New York. Al presidente e a tutti gli altri neri era proibita l'entrata negli hotel, ristoranti e club esclusivi del potere straniero. Gli occupanti non osarono ristabilire la schiavitù, ma imposero il lavoro forzato per le opere pubbliche. E uccisero molto. Non fu facile spegnere i fuochi della resistenza. Il capo guerrigliero, Charlemagne Péralte, inchiodato in croce contro una porta, fu esposto, per monito, sulla pubblica piazza.

    La missione civilizzatrice si concluse nel 1934. Gli occupanti si ritirarono lasciando al suo posto una Guardia Nazionale, fabbricata per loro, per sterminare qualsiasi possibile rigurgito di democrazia. Lo stesso fecero in Nicaragua e nella Repubblica Dominicana. Qualche tempo dopo, Duvalier fu l'equivalente haitiano di Somoza e di Trujillo.

    ***

    E così, di dittatura in dittatura, di promessa in tradimento, si andarono accumulando le sventure e gli anni.

    Aristide, il prete ribelle, arrivò alla presidenza nel 1991. Durò pochi mesi. Il governo degli Stati Uniti aiutò a rovesciarlo, se lo portò via, lo sottopose a trattamento e una volta riciclato lo restituì, nelle braccia dei marines, alla presidenza. E un'altra volta ha aiutato a rovesciarlo in quest'anno 2004, e un'altra volta c'è stata una strage, e un'altra volta sono tornati i marines, che tornano sempre, come l'influenza.

    Ma gli esperti internazionali sono molto più devastanti delle truppe d'invasione. Paese sottomesso agli ordini della Banca Mondiale e del Fondo Monetario, Haiti aveva obbedito alle loro istruzioni senza batter ciglio. Lo ripagarono negandogli il pane e il sale. Gli congelarono i crediti, nonostante avesse smantellato lo stato e avesse liquidato tutti i dazi e i sussidi che proteggevano la produzione nazionale. I contadini coltivatori di riso, che erano la maggioranza, divennero mendicanti e boat people. Molti sono finiti e continuano a finire nelle profondità del mar dei Caraibi, ma quei naufraghi non sono cubani e rare volte compaiono sui giornali.

    Adesso Haiti importa tutto il suo riso dagli Stati Uniti, dove gli esperti internazionali, che sono persone piuttosto distratte, si sono dimenticati di proibire i dazi e i sussidi che proteggono la produzione nazionale.

    ***

    Sulla frontiera dove termina la Repubblica Dominicana e inizia Haiti, c'è un grande cartello che avvisa: Lasciate ogni speranza...

    Dall'altra parte c'è l'inferno nero. Sangue e fame, miseria, peste...

    In quell'inferno tanto temuto, tutti sono scultori. Gli haitiani hanno l'abitudine di raccogliere lattine e ferri vecchi e con antica maestria, ritagliando e martellando, le loro mani creano meraviglie che si offrono nei mercati popolari.

    Haiti è un paese gettato nella spazzatura, per eterno castigo della sua dignità. Giace là come se fosse un rottame. Attende le mani della sua gente.

    Fonte: Il Manifesto
    StM ha scritto ven, 13 agosto 2004 alle 14:13
    L'allegra brigata italiana in Somalia (tanto per non dare addosso solo agli americani). Articolo meno ad ampio respiro e purtroppo basato su testimonianze, ma a me sta bene così.

    http://www.ilariaalpi.it/print.php?sid=3 17

    Qualche brandello:

    Sì, il cuore batte forte, molto forte. Ilaria e l'amico si avvicinano lentamente al punto da cui provengono le urla di paura. Sono urla di donne. Dice la nostra fonte: "Scorgiamo alcune donne somale vicine una all'altra. C'è un gruppo di militari, tutti ufficiali e qualche sottoufficiale. Riconosciamo il tenente M., il tenente C. Con sorpresa vediamo anche il capitano dei carabinieri T (che oggi è tenente colonnello ed era in piazza Alimonda a Genova quando un colpo di pistola uccise Carlo Giuliani, come risulta dagli atti della commissione parlamentare di indagine conoscitiva sui fatti di Genova Ndr) e il maresciallo ordinario P. Uno di questi, mi sembra il tenente C., tira fuori una bottiglia, la mette in terra e dispone le poverette in cerchio, strattonandole e prendendole a calci... "Oggi tocca a te!" grida a una di loro.

    Ilaria non perde un'immagine di questa terrificante sequenza. Il tenente afferra la "prescelta", la sbatte su un tavolaccio. Altri le tengono i polsi e lecaviglie."Poi -prosegue il racconto a GQ - abbiamo visto un militare avvicinarsi urlando che toccava a lui iniziare. Per un'ora a turno la violentano.Finchè l'ultimo prende la bottiglia e...grida di dolore".
    Ilaria credo che abbia scoperto uno dei canali che vengono utilizzati per il traffico delle armi. È lo stesso che serve a società di vari Paesi, tra cui l'Italia, allo smaltimento di scorie radioattive. Mi dice che andando lungo la strada dei pozzi, il traffico passa per i porti di Bosaso e di Merca. Poi con la complicità dell'Imprenditore Giancarlo Marocchino (un italiano che in Somalia era anche collaboratore del Sismi, ndr) che fornisce i mezzi per gli scavi, moltissimi fusti di rifiuti tossici vengono interrati. E i trasporti? Avvengono su navi fornite dalla cooperazione italiana, sia per le armi che per fusti. A Bosaso Ilaria andò anche perché aveva visto e fotografato dei militari italiani, senza stellette e mostrine, che scaricavano fusti da alcune navi. E voleva sapere cosa contenevano".
    Il concetto è che noi "occidentali" facciamo sempre quello che XXXXX ci pare, nei paesi "non occidentali".
    StM ha scritto mar, 17 agosto 2004 alle 02:03
    La
    E adesso prendete esempio
    ---------------------------------------- ------------------------

    Abbiamo parlato finora di paesi senza un beliscemu di niente e che venivano usati come spazzatura. Ora parliamo di un paese in cui c'è qualcosa.

    Repubblica democratica del Congo
    Situazione, non aggiornata ma tanto per farsi un'idea: http://www.warnews.it/index.cgi?action=v iewnews&id=8

    Un particolare "curioso" da questo articolo:
    Odi etnici ed interessi economici
    Il conflitto etnico fra i Lendu e gli Hema, esploso nel 1999, ha provocato in questi ultimi anni più di 50000 vittime e decine di migliaia di sfollati.

    Le milizie in conflitto sono da sempre strumentalizzate dalle forze ribelli Tutsi ruandesi ed ugandesi, che si contendono nella zona dell'Ituri e del Congo occidentale i ricchi giacimenti di oro e di diamanti, ma soprattutto di coltan (il nome deriva dall'unione di Colombite e Tantalio), preziosissima sabbia nera composta da un miscela di metalli, utilizzato per ottimizzare e regolare i flussi di corrente all'interno dei circuiti integrati.

    Tutta l'elettronica odierna si basa su componenti costruiti con il coltan: telefonini, telecamere, computer, Playstation, ma anche qualunque apparato elettronico. E' utilizzato dall'industria aerospaziale, per l'elettronica dei veicoli, dall'industria delle armi e delle telecomunicazioni. Inoltre l'ossido di tantalio aumenta la rifrangenza del vetro e viene pertanto utilizzato per le lenti fotografiche e negli apparecchi per la visione notturna. Non reagendo con i componenti biologici umani, trova applicazione anche nell'odontoiatria e nella chirurgia.

    Per dare un'idea degli interessi economici in gioco: secondo fonti delle Nazioni Unite uno degli stati contendenti, il Rwanda, ha incassato in 18 mesi circa 250 milioni di dollari dal contrabbando del coltan del quale si è appropriato nel Congo occidentale. Soldi utilizzati per acquistare armi, finanziare le proprie milizie e proseguire i massacri.

    Uno dei leader del RCD (Raggruppamento congolese per la democrazia), una delle tante sigle ribelli appoggiata dai Tutsi ruandesi, recentemente ha affermato: "Noi guadagniamo circa 200.000 dollari al mese dalla vendita dei diamanti. Il coltan ci frutta molto di più: fino ad un milione di dollari al mese".
    Ve lo ricordate che la Playstation 2 fece fatica a venir fuori? Che all'inizio la disponibilità di console era così limitata che i padri dovevano assoldare sicari per procurare a tutti i costi la ps2 ai figli? Bene, il motivo non era la pirlaggine della Sony, ma una GUERRA che aveva interrotto la produzione di coltan. Lo sapevate? Io no. Io ci credevo, alla favola della pirlaggine.

    Vi butto lì un articolo in più, che a occhio e croce sembra interessante: http://www.warnews.it/index.cgi?action=f orum&board=africa&op=printpage&a mp;a mp;num=469
    Emack ha scritto lun, 30 agosto 2004 alle 23:54
    da National Geographic Italia, Vol. 14, #2, pg. 94, 106

    [...]
    Il saccheggio dell'Africa da parte delle nazioni europee è cominciato molto tempo fa, e sembra non conoscere limiti. Oggi l'Unione Europea ha un accordo di pesca, rinnovato per l'ultima volta nel 2001, col Gabon. Il trattato autorizza l'attività di 64 pescherecci privati (generalmente francesi e spagnoli), comprendenti imbarcazioni con reti a strascico per la cattura di tonni e pescherecci con palangari di superficie, che possono pescare fino a 10.500 tonnellate di tonno all'anno. Se a ciò aggiungiamo un'altra flotta di pescherecci congelatori per traino europei, autorizzati a pescare 14.400 tonnellate di crostacei e di cefalopodi, arriviamo a un totale di 24.900 tonnellate di pesce cui l'UE può attingere in tutta legalità dai fondali del Gabon, che, in cambio di questo ricco bottino, riceve un compenso irrisorio. Di fatto non esistono limiti, visto che l'accordo non prevede alcun aumento da versare al Paese in caso di superamento del contingente fissato.

    Chi contesta questo genere di accordi sostiene che essi siano dettati, anziché da serie valutazioni sulla pesca sostenibile, da esigenze di mercato, e che il loro unico scopo sia soddisfare la domanda europea e garantire lavoro ai pescatori dell'UE. Inoltre, non rispetterebbero gli impegni sottoscritti dai membri dell'UE e da altre nazioni indistrializzate di contribuire allo sviluppo di Paesi come il Gabon per ridurne il livello di povertà.

    Tutto ciò mi manda in bestia. I pescherecchi dell'Unione Europea non attraccano nei porti del Gabon, non hanno mai un gabonese a bordo (anche se gli spagnoli stanno valutando di costruire qui un impianto per la lavorazione del tonno) e non vendono neppure un pesce sul mercato locale. Non c'è da stupirsi, allora, se questo Paese, in cui il consumo di pesce è inferiore alla produzione, deve importare oltre 10mila tonnellate di pesce all'anno per soddisfare il suo fabbisogno.

    E' difficile credere che nel 2004, in un mondo caratterizzato dalla globalizzazione e da un costrante calo delle risorse naturali, nazioni ricche come quelle che appartengono all'UE abbiano un atteggiamento così poco responsabile. A questo punto, una gestione accorta delle risorse e la pesca sostenibile dovrebbero essere delle realtà.

    [...]

  8. #33
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    Predefinito Re: [archivio al 12/09/2006] Sugli scaffali dello scanto c'è...

    Da Archeologia e scoperte

    Emack ha scritto dom, 10 ottobre 2004 alle 12:39
    da corriere.it


    SCOPERTO IL MAUSOLEO DEL LEGGENDARIO GENGIS KHAN
    Il mausoleo di Gengis Khan, il leggendario conquistatore mongolo, è stato riportato alla luce da un team di archeologi giapponesi e mongoli, guidati dal professor Noriyuki Shiraishi. Le rovine del palazzo, che si trovano a 250 chilometri a sud-est di Ulan Bator, risalgono al 13esimo secolo e si estendono su 600 mila metri quadri. Nel sito sono state rinvenuti i resti di mucche e cavalli che sarebbero stati sacrificati nel corso della cerimonia funebre in onore di Gengis Khan, morto nell'anno 1227. Gli archeologi hanno anche scoperto orecchini ed altri preziosi decorati con disegni di dragoni. "Abbiamo concluso che si tratta del mausoleo per via di documenti storici secondo i quali una simile cerimonia funebre ebbe luogo proprio per celebrare la morte del terribile condottiero", ha detto il professore Shiraishi, aggiungendo: "Stando ai preziosi documenti di cui siamo in possesso, la tomba di Gengis Khan si troverebbe in un raggio di 12 km dal mausoleo". Ora l'equipe archeologica attende l'autorizzazione del governo mongolo per proseguire gli scavi che sino al 2007 sono limitati al sito del palazzo.

    da National Geographic Italia, Ottobre 2004

    Tesori del passato da salvare


    Secondo Henry Wright, la storia dell'umanità rischia di scomparire. L'archeologo, che ha studiato le vestigia delle antiche civiltà in tutto il mondo, teme che "tra cinquant'anni non avremo un patrimonio archeologico sufficiente per rispondere a domande importanti sul nostro passato, e sul nostro futuro". Ecco la listra di Wright dei siti archeologici più a rischio.

    1. Antiche città dell'Iraq (4000-1200 a.C.) - Alcune tra le più antiche città della Mesopotamia vengono devastate da tombaroli a caccia di statue, bronzi e tavolette con caratteri cuneiformi.

    2. Villaggi del Mali (500 a.C.-1400 d.C.) - Nel delta interno del Niger, migliaia di villaggi, fra cui il pià antico in assoluto dell'Africa subsahariana, vengono saccheggiati per i manufatti di terracotta.

    3. Cultura del Mississippi (900-1700 d.C.) - Migliaia di villeggi e complessi templari degli indiani americani della valle del Mississippi sono stati rasi al suolo per far posto allo sviluppo edilizio ed agricolo.

    4. Città e templi khmer (200-1350 d.C.) - Queste rovine del sud-est asiatico non sono più immerse nella giungla. I continui conflitti facilitano il compito dei saccheggiatori, bande armate che si appropriano di statue khmer insostituibili.

    5. Relitti sommersi - In tutti i mari del mondo, i relitti delle antiche navi (aclune risalgono a 5000 anni fa) sono oggi raggiungibili dai moderni cacciatori di tesori, armati di sistemi di ricerca e di recupero ad altissima tecnologia.

    6. Città Maya (250-900 d.C.) - Proprio mentre impariamo a leggere i glifi maya e a conoscere la storia delle stirpi reali più antiche, i saccheggiatori depredano le città rubando stele e bassorilievi di pietra.

    7. Tombe reali del Perù (200 a.C.-1450 d.C.) - I furti nelle tombe sono aumentati da quando i ladri hanno imparato a riconoscere i siti di sepoltura. Poiché le prime dinaste peruviane non avevano un sistema di scrittura, lo studio dei tessuti e dei gioielli di queste tombe è il miglior modo per documentare la storia del primo grande regno andino.

    ________________

    Fino a che punto ritenete importante la ricerca archeologica?

  9. #34
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    Predefinito Re: [archivio al 12/09/2006] Sugli scaffali dello scanto c'è...

    dal Ancora su Warhol. P.Daverio, "quando mi diede lezione sui gladioli".

    Ph@ntom ha scritto mar, 26 ottobre 2004 alle 20:18
    Dal Corsera 26/10
    Quando mi diede la lezione dei gladioli
    Philippe Daverio

    Di lui si potrebbe dire come del signore di La Palisse, e cioè che fino al giorno della sua morte era ancora in vita.. Ecoome era in vita, Andy Warhol durante la sua ultima mostra, quella che gli fu organizzata a Milano in occasione dell’apertura di una banca, il Piccolo Credito Valtellinese, così eccentrica da affidare la propria comunicazione a un ampio lavoro dell’artista sul tema aulico dell’”Ultima Cena” di Leonardo, allora ancora in restauro dall’altro lato della strada, nel refettorio dei domenicani.
    La mostra fu un successo addirittura inatteso, con quattromila persone accorse e i tram bloccati in corso Magenta. Lui, Andy, passò ore a firmare le copie della sua rivista “Interview” che regalava a chi entrava. Poi se ne tornò a New York, dove fu sottoposto a una operazione chirurgica assai banale e morì per un errore d’analisti dell’anestesista. Tutti i miti americani aveva retto fuorché quello della sanità.
    Ebbi allora l’opportunità di organizzare l’operazione complessiva di quell’esposizione assieme ad Alexandre Jolas, il mitico gallerista greco che s’era occupato di tutte le avanguardie possibili purché le avesse personalmente incontrate. Jolas viveva allora fra New York ed Atene e in questo pendolarismo si fermava a Milano, sempre con la stessa frase, per un paio d’anni, “vedrai che non la faremo questa mostra, ho visto Andy e i suoi quadri non sono pronti”. Warhol si lasciava trattare come un esordiente da Jolas, il quale continuava a rifiutare i quadri che non gli piacevano. Poi finalmente la qualità fu considerata cotta al punto giusto ed iniziarono le danze.
    L’arrivo di Warhol non era per una mostra di galleria ma per un evento pubblico seguì la retorica regolare di cui si circondano tutti gli artisti americani di successo, suite al grand hotel, automobile, fiori in camera. Sulla macchina ebbi da ridire visto che lui a New York era un appassionato utente di taxi e non possedeva automobile. Ma abbozzai, in fondo noi della periferia dobbiamo stare al gioco.
    La questione dei fiori la trovavo invece giustissima. Siamo noi la patria del gusto. Andai dall’ottimo Galli, il più sofisticato del mondo, quello che aspetta che le rose abbiano raggiunto il grado di decadenza immediatamente precedente allo sfiorire per inserirle per inserirle fra quattro rami di pesco giovine e tra fiori esotici. Mi organizzò la più squisita delle corbeilles di primule che abbia mai visto. Fu spedita immediatamente al Principe di Savoia. Mi chiamò immediatamente il duo deferentissimo Bob Hughes, segretario per tutto e omonimo del critico del “Time”: “The hotel is fine, the flowers are awful”. L’albergo buono, i fiori tremendi”.
    Capii allora che la retorica richiedeva i gladioli. Ed ebbi un moto di tenerezza assoluta per Andy in versione proconsole della cultura, così gentile nel fotografarmi costantemente mentre chiacchieravamo. Perché lui il mondo lo vedeva attraverso le foto, polaroid comprese, lo vedeva attraverso la banalità e questa la restituiva trasformata in documento geniale, forse il migliore che i posteri potranno guardare per capire esattamente chi siamo stati.

  10. #35
    Emack
    ospite

    Predefinito Re: [archivio al 12/09/2006] Sugli scaffali dello scanto c'è...

    dal topic "Programma di riabilitazione spirituale"

    Ph@ntom ha scritto mer, 05 maggio 2004 alle 23:58
    Salve. Innanzitutto la ringraziamo per l'iscrizione, vedrà che non la deluderemo.
    Prego da questa parte.

    Ecco questa è la palestra dove ora lei si eserciterà come ha richiesto esplicitamente sul modulo a noi pervenuto.

    E' caldamente consigliato l'attenersi completamente alle richieste che le verranno fatte. Lo facciamo per lei, si ricordi.
    Le raccomandiamo inoltre di seguire i punti rigorosamente nell'ordine:

    1. Bene, avvicini il volto allo schermo. Sorrida senza curarsi di eventuali terzi presenti vicino a lei.


    2. Si alzi in piedi in modo da poter ancora seguire le indicazioni su schermo.


    3. Sciolga i muscoli della testa facendola ciondolare avanti e indietro senza remore. Fate seguire ampie rotazioni.


    4. Ora prenda i lobi delle orecchie tra indice e pollice e sventoli dolcemente.


    5. Si massaggi il ventre mentre fa roteare la testa come prima.


    Bene, bravo così. Continui mi raccomando.
    6. Proietti in avanti le braccia in modo da far combaciare i palmi delle mani.


    7. Porti le mano sulla fronte, colpendosi ripetutamente.


    8. Mentre compie le azioni del punto (7) ripeta mentalmente "ciao sono io, mi riconosci?" quattro o cinque volte.


    9. Ora rimanga in silenzio senza muoversi nè pensare per 30 secondi.


    10. Si sieda.

    Complimenti lei ha completato il programma per la riabilitazione spirituale. Le ricordiamo che i risultati saranno proporzionali al l'impegno profuso nell'esercizio.
    Torni a trovarci!

  11. #36
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    Predefinito Re: [archivio al 12/09/2006] Sugli scaffali dello scanto c'è...

    Da: "La rivoluzione francese"

    Lord Wilde ha scritto mar, 12 ottobre 2004 alle 23:28
    La tragedia della Rivoluzione

    francese


    da Il Sabato, 29 aprile 1989 A. Socci







    Un'aula della Sorbona, a Parigi. Fuori un tiepido gennaio. Dentro comincia la prima lezione dell'anno 1989. Sulla cattedra è il professor Pierre Chaunu, una delle autorità per la storia moderna, membro dell'Institut de France, con una sessantina di titoli al suo attivo.

    Esordisce in tono sarcastico: “Dunque questa è la prima lezione dell'anno: voi sapete che cadono nell'89 una quantità di anniversari importanti”. E snocciola una filza di eventi storici, scientifici, economici, ma neanche una parola sulla Grande Commemorazione, quella che infiamma la Francia da otto anni: “Ho dimenticato qualcosa?” chiede beffardo il professor Chaunu, “no, non mi sembra ci sia altro di importante da ricordare”.

    È stato il Grande Guastafeste del bicentenario della Rivoluzione. Brillante, corrosivo, preparatissimo, ha appena dato alle stampe un libro di fuoco, La révolution declassée, dove fa a pezzi il mito della Rivoluzione dell'89 e soprattutto il conformismo degli intellettuali di corte e la retorica di regime di questo bicentenario. I suoi stessi avversari non osano contestarlo: persino Max Gallo, obtorto collo, lo ha definito “un ottimo storico”. Ed è praticamente invulnerabile, non essendo né cattolico, né reazionario (è infatti protestante e liberale). C'è una lunga tradizione liberale di critica aspra alla Rivoluzione, che comincia addirittura a fine Settecento con l'inglese Edmund Burke. Ma Chaunu si è spinto oltre. Ha guidato le ricerche di alcuni giovani e brillanti storici francesi fra documenti e dossier finora rimossi dalla storiografia ufficiale, e ne sono venuti fuori libri esplosivi, sconvolgenti, come quelli di Reynald Secher sul genocidio della Vandea. Incontriamo Chaunu nella sua casa di Caen.

    Professore, il suo libro è uscito in Francia a marzo, già da alcuni anni lei si è ribellato al coro degli intellettuali e alle ingiunzioni del potere politico, contestando la legittimità di queste celebrazioni. Perché?

    È una mascherata indecente, un'operazione politica elle sfrutta le stupidaggini che la scuola di Stato insegna sulla Rivoluzione. Pensi alle bétises del ministro della Cultura Lang: “L’89 segna il passaggio dalle tenebre alla luce”. Ma quale luce? Stiamo commemorando la rivoluzione della menzogna, del furto e del crimine. Ma trovo scioccante soprattutto che, alle soglie del '92, anche tutto il resto d'Europa festeggi un periodo dove noi ci siamo comportati da aggressori verso tutti i nostri vicini, saccheggiando mezza Europa e provocando milioni di morti. Cosa c'è da festeggiare? Eppure qua in Francia ogni giorno una celebrazione, il 3 aprile, il 5, il 10. È grottesco.

    Ma è stato comunque un evento che ha cambiato la storia.

    Certo, come la peste nera del 1348, ma nessuno la festeggia. Ad un giornalista tedesco ho chiesto: perché voi tedeschi non festeggiate la nascita di Hitler? Quello è sobbalzato sulla sedia. Ma non è forse la stessa cosa?

    Dica la verità, lei è diventato reazionario. Ce l'ha con la modernità?

    lo sono liberale, con una certa simpatia per l'illuminiamo tedesco e inglese. Ma proprio questa è la grande menzogna che pare impossibile poter estirpare: tu sei contro la Rivoluzione, dunque tu sei contro la modernità, sei per la lampada a petrolio e per la carrozza a cavalli. Al contrario. Io sono contro la Rivoluzione francese proprio perché sono per la modernità, per la penicillina, per il vaccino contro il vaiolo. Perché non festeggiamo Jenner che con la sua scoperta, dal '700 a oggi, ha salvato più di un miliardo di vite umane? Questo è il progresso. La Rivoluzione ha semmai bloccato il cammino verso la modernità; ha distrutto in pochi anni gran parte di ciò che era stato fatto in mille anni. E la Francia, che fino al 1788 era al primo posto in Europa, dalla Rivoluzione non si è più sollevata.

    Ma lei lo può dimostrare?

    Guardi, circa trent'anni fa ho contribuito a fondare la storia economica quantitativa, e oggi, con i modelli econometrici, chiunque può arrivare a queste conclusioni. Sono fatti e cifre. Tutte le curve di crescita del mio Paese si bloccano alla Rivoluzione. Era un Paese di 28 milioni di abitanti, il più sviluppato, creativo, evoluto, con un trend da primato: la Rivoluzione, insieme alle devastazioni sull'apparato produttivo, ha scavato un abisso di due milioni di morti, un crollo di generazioni che ha accompagnato il crollo economico.

    Nella produzione media procapite, Francia e Inghilterra, i due Paesi più sviluppati del mondo, avevano rispettivamente, nel 1780, un indice 110 e 100. Ebbene nel 1815 la Francia era precipitata a 60, contro 100 dell'Inghilterra, che da allora non ha avuto più concorrenti. È stato il prezzo della Rivoluzione.

    Ce ne spieghi almeno un motivo.

    Attorno al '93 - e per un decennio - la Francia ha cominciato a vivere al 78 per cento del prelievo sul capitale e per il 22 per cento sulle tasse e le rendite, che non venivano reinvestite, ma consumate, bruciate e rubate per arricchire la Nomenklatura. È stata una dilapidazione spaventosa, un impoverimento storico. Quando Chateaubriand è tornato in Francia, nel 1800, ha avuto un'intuizione fulminante: “è strano: da quando sono partito non hanno più pitturato persiane e porte". Quando le finestre sono sverniciate e le latrine non funzionano può star certo che c'è stata una rivoluzione.

    Ma comunque la Rivoluzione ha spalancato il pensiero umano.

    Oh, santo cielo! Ma è stata una colossale distruzione di intelligenze e di ricchezze.

    Se lei taglia la testa a Lavoisier, il fondatore della chimica moderna, a 37 anni, il costo per l'umanità è enorme. Moltiplichi quel caso per cento. Come finì tutta l'élite scientifica e intellettuale? Quelli che non sono emigrati sono stati massacrati. Una perdita gigantesca. Sarebbe questa la conquista della civiltà?

    Il 43 per cento dei francesi, nel 1788, sapeva firmare, sapeva scrivere. Dopo la Rivoluzione si crolla al 39 per cento, perché si erano sottratti i beni alla Chiesa (che per secoli aveva educato il popolo) e si erano distribuiti alla Nomenklatura.

    E le chiese trasformate in porcili e i tesori d'arte devastati.

    E' vero: fecero a pezzi le statue di Notre Dame, distrussero Cluny, e quasi tutte le chiese romaniche e gotiche...

    Le ripeto: furto, menzogna e crimine, questa è la vera trilogia della Rivoluzione, che ha messo a ferro e fuoco l'Europa.

    I francesi sono persuasi che la democrazia sia nata nell'89 e che l'umanità abbia imitato loro. È pazzesco! In realtà la sola rivoluzione da festeggiare sarebbe quella inglese del 1668: da lì è venuto il sistema rappresentativo e il governo parlamentare, lo Stato liberale che tutta Europa ha imitato.

    Ma qualcosa di buono ci sarà pùr stato: per esempio la Dichiarazione dei diritti dell'uome e del cittadino.

    Quello fu l'inganno più perverso. Le due Costituzioni più democratiche che siano mai state fatte sono quella sovietica di Stalin del 1936 e quella dei ghigliottinatori francesi del 1793. I loro frutti furono orrendi. Al contrario, il Paese che ha fondato la libertà, l'Inghilterra, non ha mai avuto Costituzioni. Delle Dichiarazioni io me ne infischio! E d'altra parte libertà, fraternità e uguaglianza non esistono che davanti a Dio. Le dirò che il miglior giudizio sulla Dichiarazione dei diritti dell'uomo lo formulò Fustelle de Coulange, il più grande storico francese dell'800 e mio predecessore all'Accademia di scienze morali e politiche. Egli disse: questi principi hanno mille anni, semmai la Dichiarazione li formula in modo un po' astratto. Ma una cosa nuova c'è: hanno spacciato dei principi antichi per una scoperta loro e l'hanno usata come un'arma contro il passato. Questo è perverso.

    La conseguenza politica della Filosofia dei Lumi, no?

    No. L’Illuminismo c'è stato in tutta Europa. Kant non era certo da meno di Voltaire. Ma la Rivoluzione c'è stata solo qui da noi. Non si può certo credere che i francesi fossero gli unici a pensare, in Europa. Dunque non c'è un nesso storico. È una menzogna anche parlare di fatalità storica, inevitabile. La persecuzione contro la Chiesa e il progetto di sradicare il cristianesimo dalla Francia ebbe come sua prima causa degli interessi finanziari, non questioni metafisiche.

    Ci spieghi, professore.

    Nel XVII secolo tutti gli Stati europei hanno istituzioni rappresentative. La Francia però, a poco a poco, le lasciò cadere in desuetudine. Per questo divenne una sorta di paradiso fiscale, perché - è noto - non si possono aumentare le imposte senza istituzioni rappresentative. Un esempio: la pressione fiscale fra 1670 e 1780 in Francia rimane ad un indice 100, mentre in Inghilterra sale da 70 a 200, in proporzione. La Francia si trova così ad avere uno Stato moderno, un moderno esercito, 450mila uomini, una potenza di prim'ordine, ma con risorse finanziarie vicino alla bancarotta perché per poterle mantenere come l'Inghilterra dovrebbe aumentare le tasse del 100 per cento.

    Dunque viene chiamata ad affrontare la questione la rappresentanza del popolo, gli Stati generali.

    Sì, i rappresentanti eletti però sono la più colossale assemblea di dementi che la storia abbia mai visto. Irresponsabili. Sfrenati solo nelle pretese, perché nessuno voleva farsi carico dei sacrifici (basti pensare che fra i deputati del Terzo stato c'erano un banchiere, 30 imprenditori e 622 avvocati senza causa). Non capiscono nulla di economia, hanno chiaro solo che a pagare devono essere gli altri. Così cominciano a vedere cosa possono confiscare: prima sopprimono la decima alla Chiesa, che nessuno nel popolo chiedeva di sopprimere perché significava sopprimere i finanziamenti per le scuole e gli ospedali. Si confiscano i beni del clero, donati alla Chiesa nel corso dei secoli, che ammontavano però solo al 7-8 per cento delle terre. Si comincia a diffondere l'idea che la Chiesa nasconda i suoi tesori, si confiscano i beni delle Abbazie.

    E l'operazione si dà pure una maschera ideologica.

    Certo. Si impone la Costituzione civile del clero, perché senza modificare e manomettere la struttura della Chiesa non avrebbero potuto rubare. I beni della Chiesa, che da secoli mantenevano scuole e ospedali, vengono accaparrati da una masnada di 80mila famiglie di ladri, nobili e borghesi, destra e sinistra: è per questo che tuttora la Rivoluzione in Francia è intoccabile! Perché fu una Grande Ruberia a vantaggio della classe dirigente. Il furto ha bisogno della menzogna e della persecuzione perché non era facile imporre ai preti e al popolo il sopruso. Per questo si impose il giuramento ai preti e chi non giurò fu massacrato. La Rivoluzione è stata una guerra di religione.

    E in Vandea cos'è accaduto?

    Il popolo si ribellò per difendere la sua fede. Il Direttorio voleva imporre la coscrizione militare obbligatoria (è una loro invenzione perché fino ad allora solo i nobili andavano a far la guerra e per il tributo del sangue erano esonerati dalle tasse). Nello stesso giorno chiudono tutte le, loro chiese. I contadini vandeani si sono ribellati: allora tanto vale morire per difendere la nostra libertà. Hanno imposto ai nobili, assai refrattari, di mettersi al comando dell'esercito cattolico di Vandea e sono andati al massacro, perché sproporzionata era la loro preparazione al confronto di quella dell'esercito di Clébert. Così la Vandea è stata schiacciata senza pietà. Ma vorrei ricordare che sotto le insegne del Sacro Cuore combatterono anche dei battaglioni dei paesi protestanti della Vandea. Cattolici, protestanti ed ebrei affrontarono insieme la ghigliottina, per esempio a Montpellier, per difendere la libertà.

    Ma in Vandea non finisce così.

    Questo è il capitolo più orrendo. Nel di cembre 1793 il governo rivoluzionario d ordine di sterminare la popolazione dell 778 parrocchie: “Bisogna massacrare le donne perché non riproducano e i bambini perché sarebbero i futuri briganti”. Questo scrissero. Firmato dal ministro della Guerra del tempo Lazare Carnot. Il generale Clébert si è rifiutato di eseguire quell'ordine: “Ma per chi mi prendete? Io sono un soldato non un macellaio”. Allora hanno mandato Turreau, un cretino, alcolizzato, con un'armata di vigliacchi.

    Fu il massacro?

    Nove mesi dopo il generale Hoche, nominato comandante, arrivò in Vandea. Restò inorridito. Scrisse una lettera memorabile e ammirabile al governo della Convenzione: “Non ho mai visto nulla di così atroce. Avete disonorato la Repubblica! Avete disonorato la Rivoluzione! Io porto alla vostra conoscenza che a partire da oggi farò fucilare tutti quelli che obbediranno ai vostri ordini...”. Cosa aveva visto? 250.000 massacrati su una popolazione di 600.000 abitanti, paesi e città rase al suolo e bruciate, donne e bambini orrendamente straziati. A Evreux e a Les Mains si ghigliottinavano a decine colpevoli solo di essere nati a Fontaine au Campte. Questo fu il genocidio vandeano. È questo che festeggiamo?

    Fece scandalo, nel 1983, quando lei, per la prima volta, usò la parola genocidio, imputando la Rivoluzione. Perché?

    I fatti parlano. Nessuno ha saputo negarli. E nulla può giustificare un simile orrore. Ma prima di me, nel 1894, fu un rivoluzionario socialista, Babeuf, che denunciò “il popolicidio della Vandea” (in un libro introvabile che noi abbiamo fatto ristampare). Non c'è differenza alcuna fra ciò che ha fatto il governo rivoluzionario in Vandea e ciò che ha fatto Hitler. Anzi una c'è. Hitler era scaltro e non dette mai per scritto l'ordine di eliminazione degli ebrei. Questi dell'89, oltreché assassini, erano anche stupidi e dettero l'ordine per scritto e lo pubblicarono perfino su Le Moniteur.

    Certe persecuzioni hanno rinsaldato la fede del popolo. Ma questa francese sembra aver cancellato la cristianità.

    Sì, è così. Per 15 anni fu resa impossibile la trasmissione della fede. Un'intera generazione. Pensi che Michelet fu battezzato a 20 anni e Victor Hugo non ha mai saputo se era stato battezzato o no. Le chiese chiuse. I preti uccisi o costretti a spretarsi e sposarsi o deportati e esiliati. Francamente io non capisco come oggi i cattolici possano inneggiare alla Rivoluzione, Altra cosa è il perdono e altra solidarizzare con i carnefici, rinnegando le vittime e i martiri. Penso che la Chiesa tema, parlando male della Rivoluzione, di sembrare antimoderna, di opporsi alla modernità. lo credo che sia il contrario. E sono orgoglioso che sia stato un Paese protestante come l'Inghilterra a dare asilo ai preti cattolici perseguitati. Infatti non c'è libertà più fondamentale della libertà religiosa”.


    - - - - -
    Questo storico francese ha fatto a pezzi il "mito" della rivoluzione francese, contestando la vulgata ufficiale....cosa ne pensate, cari amici?

  12. #37
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    Predefinito Re: [archivio al 12/09/2006] Sugli scaffali dello scanto c'è...

    Da And now.. school!

    Wido ha scritto sab, 16 ottobre 2004 alle 11:23
    "Com'è brutta questa scuola uccide la grande letteratura"
    di VERA SCHIAVAZZI

    Un mestiere che non c'è più, quello dell'insegnante. Un patrimonio, la letteratura, che sta per scomparire. E una nuova generazione di giovani incapaci di leggere un "vero" libro o di elaborare un testo. Non è la profezia di un guru americano o di uno studioso di tendenze, ma il grido di dolore di un'italianissima scrittrice-professoressa, Paola Mastrocola, che un mese dopo aver vinto il Premio Campiello col suo "Una barca nel bosco" torna in libreria con un pamphlet che farà discutere, "La scuola raccontata al mio cane" (Guanda).

    Mastrocola, che cosa ha portato, secondo lei, la scuola italiana sull'orlo del tracollo?
    "L'era dei 'recuperi', dei 'crediti', dei 'piani formativi', dei 'progetti', tutte parole che non esprimono nulla se non una generale tendenza a non insegnare da un lato e a non studiare dall'altro. Fino a non molti anni fa, in prima liceo scientifico, il primo giorno leggevo Virgilio, naturalmente in latino e con la metrica. Molti ragazzi non capivano, ma l'importante non era questo: avremmo studiato nuovamente quel testo negli anni successivi. L'essenziale era comunicare loro l'aspirazione a qualcosa di alto, di grande. Adesso, le circolari raccomandano di non fare lezione per almeno una settimana, dedicata invece all'accoglienza, a far conoscere l'edificio, a parlar d'altro...".

    E i risultati?
    "Autori come Tolstoj, Dostoievskj, Proust, lo stesso Montale, tra poco non saranno più conosciuti da nessuno. Al loro posto i ragazzi leggono 'Piccoli brividi', o, quando va bene, Stephen King o Wilbur Smith. Noi (Paola Mastrocola ha 48 anni, ndr) saremo l'ultima generazione a soffrire per questo. I miei colleghi più giovani già sono quasi immuni, i prossimi non se ne accorgeranno neppure. Anche perché il bello di certe letture è poterle condividere, parlarne con altri, alludervi, citarle. Altrimenti, ti senti un isolato che non sa reggere la conversazione del sabato sera".

    Nel suo libro, ad un certo punto, parla del '68. Poi cita ministri del centrodestra e del centrosinistra autori di riforme criticabili. La deriva della scuola italiana ha una matrice politica?
    "Non direi. Io non ho partecipato al '68 e ai movimenti che ne sono nati prima perché ero troppo giovane, poi perché preferivo scrivere poesie. Ma non per questo rimpiango la scuola d'élite che il '68 voleva, giustamente, cambiare. Ma a distanza di anni bisogna constatare che si è raggiunto il risultato opposto: diplomiamo ragazzi che non sanno ragionare e che troveranno un posto di lavoro solo se i genitori li aiutano. Oggi un ragazzo povero dovrebbe chiedere una scuola più severa, che lo aiuti a crescere e ad emergere se è bravo e se studia. Altrimenti, per lui, la scuola è una gigantesca truffa. Lo stesso per i cosiddetti 'valori': non servono corsi di educazione alimentare o stradale dentro l'orario scolastico, servirebbe invece che la scuola facesse il suo mestiere. Non serve neppure il cinema: io adoro quest'arte, ma la si deve avvicinare fuori dalla scuola, non proiettare 'Il gladiatore' e saltare Ungaretti nel programma... Un tempo pensavo che se uno studia Montale con passione difficilmente si drogherà. Lo penso ancora".

    Qual è la sua scuola ideale?
    "Una scuola utopica, dove ogni ragazzo, finite le lezioni e magari il pranzo consumato con i compagni abbia una piccola stanza tutta per sé dove starsene da solo, in pace, per almeno 3 ore, con la sola compagnia di penne, libri, quaderni e caso mai di un gatto che rilassa e rende sereni. Un'utopia, certo. Ma ai ragazzi di oggi manca molto la solitudine, il vuoto, lo studio individuale. Se non glielo restituiamo, perderemo la possibilità di farli imparare davvero. E, tutti, disperderemo il patrimonio di cultura che invece la scuola dovrebbe conservare".

    (16 ottobre 2004)

    ----------

    Io mi ci ritrovo pienamente in questa descrizione deprimente della scuola italiana contemporanea. Insieme alla scrittrice siamo in 2, altri si uniscono al grido di dolore di cui pochissimo si parla ma di cui molti sono a conoscenza?
    E' una tragedia tutta italiana o siamo in buona compagnia? (non che questo sollevi dal dolore...)

  13. #38
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    Predefinito Re: [archivio al 12/09/2006] Sugli scaffali dello scanto c'è...

    Da "Sulla natura come modello in etica"

    JimmyPage ha scritto lun, 29 novembre 2004 alle 08:12
    Ho già postato la cosa in un altro forum. Mi decido solo ora a farlo anche qui.
    Altrove ha ricevuto diverse critiche.

    Ma chissenefrega! A me sembra cmq un buon punto di partenza x una discussione.

    Veniamo al dunque.
    Ho letto di recente il saggio "On nature" di John Stuart Mill. Non vorrei, come dire, aver scoperto l'acqua calda (nel senso che magari per qualcuno di voi questo saggio non è una novità), però devo confessare che quello che ho letto mi ha dischiuso nuovi orizzonti invitandomi molto a riflettere sul significato dell'espressione "contro-natura", usata in etica nel modo che tutti sappiamo.
    Riporto qui di seguito il passo conclusivo - e riassuntivo - del saggio, per conoscere, se volete, la vostra opinione.

    "[...] Sarà ora utile riassumere in poche righe le principali conclusioni di questo saggio.
    La parola Natura ha due significati principali: o essa denota l'intero sistema delle cose, con l'aggregato di tutte le loro proprietà, oppure denota le cose come sarebbero, prescindendo dall'intervento umano.
    Nel primo di questi sensi, la dottrina che l'uomo dovrebbe seguire la natura, è priva di significato; l'uomo non ha infatti altro potere che quello di seguire la natura; tutte le sue azioni sono compiute o per mezzo, o in obbedienza, di una o di molte fra le leggi fisiche o mentali della natura.
    Nell'altro senso del termine, la dottrina che l'uomo dovrebbe seguire la natura, o, in altre parole, dovrebbe erigere a modello delle proprie azioni volontarie il corso spontaneo delle cose, è altrettanto irrazionale e immorale.
    Irrazionale, perché tutte le azioni umane, quali che esse siano, consistono nell'alterare il corso spontaneo della natura, e tutte le azioni consistono nel migliorarlo.
    Immorale, per il motivo che - essendo il corso dei fenomeni naturali zeppo di azioni le quali, quando vengano commesse dagli uomini, risultano degne del massimo aborrimento - chiunque tentasse di imitare nel proprio modo d'agire il corso naturale delle cose, sarebbe universalmente considerato e riconosciuto come il più malvagio degli uomini."

    In altre parole, secondo Mill la conformità/non-conformità alla natura non può essere un discrimine morale sufficiente. E come strumento per discernere la giustizia dall'ingiustizia risulta estremamente povero.

    Se per caso v'interessa leggere questo saggio è edito da Feltrinelli nel libro "Saggi sulla religione". Ah, sappiate che considerazioni simili sono esposte anche nel saggio "Sul suicidio" di D. Hume.

  14. #39
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    Predefinito Re: [archivio al 12/09/2006] Sugli scaffali dello scanto c'è...

    Da "Occorre desacralizzare il sesso?"

    Emack ha scritto dom, 02 maggio 2004 alle 19:48
    da espressonline.it

    Sesso sì
    problemi no

    Fare l'amore per divertirsi e basta. Senza altre finalità che il proprio appagamento. La scrittrice francese Marcela Iacub lancia il suo appello per una nuova liberazione erotica

    di Fabio Gambaro



    Una sessualità più libera e gioiosa. Una sessualità che sfugga alla responsabilità sociale e alle costrizioni del sessualmente corretto. È il sogno di Marcela Iacub, la giurista francese di origine argentina che l'anno scorso ha scandalizzato benpensanti e femministe con il suo pamphlet "Qu'avez-vous fait de la libération sexuelle?" (Cosa avete fatto della liberazione sessuale?, edito da Flammarion), in cui denunciava le derive di una società sempre più puritana e moralista. "Oggi", spiega, "la liberazione sessuale conquistata nei decenni passati viene attaccata da ogni parte. Sulla società spira un vento di restaurazione morale che ci sta riportando al puritanesimo. E la situazione continua a peggiorare, come mostrano le campagne incessanti contro la pornografia, la prostituzione o le cosiddette molestie sessuali. Viviamo ormai in un'epoca dominata dal "sessualmente corretto" che rende le relazioni uomo-donna sempre più ingessate e prigioniere di schemi rigidi. Di conseguenza, la sessualità diventa triste e monotona".

    Lei invece come la vorrebbe?
    "Occorre desacralizzare il sesso, renderlo un'attività normale, una semplice fonte di piacere come la gastronomia, l'arte o la musica. Sarebbe meglio per tutti che la sessualità fosse solo uno spazio di gioco e di piacere, senza altre finalità. Invece il sesso è oggi gravato di molte responsabilità, dato che serve a istituzionalizzare il legame sociale. È sulla relazione sessuale, infatti, che viene fondata la famiglia e la filiazione. In un simile contesto non è facile fare emergere una più ampia libertà sessuale. Per non parlare poi della deriva punitiva che penalizza i comportamenti sessuali considerati fuori dalla norma".


    Che cosa vuol dire?
    "Oggi il crimine sessuale è considerato quasi più grave dell'omicidio. Le pene sono diventate molto più pesanti. In Francia, un quarto della popolazione carceraria è detenuta per crimini sessuali. E questa deriva si riflette sulla percezione complessiva della sessualità. Secondo me, la penalizzazione della sessualità è solo il primo passo di una trasformazione più generale che ci porterà verso una società repressiva".

    Le femministe però difendono l'inasprimento delle condanne per i crimini a sfondo sessuale...
    "Le femministe si muovono di fatto contro la sessualità, che esse considerano come un pericolo per le donne, un attacco alla loro dignità. Per loro, la sessualità esprime sempre una forma di dominio degli uomini sulle donne. Sostenendo che la donna è sempre una vittima e l'uomo un nemico, esse avvallano l'idea di una sessualità femminile per natura differente da quella degli uomini. Una sessualità tutta dominata dalla tenerezza e dalla vocazione materna, che non riesce a immaginare il sesso indipendentemente dalla procreazione. Così, le femministe, non solo sacralizzano il sesso, ma cercano anche di addomesticare gli uomini".

    Lei difende una sessualità femminile diversa?
    "Mi piacerebbe che fossero le donne a imparare dagli uomini. Secondo me, infatti, in campo sessuale le donne dovrebbero accedere allo stesso grado di libertà degli uomini, dovrebbero prendere come modello la libertà sessuale maschile, appropriandosi di una sessualità più conquistatrice e disinibita, finalizzata solo al piacere e non alla riproduzione. Una sessualità incentrata sul desiderio e libera da ogni responsabilità. Le donne dovrebbero imparare che il sesso non è qualcosa che danno, ma qualcosa che prendono. Ecco perché non condannerei il ricorso alla prostituzione maschile per soddisfare i desideri femminili. Ciò rappresenterebbe un cambiamento di atteggiamento radicale, dato che significherebbe accettare l'idea di un desiderio femminile senza altre finalità che il proprio appagamento".

    La prostituzione è però condannata dalle femministe...
    "Il femminismo è ormai un movimento conservatore. La prostituzione rappresenta una sfida all'ordine morale perché desacralizza il sesso, gli toglie significati e responsabilità sociali. Con la prostituzione la sessualità diventa un'attività normale, quindi più libera e aperta. È per questo che la prostituzione è sovversiva rispetto all'ordine dominante".

    Pensa la stessa cosa della pornografia?
    "Sì, perché anche la pornografia propone una sessualità non socialmente utile, non finalizzata alla creazione di un legame sociale. Così come la masturbazione, un'altra forma di sessualità considerata non utile. Purtroppo, oggi l'unica sessualità ammessa è quella socialmente utile, quella finalizzata all'istituzionalizzazione della coppia e alla procreazione".

    Il suo sogno, invece, è una sessualità senza finalità diverse dal divertimento?
    "Esattamente. Una sessualità senza responsabilità e finalizzata solo al piacere. Più ludica e creativa, svincolata da ogni norma imposta. Solo così il sesso potrà diventare terreno di libertà e pluralismo".



    Marcela Iacub è una giurista e scrittrice francese, nonché ricercatrice presso il Cnrs (Centre national de la recherche scientifique)
    ___________________________

    Che ne pensate?
    Perché l'uomo contemporaneo occidentale vive in questo modo il sesso? Dove possono rintracciarsi i prodromi di questo comportamento nella storia umana? E, la proposta della Iacub, in che modo cambierebbe la società?

  15. #40
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    Predefinito Re: [archivio al 12/09/2006] Sugli scaffali dello scanto c'è...


  16. #41
    Emack
    ospite

    Predefinito Re: [archivio al 12/09/2006] Sugli scaffali dello scanto c'è...

    dal topic "China Mansion"
    Emack ha scritto lun, 02 agosto 2004 alle 01:06


    "China Mansion", 30x300cm / 60x600cm / 120x1200cm, Wang Qingsong, photograph, 2003



    China has been open to the outside world for the last two decades and enthusiastic about inviting foreign experts in economy, technology, architecture and culture to give support and guidance in Chinese open-up program. These foreign specialists help create many opportunities and bring many advanced thoughts for China. However, they manufacture many uncertain and disturbing ideas. Due to such a quick inflow and outflow of advanced concepts, Chinese people are confused about what are right and what are wrong sometimes.


    This idea triggers my latest work in 2003. Entitled “China Mansion”, my new work is a scroll photograph that situates the scene in a Chinese styled home. I put my “China Mansion” in a much wider sense, like an old Chinese saying, “Without home, without nation”. In this five-scene photograph, I invite foreign guests in art, including honorable figures in paintings by Ingre, Courbet, Monet, Gauguin, Yves Klein, Jones, Bouchee, Rembrandt, Rubens, Renoir, Man Ray and etc. They are specially invited guests in my “China Mansion”, a private night club. I want to make them communicate with each other across centuries and cultures and create certain relationships between themselves as well as communicate with China. Such relationships portend uncertain, humorous and confusing hues. (Wang Qingsong, August 2003)

    ________

    Wang Qingsong è un fotografo rampante molto apprezzato in occidente (la sua prima comparsa come artista digitale l'ha fatta alla Biennale di Venezia nel '99) per la sua capacità di commistionare un background culturale millenario come quello cinese con il trasformismo della modernità, dando vita ad opere come quella del monaco buddista con il logo di mcdonald's stampato in petto, o come quella del prigioniero rinchiuso da sbarre fatte di lattine di coca-cola.


  17. #42
    Emack
    ospite

    Predefinito Re: [archivio al 12/09/2006] Sugli scaffali dello scanto c'è...

    dal topic "L'estetica della macchina"

    Rambo Bond ha scritto mar, 30 novembre 2004 alle 00:06

    Tullio Crali, Dalla carlinga

    E' presente in questi giorni l'omonima mostra a Palazzo Cavour in Torino, dedicata al futurismo, da Balla fino agli anni 40.


    Ivo Pannaggi, Il centauro

    La macchina, come espressione sia di una scientifica disciplina ed ordine rigoroso, sia di uno spirito dionisiaco e vitalistico diventa il punto di incontro tra estetica e tecnologia. Invece di sottolineare i caratteri alienanti ed inumani della macchina, questa viene esaltata per la sua capacità di ampliare a dismisura le percezioni e soprattutto le possibilità di movimento dell'uomo. Il culto della velocità e del volo si riferiscono a questo: se la velocità è vitalità e leggerezza, e il mezzo meccanico moltiplica, a tal riguardo le nostre capacità, allora la nostra possibilità di abbandonarci appieno alla vita sarà una questione strettamente tecnologica.
    Sarebbe interessante analizzare il rapporto che abbiamo oggi tra tecnologia ed estetica: il design, come forma di un oggetto che è soprattutto un "prodotto" si può considerare un'espressione artistica?
    Ed inoltre, abbiamo completamente perso la concezione futurista di macchina, o semplicemente l'entusiasmo per essa?
    Rambo Bond ha scritto mer, 01 dicembre 2004 alle 20:47
    [email
    Ph@ntom[/email] ha scritto mar, 30 novembre 2004 alle 00:49]Il mito della macchina crolla in parallelo all'affievolirsi del neopositivismo.


    Mario Chiattone, Ponte e studio di volumi

    Quello che è cambiato è soprattutto il rapporto tra tecnologia ed estetica: per i futuristi la macchina era tanto espressione di una volontà di razionalizzare l'esistente, quanto di un pathos artistico. Se vogliamo riprendere Nietzsche, è come se il dionisiaco venisse fuori dal più rigido apollineo.



    Passata l'ubriacatura futurista la macchina è diventata prodotto, e l'estetica design. La forma in cui la tecnologia si esprime, risponde esclusivamente ad esigenze di marketing.
    Ph@ntom ha scritto mer, 01 dicembre 2004 alle 23:15
    Diciamo che esistono molti modi di interpretare la macchina.
    Considerarla simulacro di un'inquietudine. Di solito l'alta preponderanza tecnologica nella vita quotidiana crea immaginari alla cyberpunk.
    La macchina può anche esser presa come dimostrazione circolare dell'uomo, come autocertificazione. Pensavo ai cyborg: umanoidi, umanoidi appunto, che interpretano un sottoinsieme dei sentimenti umani, così più facilmente analizzabili (la macchina viene considerata aliena in incipit, spesso si dimostra più umana delle persone: ecco, la circolarità).

  18. #43
    Emack
    ospite

    Predefinito Re: [archivio al 12/09/2006] Sugli scaffali dello scanto c'è...

    dal topic "Manifesto politico medievale"

    Emack ha scritto ven, 10 dicembre 2004 alle 14:13
    da corriere.it
    In un affresco rinvenuto 4 anni fa in una fonte a Massa Marittima
    Scoperto un «manifesto politico» medievale
    Un albero al quale streghe appendono organi sessuali maschili tagliati mentre intorno svolazzano aquile nere imperiali

    MASSA MARITTIMA (Grosseto)
    - Un albero al quale le streghe appendono peni tagliati mentre intorno svolazzano aquile nere imperiali. Un po' greve: al confronto l'accusa di «mercenari» lanciata da Romano Prodi ai giovani attivisti di Forza Italia è come un buffetto sulla guancia. Secondo lo studioso inglese George Ferzoco, direttore del Centro studi toscani dell'Università di Leicester, esperto di arte toscana medievale, si tratta del primo «manifesto politico» della storia.

    ALBERO DELLA FERTILITÀ - In apparenza l'affresco, datato al XIII secolo, rinvenuto quattro anni fa sulla parete della fonte Nova risalente al 1265 a Massa Marittima, in provincia di Grosseto, è simile a molti altri di epoca medievale che rappresentano «l'albero della fertilità o dell'abbondanza», abbastanza comuni in Toscana. Ma osservando da vicino l'albero al centro dell'opera, si nota qualcosa di particolare: sui rami non ci sono frutti, ma 25 organi sessuali maschili stilizzati di differenti forme e dimensioni, compresi di testicoli. Gli alberi a forma di fallo dipinti sulle pareti delle fonti rappresentavano in epoca medievale un simbolo di fertilità legato all'acqua. Secondo Ferzoco, però, quello di Massa Marittima in particolare rappresenta un programma politico preciso.

    UN MESSAGGIO DEI GUELFI - «È un messaggio dei guelfi (sostenitori del Papa, ndr) contro i ghibellini (sostenitori dell'imperatore, ndr). La fazione guelfa intendeva dire a chi frequentava la fonte che se gli avversari fossero andati al potere, avrebbero diffuso idee eretiche, perversioni sessuali, stregoneria e guerra civile», spiega Ferzoco. All'epoca dell'affresco Massa Marittima era controllata dai guelfi, e l'accusa che sovente lanciavano ai ghibellini era proprio quella di essere degli eretici. E gli eretici, secondo le credenze medievali, praticavano anche la sodomia. «L'albero con i falli appesi è di difficile interpretazione per noi, ma per chi viveva nel Duecento in Toscana era un simbolo preciso», dice Ferzoco. «Cose che per noi sono oscene, allora erano perfettamente normali e usare un fallo in un messaggio politico non era scandaloso».

    STREGHE - Lo studioso britannico identifica come streghe le donne sotto l'albero, una delle più antiche rappresentazioni di streghe di tutta l'arte occidentale. Una di loro, inoltre, è nell'atto di aggiungere con un bastone un fallo a un ramo dell'albero. «All'epoca in Toscana era diffusa una leggenda secondo la quale le streghe tagliavano gli organi sessuali agli uomini e li mettevano nei nidi degli uccelli, dove avrebbero preso vita e si sarebbero moltiplicati». Accanto a lei un'altro donna viene sodomizzata da un enorme fallo, mentre sopra la sua testa c'è l'aquila imperiale. Alla loro sinistra due donne litigano e si prendono per i capelli.
    Gli studi sull'affresco sono stati recentemente pubblicati in un volume dell'Università di Leicester nella collana «Toscana Studies» presentato lunedì a Londra all'Istituto italiano di cultura.
    7 dicembre 2004
    ________


    Visione generale dell'affresco (University of Leicester/Bruno/Reuters)

    Due streghe sotto l'aquila imperiale (simbolo dei ghibellini) appendono i peni tagliati all'albero (Bruno/Epa)

    Particolare dell'affresco (Bruno/Epa)

    L'interno della fonte dove quattro anni fa venne rinvenuto l'affresco (Bruno/Epa)

  19. #44
    Emack
    ospite

    Predefinito Re: [archivio al 12/09/2006] Sugli scaffali dello scanto c'è...

    dal topic "Suibokuga"

    JimmyPage ha scritto dom, 05 dicembre 2004 alle 13:39
    dal booklet di Kind of Blue:

    "There is a Japanese visual art in which the artist is forced to be spontaneous. he must paint on a thin stretched parchment with a special brush and black water paint in such a way that an unnatural or interrupted stroke will destroy the line or break through the parchment. Erasures or changes are impossible. These artists must practice a particular discipline, that of allowing the idea to express itself in communication with their hands in such a direct way that deliberation cannot interfere. The resulting pictures lack the complex composition and textures of ordinary painting, but it is said that those who see will find something captured the escapes explanation" (Bill Evans).

    http://www.tttec.co.jp/bunjin/about/suib oku-e.html

    Ne posto alcune, per me sono molto belle:









    Emack ha scritto dom, 05 dicembre 2004 alle 14:04
    Belli sì

    the_lamb ha scritto dom, 05 dicembre 2004 alle 13:47
    La spiegazione teorica, tra l'altro, mostra una volta di più che l'Impressionismo è figlio d'Oriente.

    Katsushika Hokusai, Il Saizado del tempio di Gohyaku-Rakanji, 1830 ca.


    Monet, Terrazza sul mare a Sainte-Adresse, 1867.

  20. #45
    Emack
    ospite

    Predefinito Re: [archivio al 12/09/2006] Sugli scaffali dello scanto c'è...

    dal topic "Cultura popolare della poesia contadina"
    Ph@ntom ha scritto sab, 06 novembre 2004 alle 18:33
    articolo reperibile qui



    LA POESIA ESTEMPORANEA E I POETI IMPROVVISATORI
    di Corrado Barontini

    Nel mondo tradizionale l’improvvisazione poetica in ottava rima è stata spesso al centro di iniziative. Nei momenti festivi, nelle date cerimoniali (befanate e maggi) ma anche nelle pause di lavoro o nelle occasioni di ritrovo, i poeti estemporanei sono stati frequentemente un punto di incontro nello spazio pieno di voci quotidiane rappresentando il pensiero, le rivendicazioni, gli atteggiamenti conformi alla tradizione, ma anche la sapienza e la spontaneità popolare. Così le fiere, gli appuntamenti calendariali, i pranzi di matrimonio, i momenti cerimoniali ecc, insieme agli incontri di poesia a braccio (riunioni fatte per ascoltare i poeti su temi a contrasto) sono divenute le occasioni di maggior diffusione dell’ottava rima cantata. In Toscana - e in particolare in Maremma - questa forma d’arte ha trovato un terreno fertile per affermarsi prima nel mondo pastorale eppoi in quello operaio e contadino rappresentando una forma di riscatto, di denuncia e di opposizione politica con momenti di forte socialità.
    Numerose sono le presenze di poeti nel panorama della poesia estemporanea. Nella nostra regione ci sono ancora in attività una ventina di poeti tradizionali e proprio a Ribolla si realizza tuttora un incontro annuale di poesia improvvisata. Va inoltre ricordato che l’ottava rima ha saputo attirare l’interesse di alcuni personaggi dello spettacolo quali Francesco Guccini, Davide Riondino e lo stesso Roberto Benigni (quest'ultimo in gioventù l'ha praticata andando al seguito di alcuni poeti estemporanei). La Maremma ha dato i natali al poeta Gian Domenico Peri di Arcidosso (1564-1639) "nato poverissimo tra le mandre e i rusticani esercizi imparò solamente a leggere e scrivere" (così dice di lui Eugenio Lazzereschi). Il Peri ci ha lasciato una notevole produzione di poemi in ottava rima. Forma d'arte popolare, l'ottava rima affonda le proprie radici nella struttura metrico-ritmica dei poemi cavallereschi e nonostante la scarsa scolarizzazione dei poeti contadini era frequente sentire chi conosceva a memoria pezzi della Divina Commedia o versi del Tasso, dell'Ariosto e del Cavalier Marino. Anche in questa nostra epoca il "canto improvvisato" è riuscito a mantenere la propria tensione comunicativa grazie alla creatività e alle capacità espressive dei poeti estemporanei che hanno continuato ad improvvisare i loro canti
    "
    …abbia pure la sua trasformazione
    come la vuole la moderna usanza,
    ma se si definisce ottava rima
    ha sempre la sua forma come prima"

    Così scriveva a proposito dell'ottava rima Vasco Cai di Bientina, un maestro dell'improvvisazione poetica del '900. Nei suoi versi pur accogliendo la trasformazione voluta dalla "moderna usanza" ne ribadisce i confini della forma poetica.

  21. #46
    Emack
    ospite

    Predefinito Re: [archivio al 12/09/2006] Sugli scaffali dello scanto c'è...

    dal topic "scienza e religione"

    Ph@ntom ha scritto mar, 16 novembre 2004 alle 00:37
    Mi vendo, ahimè, con un argomento nazional-popolare.

    Semplicissima domanda:
    scienza e religione possono coesistere?
    il figone ha scritto mar, 16 novembre 2004 alle 11:39
    Scienza e religione possono coesistere nel preciso momento in cui la religione viene originariamente concepita in modo tale da coesistere con la scienza.
    Quindi se vogliamo discutere della religione cristiana, la mia risposta è che la sovrapposizione di campi d'indagine è troppo elevata per la pacifica vita indipendente.
    D'altra parte io pongo il problema solo sul piano umano; poichè l'analisi del trascendente ci è preclusa, e non mi interessa neanche (l'infinito sta sulla Terra; l'indagine scientifica può tendere alla trascendenza del limite umano; l'infinito temporale e quello conoscitivo convergono). Sul piano umano la religione cos'è?
    Voglio dire, eliminato Dio, cosa resta?
    E' lì che dobbiamo cercare gli elementi di contrasto tra religione e scienza?
    Se è così, questi contrasti sarebbero superabili, e in parer mio lo sono, ma non con il cristianesimo perchè ha delle radici talmente solide e vecchie che a me risultano immobili. Il tentativo di dinamicità che la Chiesa ha cercato è apprezzabile, ma il peso della tradizione è insuperabile.

    Bisogna anche dire che, ma con rallentamento del progresso considerevole, il passato ha comunque visto sempre il buon senso. Come a dire che sul piano temporale del singolo individuo le due non sono percepite come compatibili, ma sul piano storico e con inutili spargimenti di sangue (anche metaforici) alla lunga si va avanti lo stesso.

    the_lamb ha scritto mar, 16 novembre 2004 alle 15:53
    Mithrandir81 ha scritto mar, 16 novembre 2004 alle 12:07
    Escludo le forme di spiritualità cui the_lamb allude, che nemmeno conosco, sennò mi mangia.
    Figurati; sono pure vegetariano.
    Avevo l'incazzatura ieri, tutto qui.

    (anche se "l'estorsione nei confronti di Dio" che ben sottolinei fu condannata unanimemente anche dal meglio dell'intellighenzia cattolica e non solo. Tanto per farlo sapere. Tu però mi potresti obiettare che quel che conta è la prassi, e non avresti torto)

    Dunque, il problema mi sembra ancora più circoscrivibile: non c'entra la spiritualità. Non c'entra la religione, non tutta almeno.
    A entrarci, e in pieno, è il sottoinsieme squisitamente occidentale della realtà "religione": le correnti teosofiche. La pretesa della "scienza di Dio". Che ha origini nella filosofia pagana, a dirla proprio tutta. In effetti, più che nel Cristianesimo o nell'Islam in sé stessi, vedo il problema nell'ingerenza "profana".
    Ovvero, ciò che ha fregato le correnti maggioritarie dei monoteismi è stata la pretesa di sintetizzare un sistema completo, che comprendesse tutto, ma proprio tutto, sotto la bandiera della teologia. Completo e soprattutto concettualizzabile: il che, nell'ottica dell'Assoluto, è un assurdo (poi si potrebbe parlare delle "proiezioni" celate dietro all'idea di Dio... ma sto divagando)
    Da qui l'idea che la rettitudine consistesse non solo nell'essere retti e/o nel tradurlo con l'azione (anzi, nel protestantesimo questo è perfino irrilevante - bella 'sta Riforma, proprio bella!), ma anche nell'avere retta opinione sulla scienza di Dio. La Fede è questo e non altro. è con questi presupposti che una religione diviene esclusivista, e infatti questo è un problema che altre terre non conobbero (o quasi) per lunghissimo tempo. Chi combatteva l'eterodosso era spesso in buona fede, in realtà. Ma sto divagando di nuovo.
    Non che neghino del tutto il "mistero", ma su di esso, fateci caso, forniscono sempre qualche dettaglio di troppo. Mi spiego?
    Perfino la descrizione dell'origine della vita a partire dalla Genesi rientra in questo disegno, e infatti è decisamente posteriore. Quando la scienza smentiva quella concezione non stava invalidando la scrittura, la stava emendando. L'"altra lettura" (di cui molti "distruttori", come Darwin e Hutton, erano peraltro accesi sostenitori) non è mai stata un ripiego, è stata un recupero. Mi spiace ma è così.

    A questo onestamente il giudaismo mi sembra sfuggire in larga misura, ma ammetto la mia ignoranza.

    Sempre in ambito occidentale vi sono state eccezioni anche all'interno dei movimenti - nelle correnti mistiche (che ancora non sono quelle ascetiche, occhio!), tuttavia assolutamente minoritarie e oggi pressoché dimenticate.


    Quante parentesi; ma perché scrivo così male? Gh.
    Boh, erano spunti disordinati. Se avete da obiettare o da chiedere... fatelo con qualcun' altro ché io sono ignorante come una bestia. Grazie.
    Mithrandir81 ha scritto mar, 16 novembre 2004 alle 16:24
    the_lamb ha scritto mar, 16 novembre 2004 alle 15:53
    Tanto per farlo sapere. Tu però mi potresti obiettare che quel che conta è la prassi, e non avresti torto)
    e lasciami qualcosa da obiettare no?

    the_lamb ha scritto mar, 16 novembre 2004 alle 15:53
    Dunque, il problema mi sembra ancora più circoscrivibile: non c'entra la spiritualità. Non c'entra la religione, non tutta almeno.
    A entrarci, e in pieno, è il sottoinsieme squisitamente occidentale della realtà "religione": le correnti teosofiche. La pretesa della "scienza di Dio".
    Certo, questa è una mia limitazione nel giudizio, dopotutto le mie esperienze sono circostritte a quel particolare insieme.

    the_lamb ha scritto mar, 16 novembre 2004 alle 15:53
    L'"altra lettura" (di cui molti "distruttori", come Darwin e Hutton, erano peraltro accesi sostenitori) non è mai stata un ripiego, è stata un recupero. Mi spiace ma è così.
    Se ho capito cosa intendi, io lo avrei definito ripescaggio disperato, che nella storia quante volte è avvenuto? Una, due, dieci, mille volte?
    Ogni volta che la conoscenza umana ha debordato dai limiti presenti->conflitto->rielaborazione->nuova definizione di limiti.
    Ognuno di questi episodi è (lo vedo come) il fulmine che rinuncia ad essere dio.

    Quello che quindi noto è che in fin dei conti, la religione è un'esigenza umana, e si piega alle trasformazioni delle esigenze umane, conciliare religione e scienza è possibile solo nel momento in cui si ridefiniscono i limiti dell'una e dell'altra, inevitabilmente a favore della scienza, chè arrestare, insabbiare le conquiste umane è alquanto difficile.

    Sarà anche che non essendo credente, ho una visione totalmente strumentale della religione: una creazione dell'uomo, una forza necessaria solo nel momento in cui si trova di fronte alla forza opposta, perchè si raggiunga un equilibrio (uno, prima del prossimo conflitto e prossimo equilibrio).
    E per me la religione è una forza estremamente conservatrice che urla il motto: "E' pericoloso!" e la Scienza invece ribatte: "Proviamo!".
    Conciliarle in senso assoluto, dando spazio totale all'una e all'altra lo vedo impossibile.
    E' vero che l'uomo potrebbe creare degli argini, ma l'ondata di marea della scienza è talmente distruttiva e costruttiva insieme che resistere, la vedo dura (e comunque io faccio il tifo per lei).

    Immagino l'isolotto della religione al centro del lago scientifico, sempre più piccolo e sommerso, probabilmente quell'isolotto non cesserà mai di mostrarsi, ma io dico che diventerà sempre più piccolo. E la conciliazione sta nell'ammettere che questo sta accadendo e accadrà ancora ogni volta che un fulmine colpirà il terreno e l'uomo si domanderà il perchè.

    Probabilmente ho ripetuto più di una volta la stessa cosa, ma tu fa' finta di niente

  22. #47
    Emack
    ospite

    Predefinito Re: [archivio al 12/09/2006] Sugli scaffali dello scanto c'è...

    dal topic "2010: l'adulterio diventa obbligatorio"

    gangio ha scritto mar, 21 dicembre 2004 alle 01:29
    2010: l'adulterio diventa obbligatorio

    Finalmente è legge! Dopo anni e anni di lotte, manifestazioni, dibattiti, rinvii, maratone televisive, sondaggi, viene finalmente approvata la legge che regolamenta (e riconosce come valide di fronte allo Stato) le forme di aggregazione tra esseri umani e non. Vediamole.
    (Il bello è che una non esclude l'altra.)

    La più ovvia è ovviamente il matrimonio tra cosiddetti "culattoni", come anche loro amano oggi appellarsi, dopo lo sdoganamento del termine ad opera dell'intellighenzia progressista.
    Niente più patti di solidarietà sociale o viaggi in amene località, ma un vero e proprio matrimonio come sognato da bambine, per di più con l'approvazione di Santa Romana Chiesa che, si sa, non lesina certo in bontà, quando si tratta di portare pecore al proprio ovile. Tuttavia, c'è chi esprime dubbi sul reale motivo dell'apertura ecclesiastica. Qualcuno pensa che la legittimazione delle unioni gay sia, in realtà, più una necessità per rilanciare l'istituzione del matrimonio in sé, piuttosto che un doveroso ammodernamento in relazione ad una mutata realtà sociale. Non bisogna infatti dimenticare che, nonostante la setta degli scienziati continui a negare una casualità diretta, il numero di omosessuali è aumentato esponenzialmente (le ultime statistiche parlano dell'88%) da quando il Gaypride ha sostituito la classica domenica in cui si andava a sentir la messa.

    Niente da fare, invece, per il lesbomatrimonio. Non tanto per resistenze di tipo morale, ma per ragioni tecnico-pratiche. Pare infatti che tutte le cerimonie degenerino rapidamente in orge selvagge, senza alcuna possibilità di rispettare il rigido protocollo ecclesiastico. Qualcuno ha suggerito di addizionare il vino eucaristico con del bromuro. Potrebbe essere una soluzione.

    Unioni tra consanguinei. Checche ne dicano i revisionisti biblici, Lot ci diede sotto con le figlie, mentre la città di Sodoma veniva rasa al suolo solo perché qualcuno, evidentemente complessato per le dimensioni della propria arma di distruzione di massa, vi aveva visto un fottìo di missili eretti. In piena regola, anzi, caldamente consigliati dall'Unione Medici Incestisti Italiani, gli accoppiamenti edipici e l'uranismo paterno, senza trascurare l'importanza delle copulazioni fraterne, nepotiche e trisavolari. Ad alcuni appaiono stavolta sensate le perplessità della setta degli scienziati sulla durata, oltre il settimo giorno post-parto, della prole deforme da tali unioni generata. Ma siccome è altamente improbabile che gli scienziati ci becchino proprio su questa cosa, alla fine anche questa modalità è stata infilata nella legge. Con buona pace dei dubbiosi dell'ultima ora.

    Necrofilia. Poco da dire, se non che aumenterà a dismisura il lavoro di ricomposizione delle salme da parte dei becchini. Si parla già di incentivi per la rottamazione dei feretri troppo logori per essere ancora utili allo scopo…
    Discutibile la pratica, già in voga in altri paesi, che di fatto legalizza il noleggio di deceduti per sessioni di briscola col morto.

    Unioni con animali. No, le balenottere azzurre, purtroppo, non sono state ratificate tra le specie con cui l'uomo, o la donna, potrà accoppiarsi. Ma non c'è da dispiacersi. Infinita è infatti la serie delle animalia che hanno acconsentito (peraltro, particolare trascurabilissimo, senza essere preventivamente consultate). Via libera quindi al galoppo rovesciato, alla mungitura dei tori e alla prestidigitazione dei colubridi, passando per le pecorine un po' troppo belanti, le galline stitiche e gli orangutan dal proverbiale culo in fiamme.

    Abbandono di minore e aborto. Di nuova concezione e completamente automatizzati, i nuovi cassonetti della nettezza urbana, dotati di nursery fuzzy logic, che sfornano un pacco celere 3 acquistabile tramite asta on-line. Unica avvertenza: controllare le ultime, minutissime righe del contratto che riguardano il diritto di recesso. Non è raro vedersi recapitare della "giacenza di magazzino" che pretende immediatamente macchina ed accesso incondizionato ai fondi fiduciari di famiglia.
    La pillola del giorno prima permetterà invece di sradicare anche l'embrione più scaltro e restio ad abbandonare l'utero materno. In pratica, la pur vigile coscienza del malcapitato nulla potrà contro una compressa in cui il principio attivo è costituito da tachioni elettromagneticamente incapsulati.

    Infine, per chi vuole rimanere fedele alla vecchia, desueta, obsoleta, abitudine del matrimonio etero, finalizzato alla semplice e noiosa perpetuazione della specie, un piacevole diversivo che renderà il tutto più frizzante e meno problematico: l'adulterio obbligatorio.
    Basta con i sensi di colpa ed i sotterfugi! Basta con le Moana che sul cellulare diventano Filiberto Officina! O i Rocco che diventano Parrucchiera Giusy! D'ora in poi tradire il coniuge sarà un dovere di legge, da certificare con presentazione di regolare fattura commerciale, la cui iva è naturalmente scaricabile dalle tasse. Esami genetici a tappeto sulla reale paternità dei nascituri permetterà di scovare eventuali evasori genitali.
    Tutta da definire la gamma delle sanzioni per i trasgressori. C'è chi ha proposto di desottoscalizzare e desoffitizzare le ghigliottine, ma, sinceramente, il vintage non ha rotto un po' le balle anche a voi?


  23. #48
    Emack
    ospite

    Predefinito Re: [archivio al 12/09/2006] Sugli scaffali dello scanto c'è...

    dal topic "Mediterraneo: poesia ed estetica"

    Ph@ntom ha scritto sab, 19 febbraio 2005 alle 03:10
    Non ho la pretesa che ne esca una discussione ma è una lettura bellissima e dunque ve la propongo.




    arabroma.com - il sito della cultura araba
    ÖZDEMIR INCE
    Mediterraneo: poesia ed estetica




    Mia madre, che era della città di Mersin, aveva una cugina che viveva in un paese dei monti del Tauro. Si chiamava Hapa, più esattamente Hapa la folle. Era ritenuta folle perché si sedeva all'ombra dei platani e dei noci a parlare e fumare con gli uomini. La ragione dell'aggettivo "folle" era quindi evidente, ma perché non portava un nome conosciuto come Ayshe, Fatma, Gulu? In Turchia esistono nomi regionali molto apprezzati, ma Hapa non era neanche di quelli. C'era in paese qualche altro nome straniero, ma non ero ancora in età di cercarne la ragione.
    Circa trent'anni fa leggevo in un dizionario un articolo su Eracle. Fui colpito dal nome "Herakleia Pontika" (Eraclea del Ponte, in turco Karadeniz Ereglisi): infatti, per quanto ne so, esiste in Turchia una semi dozzina di piccole città e di borghi chiamati Ereºli (Eraclea). Col passare del tempo il greco "Heraklei" si è trasformato nel turco EreÞli così come "Iconion" in Konya e Cesarea in Kayseri. Un'altra parola, nel dizionario, mi colpì: "Hepa". Mi sono subito ricordato della cugina di mia madre, Hapa la folle. Accanto ad "Hepa" era scritto "Hepat", la principale dea ittita, chiamata anche Hepa o Hepata, la dea-sole di origine hurrita che si pensa sia all'origine della dea greca Ebe, figlia di Zeus e di Era, che ha sposato Eracle. E' probabile che sia uno dei diversi nomi di Cibele. Nelle iscrizioni ittite è detto che essa è adorata nel "paese dei cedri", il Libano e la Palestina. Epa è quindi Havva (Eva) stessa, designata nella Torah come moglie del primo uomo, Adamo, e madre di tutti gli uomini.
    Dio santo! Il nome della nostra Hapa la folle era quindi quello di Eva, prima madre degli ebrei, dei cristiani e dei musulmani. Anche mia sorella si chiama Havva: la cugina di mia madre e mia sorella portano quindi lo stesso nome di Ava Gardner!
    Ma che correlazione c'è tra tutto questo e il Mediterraneo, e, se esiste, l'estetica mediterranea? Veramente non lo so. Penso che fosse il 1980, uno dei tanti mesi di ottobre: dopo una buona cena ad Atene, nella Plaka alta, che dà sull'Acropoli, torno al mio albergo. E' quasi mezzanotte, ci sono pochissimi turisti nelle strade. Cammino per i vicoli stretti di Plaka verso piazza Syntagma: da lontano giunge una melodia che assomiglia alla musica del nostro Dede Effendi (1778-1846). Penso: che ci fa la musica classica ottomana a quest'ora della notte nel bel mezzo di Plaka? Cammino verso il luogo da cui proviene la musica, mi viene incontro la grande cattedrale. C'è la messa e alla porta una giovane donna distribuisce delle mandorle sgusciate: ne ha date anche a me. Si direbbe una festa tradizionale di fidanzamento o di nozze in Turchia.
    Mi ricordo degli scritti dei musicologi: sembra che inizialmente la musica ottomana sia stata influenzata dalla musica sacra bizantina, per poi essa stessa influenzare la musica sacra ortodossa. E' la storia di una élite musicale. Le musiche popolari turca e greca si somigliano: si direbbero due sorelle gemelle. Se chiedessimo ai fanatici turchi, direbbero: "I greci l'hanno presa da noi", mentre i fanatici greci pretenderebbero il contrario. Si potrebbe chiedere loro, con i versi di Yunus Emre, poeta mistico del XIII secolo: "Un padrone ha le sue terre, l'altro le sue mule, ma all'inizio di chi erano?"
    Nel mese di settembre 1998 ero in Marocco. Il ministero della cultura del regno marocchino mi ha offerto una collezione di CD: " Antologia Al-…la ", musica Andaloluso-Marocchina. Ho ascoltato i CD di ritorno a Istanbul. Sorpresa! Da un lato, musica religiosa che noi chiamiamo sufi, dall'altro, musica vicina a quella che chiamiamo turca. Ho chiesto agli intenditori. Alcuni hanno detto: "Questa musica dovrebbe essere giunta a noi con l'immigrazione degli ebrei sulle terre ottomane nel 1492" (ma è senza dubbio impossibile che sia nata unicamente così); altri hanno detto: "Una parte di questa musica è venuta da oriente verso occidente durante l'invasione dell'Africa del Nord e della Spagna da parte degli arabi". Ho sentito altre ipotesi, ma non sono riuscito a chiarire la questione.
    Ecco, vi racconto ancora un aneddoto, che sempre non ha rapporto con l'estetica: uno dei miei amici francesi, diplomatico che ha oggi il titolo di console, doveva venire a cena da noi una sera, all'inizio degli anni '70. Ha portato con sé un'amica libanese. La sera quella signora, che era di una delle più famose famiglie libanesi, salendo le scale ha detto a gran voce: "Si sente il Libano qui!" Appena entrata, ha chiesto a mia moglie cosa avesse preparato. Aveva cucinato dei "dolma". Sapete forse che il piatto che si chiama dolma è preparato svuotando melanzane o zucchine per farcirle, oppure arrotolando foglie di vite o di cavolo sulla farcia. Gli ingredienti principali sono il riso e la carne macinata. Nella mia città natale, Mersin, il dolma è preparato in un modo un po' speciale: qualche minuto prima di togliere la casseruola dal fuoco, il piatto di portata viene cosparso di menta secca, aglio pestato e succo di limone. Quelli che sono abituati al dolma fatto in questo modo non ne toccano un altro tipo. Ciò che ha fatto esclamare alla signora libanese "si sente il Libano qui!" era l'aroma emanato dal misto di limone, menta e aglio. Ed è naturale, perché Mersin è la Beirut della Turchia.
    Il mio amico venerato, grande poeta, grande sapiente della poesia, il più grande di tutti, il gran buongustaio Ali Ahmed Bey, cioè Adonis, conclude il suo articolo intitolato "Il poeta arabo contemporaneo di fronte all'eredità" dicendo: "Il poeta contemporaneo sa che il patrimonio arabo è solo una parte di un patrimonio più vasto, nel quale vuole reinserirlo per farlo sfuggire all'isolamento e alla morte. Il Mediterraneo parte da Cartagine, passando per Alessandria e Beirut per arrivare ad Antiochia, dopo aver compreso Sumer e Babilonia: tale è l'ambito in cui si radica la nostra cultura. Sono queste origini che i Greci hanno adottato ed elaborato in un movimento intellettuale unico nel genere, diventato la base della civiltà moderna. Da questa origine derivano tutte le altre tradizioni; da questa origine sono nate tutte le cose e questa sorgente, dice Cicerone, è impossibile che si prosciughi. La poesia araba moderna entra in questo mondo, ed entrandoci essa non diventa occidentale ma mediterranea". Cosi scrive Adonis.
    La geografia culturale comporta terre irrigate dal fiume della civiltà, dal quale si disseta anche ogni poeta turco moderno sensato. Su questa terra di cultura c'è senza dubbio tanto l'ombra del cipresso greco che l'ombra della palma araba. La carta geografica della civiltà, che appare per il poeta arabo delimitata a nord dai confini attuali della Siria e dell'Iraq, comprende tutti gli strati di civilizzazione dell'Anatolia (ittita, ionica, frigia, bizantina, ecc...), ma è una casseruola che contiene anche molti ingredienti asiatici.
    Il grande mistico Mevlana R™m† (XIII sec.), la cui influenza si è diffusa ultimamente per tutto il globo, che i turchi considerano turco perché era di origine turca e visse a Konia, ma che gli iraniani considerano parte della loro cultura perché aveva scritto in persiano, dice:

    "Vieni ancora, ancora vieni
    Chiunque tu sia
    che tu sia un infedele, che adori il fuoco o un idolo
    che tu ti sia pentito cento volte
    che tu abbia tradito il tuo giuramento cento volte
    Questa porta non è quella della disperazione
    Vieni come sei, vieni".


    Mi ricorda un altro testo:

    "Se un tuo fratello pecca, rimproveralo; ma se si pente, perdonalo. E se pecca sette volte al giorno contro di te e sette volte ti dice: mi pento, tu lo perdonerai" (Luca 17:3-4).

    R™m†, uno dei più grandi poeti del pensiero mistico musulmano, aveva stabilito un rapporto intertestuale con uno dei quattro libri del Cristianesimo: non contento, arredò il suo edificio poetico di morale cristiana e di pensiero classico greco. Nello scrivere queste righe, mi ricordo i mendicanti della mia infanzia, nelle strade di Mersin, che chiedevano l'elemosina nel nome della "Ave Maria". Ed è perfettamente naturale, visto che San Paolo è nato a Tarso, a diciassette chilometri da Mersin e le "Sette Chiese" si trovano in Turchia: "Quello che vedi, scrivilo in un libro e invialo alle sette Chiese: a Efeso, a Smirne, a Pergamo, a Tiatira, a Sardi, a Filadelfia e a Laodicea" (Apocalisse I:11).
    E' ora di ricordare il tema di questa riunione: " Mediterraneo: Poesia e estetica ". Un nome di mare, due punti, una forma specifica nell'uso del linguaggio, il pensiero filosofico che cerca l'essenza dell'arte e della bellezza. Senza dubbio, secondo i detti degli intenditori, il Mediterraneo non è soltanto un mare ma è, allo stesso tempo, regione geografica, cucina di storia e teatro di popoli. Allo stesso modo la poesia non è soltanto un uso specifico del linguaggio, ma anche chimica delle civiltà e delle credenze. Così come i filosofi non accettano il pensiero sul bello e sul brutto senza la nozione di bene e di male, di giusto e sbagliato, così su un piatto della bilancia dell'arte sta l'estetica e sull'altro l'etica. Considerato sotto questo angolo, il Mediterraneo si può trasformare in sensibilità e pensiero.
    Il Mediterraneo è un tavolo di nozze. Questo titolo potrebbe essere ingannevole, perché il Mediterraneo non rappresenta un insieme univoco. Esso ricorda piuttosto la formazione di una pianura o l'emersione di un atollo, un'unità di mosaici. Le tre religioni monoteiste, che formano la civiltà mediterranea attuale, sono come i tre piani di un palazzo. Nei tre piani ci sono tre imperi: quello greco, quello romano e quello ottomano. Altri locatari stanno nel piano terra: gli stati omayyade e abbaside degli Arabi, gli stati della Mesopotamia e dell'Anatolia. Decine di popoli e civiltà.
    Il teatro, i giochi, si fanno sulla scena del medio oriente, cioè del Mediterraneo orientale: non la culla di tutte le civiltà, ma quella della civiltà orientale, che ingloba l'Europa e l'America del nord.
    L'estetica marxista, caduta in disgrazia in questi tempi, per delle cause politiche indipendenti dall'essenza della creazione artistica, basa l'opera artistica sulla vita sociale. La vita sociale è vissuta sullo scenario della natura. La natura e la vita, cioè la realtà inesauribile, la religione e il mito, creano nell'immaginazione e nell'anima del poeta e dell'artista la linfa dell'ispirazione. Un'opera artistica non è forse, malgrado tutto, una produzione artistica estetica, che un individuo realizza da solo e che riflette la sua struttura mentale e psicologica? Dove e come nasce e vive questo individuo artista, in quale regione storica, sociale e geografica? Considerata da questo punto di vista, l'opera artistica non è soltanto una produzione individuale, ma anche quella di una struttura mentale e psicologica comune, c'è cioè un'identità maggiore, che fa che un'opera d'arte esista. L'identità propria di ogni artista (l'identità minore) è una particella di questa identità maggiore. Per questa ragione, ogni opera d'arte è l'impronta digitale dell'identità minore e maggiore allo stesso tempo. Questa impronta digitale fa di Kavafis un elleno di Alessandria. Seguendo questo ragionamento, l'essere mediterraneo (la mediterraneità), potrebbe essere considerato un'identità maggiore? Penso che l'identità maggiore porti in sé qualità nazionali. Il Mediterraneo può essere un crocevia dove si incontrano le identità maggiori. Ciò vuol dire che il Mediterraneo deve essere proprio come la religione e la mitologia, una delle componenti dell'identità maggiore nazionale. Per questa ragione non c'è una sola identità mediterranea, ma ce ne sono tante. Come per quel che riguarda il mar mediterraneo, anche per l'identità mediterranea esistono fatti di secondo e terzo grado. Come il mare mediterraneo che si apre ad altre acque, grazie a Gibilterra, Suez, i Dardanelli e il Bosforo e si nutre delle acque delle terre confinanti, così l'essere mediterraneo si nutre di civiltà, culture e credenze delle terre che circondano le sue e che lo immunizzano.
    Si può parlare di tre cerchi che circondano il Mediterraneo insito in un atto artistico, dall'esterno verso l'interno:
    Primo cerchio: le religioni e la mitologia. Le religioni mesopotamiche, le religioni anatoliche e le loro derivate, il giudaismo, il cristianesimo e l'islam; le mitologie mesopotamiche, anatoliche e greche; l'umanesimo.
    Secondo cerchio: la civiltà greco-romana, quella araba medio orientale; gli elementi geografici (il clima, la flora, ecc.), le religioni, le sette, i riti.
    Terzo cerchio: le strutture intellettuali ed emozionali, riflessi della cultura nazionale, le storie locali, le lingue nazionali, il folklore.
    Ho davanti a me un piccolo libro: parla di un uomo che ha consacrato tutta la sua arte a riflettere ed illustrare l'anima e il pensiero mediterranei, un uomo simbolo del Mediterraneo, Albert Camus. Camus definisce così il Mediterraneo: "Questo gusto trionfante della vita, ecco il vero mediterraneo", "Mediterraneo è un clima di pensiero e di sensibilità, quello della luce, del mare, del sole e della vita"(Presentazione della rivista Rivages).
    In questo libro, che sta davanti a me, sul tavolo, si enumerano, partendo dall'opera di Albert Camus, le proprietà costituenti che potrebbero figurare nell'opera di uno scrittore mediterraneo, circondato dalla cultura e dall'umanesimo mediterranei: ardore di vita, certezza della morte, fede nell'uomo, gusto della bellezza, preoccupazione per l'armonia umana, bisogno d'ordine e di misure, fratellanza terrestre ed esigenza di verità.
    Non mi chiedo se il Mediterraneo esista o no. Non ce n'è uno, bensì tanti. Tra questi, due sono abbastanza concreti, visibili e tangibili: da una parte, in un cortile circondato da mura elevate, attorno ad uno zampillo e a una piscina diventata il Mediterraneo, vive il Mediterraneo introverso, mistico e musulmano; dall'altra parte, davanti alla porta, per la strada, sulle piazze vive il Mediterraneo cristiano e metafisico. Dall'uno la passione senza limiti di un sub; dall'altro quella d'un alpinista. Il Mediterraneo è al contempo realista e metafisico e il vero Mediterraneo, cioè il vero poeta mediterraneo è allo stesso tempo sub e alpinista. Ecco, in sintesi, le terre del poeta mediterraneo: un paese dalla notte limitata, il cui giorno è senza confini. Così nel suo ufficio, come anche nella sua cella, egli ha il cielo e il mare.
    Quanto a me, che vi trasmetto queste rivelazioni, sono uno sciamano mediterraneo!

  24. #49
    Emack
    ospite

    Predefinito Re: [archivio al 12/09/2006] Sugli scaffali dello scanto c'è...

    [b]dal topic "l'astrologia fa il versus alla religione: e vince!"

    gangio ha scritto ven, 03 giugno 2005 alle 01:36
    Astrologia vs Religione

    1. C’è Verità e verità

    Non c’è dubbio. Mentre i preti dichiarano da sempre, senza alcun pudore, di tenere per le palle l’unica verità possibile, il variegato mondo degli astrologi, dei cartomanti, dei parrucchieri e degli intagliatori di calli e duroni, non ha mai azzardato nulla del genere. Va da sé che, tra chi punta sull’integrità di un assoluto e chi s’accontenta delle relative briciole, vince il secondo, poiché, spalmando le possibilità di congruenza tra le profezie e la verifica a posteriori delle stesse su di un campione eterogeneo, cresce a dismisura la percentuale di successi. Capibile soprattutto se si considera che tutti i fenomeni evolutivi sopravissuti a se stessi sono di tipo induttivo e non deduttivo, per il semplice fatto che la coerenza è più forte se cercata per affinità piuttosto che per imposizione dall’alto. In parole povere, l’astrologia punta tutto sulla quantità dei messaggi e sulla loro inevitabile, casuale collimazione con un altissimo numero di desideri, aspettative, paure, incertezze. E il bello è che, quando una profezia è verificata sulla propria pelle, anche il più ragionevole degli uomini si fa avvinghiare dal sospetto che esista effettivamente un potere in quelle quattro righe stampate accanto ad un simbolo. Di contro, la pur allettante salvezza eterna fornita dalla Religione non provoca lo stesso coinvolgimento emotivo, salvo rari casi d’eccessi misticheggianti. Nessuno mi toglierà il sospetto che anche il fedele più partecipe, alla fine, crede più per abitudine che per passione; e, si sa, in un rapporto non c’è niente di peggio dell’abitudine per spegnere l’interesse verso l’altro. Vince quindi l’astrologia, per la modestia e la lungimiranza, per le emozioni che sa donare, per il prezzo modico e per l'assenza di pretese d’otto per mille di sorta. Vince l’astrologia, con le sue molte, piccole ed insulse false verità, che si accendono come le luci sull’albero di natale, ad intermittenza, una qua, una là, una adesso, una tra non si sa quando. Perde e perderà, non sapete quanto mi dispiace, la Religione, con la sua grande ed abbagliante luce, ma soprattutto con la sua assurda pretesa di sconfiggere l’oscurità.

    2. Una Promessa e una promessa

    Tutti i padri lo sanno: non fate mai promesse che temete di non poter mantenere. Anche Lui conosce questa regola ferrea, infatti ne ha fatta una che non potrà mai essere verificata. Mi riferisco all’immortalità dell’anima, un contratto che ammette una ed una sola clausola recissoria: la perdita della fede. Ma il bello è che, anche se la perdi, l’importante è che tu ti penta dei peccati commessi e che la riacquisti un attimo prima di fare ciao ciao con la manina alla telecamera. Comodo, no? In pratica, posso scorribandare come cavolo mi pare per tutta la vita e pentirmi nell’ultimo fotogramma a mia disposizione per essere eternamente salvo. A patto che il pentimento sia sincero, non facciamo scherzi, eh? Seriamente, la prima conseguenza della promessa dell’immortalità dell’anima è che un altissimo numero d’individui sarà indotto a sottovalutare le ricadute del proprio agire terreno a favore di una certa redenzione ultraterrena, mentre solo una piccola percentuale sarà intimorita dal lato oscuro della promessa: la dannazione eterna. Il motivo di tale divergenza statistica risiede nella scarsa preveggenza dell’uomo, così preso dal suo essere entità temporale vorace d’istanti, più che di proiezioni di pene o godimenti futuri. Checche se ne dica, l’uomo vive soprattutto nel presente.
    Seconda conseguenza. Se sono immortale, allora posso anche sacrificare la mia vita terrena per una causa che ritengo giusta. Tac. Kamikaze. Tac. Martiri. Tac. Guerra preventiva, tanto muoiono solo per finta. Tac. Guerre sante, tanto sono infedeli quindi meritano di morire. Risonanza magnetica termonucleareglobale.
    Vuoi mettere la povera maghetta di periferia che sbarca il lunario vendendo frottole a dieci euri l’una? Ma mi faccia il piacere! Il rapporto danni/benefici non è nemmeno paragonabile. Due a zero per l’astrologia e palla (di cristallo) al centro.

    Nota a margine: i kamikaze originali, quelli Made in Japan, sacrificavano la loro vita per diventare eroi immortali. Spinti da un altissimo senso dell’onore, ritenevano migliore la morte per una causa ritenuta nobile (la patria, l’imperatore) piuttosto che la sopravvivenza nell’anonimato. Questo è il principio antropsicologico puro che viene “drogato” e potenziato nella versione giudaica, da cui discendono quella cristiana ed islamica.

    3. Le due torri

    Tutti conosciamo il mito della Torre di Babele. Viene sempre presentato con una punta d’irrisione, considerato una metafora pressoché inutile, sì, la superbia dell’uomo, sì, Dio che fa il dispettoso, la genesi delle lingue, sì, certo certo, yaaaaaaaaaaaawn. Sottovalutare la Bibbia non è sempre una mossa intelligente, anche se c’è da dire che le verità più scomode sono state celate per malafede più che per incapacità interpretative. Forse. Per fortuna i miti sono sopravissuti a coloro che credono d’essersi impossessati del loro spirito. Perché quello che il mito della torre nasconde, attraverso un capovolgimento prospettico tanto semplice quanto geniale, è talmente ovvio da essere quasi banalmente ignorato per eccesso di verità, cui non siamo evidentemente abituati. Capovolgiamo, quindi, gli elementi del mito e vediamo cos’accade. Abbiamo degli industriosi palazzinari che vogliono erigere una torre talmente alta da poter vedere Dio mentre s’insapona le ascelle sotto la doccia. Il bello è che ci riescono, i lavori procedono che è una meraviglia. Eh, bella forza, direte voi, a quei tempi non c’erano mica Lunardi e “fasotutomi”. Ma il motivo per cui gli uomini riescono nell’impresa è che il general contractor è l’umanità tutta, solidale e unita da un intento comune: quello d’essere come Dio. Questa è la semplice verità. Se gli uomini si uniranno e smetteranno di farsi la guerra, potranno diventare come Dio. L’unicità della lingua non è che un pretesto per definire la coesione necessaria al fine di attuare grandi imprese, come può essere, per esempio, la conquista dello spazio.
    Il rovescio della medaglia. Secondo alcuni, il mito indicherebbe invece che l’uomo deve ben guardarsi dal voler raggiungere Dio, dal voler essere simile a Lui. Da cui tutta la pletora di divieti sulla sacralità della vita, sull’uso dei contraccettivi, sull’aborto, e via discorrendo. Quest’interpretazione è letterale, mantiene la prospettiva degli elementi che compongono il mito. Abbiamo quindi un’umanità che agiva di comune accordo e che viene divisa da un Dio dispettoso ed invidioso, benissimo. Poiché è difficile individuare un momento storico del passato in cui questo possa essersi verificato, il mito potrebbe verificarsi in un lontano futuro, ed essere quindi un monito: “se oserete, sarete puniti”. State quindi attenti, voi studiosi delle lingue.
    L’astrologia che c’èntra in tutto ciò? Niente, se non per il fatto di non essersi lanciata in esegesi mirate alla conservazione del potere ed al mantenimento dell’ingiustizia sociale, cosa che invece ha proficuamente sempre fatto la Chiesa, compiendo uno dei crimini peggiori che si possano commettere contro l’umanità. Vince quindi ancora l’astrologia, più per demeriti dell’avversario che per l’impegno profuso, a dire il vero.

    Nota a margine: l’interpretazione storicistica, che individua nella tipica torre a spirale mesopotamica la fonte d’ispirazione per il mito babelico, è ridicola ed offensiva.


    Tre a zero. Chissà se basterà...

  25. #50
    Emack
    ospite

    Predefinito Re: [archivio al 12/09/2006] Sugli scaffali dello scanto c'è...

    dal topic "Pietro Citati sulla riforma Berlinguer"

    the_lamb ha scritto gio, 25 maggio 2006 alle 01:16
    Da Repubblica, 8 giugno 2004

    Da Berlinguer alla Moratti: il grande disastro dell'Università

    PIETRO CITATI


    QUALCHE tempo fa, ho assistito a uno spettacolo singolare. Durante una discussione televisiva, il ministro della Pubblica lstruzione, Letizia Moratti, contestata da domande volgari, disse all'improvviso con occhi brillanti e squillanti: «Ma io apprezzo moltissimo la riforma universitaria di Berlinguer. È ottima. È la migliore di tutte». Credo che l'intero paese sia stato scosso da un brivido d'estasi. Non era mai accaduto che un ministro della destra apprezzasse uno della sinistra (e viceversa). Per un istante senza tempo, gli spettatori videro Berlusconi dare un affettuoso colpetto sulla schiena di Prodi, che lo ricambiò con un bacio sulla guancia (così si amano i potenti); i baffetti di D'Alema si intrecciarono con i folti manubri di La Russa; Bossi strofinò le gote mal rasate dal barbiere di Varese con quelle ispidissime di Di Pietro; le sopracciglia di Casini si intrecciarono con quelle di Mussi; Buttiglione discusse intorno all'Essere con Cacciari; Agnoletto accarezzò teneramente Tremonti; e un'aria di quiete, di pace, di amore e di felicità si diffuse in tutta l'Italia.

    ***


    Purtroppo (o per fortuna) questa visione edenica rimase chiusa nelle immaginazioni degli italiani. Letizia Moratti si era illusa.
    La Riforma Berlinguer, approvata qualche anno fa da un ministro incompetente assistito da consiglieri incompetentissimi, era la peggiore che abbia mai funestato le facoltà di Lettere e di Filosofia e i professori ordinari, associati e i ricercatori e gli studenti delle sventurate università italiane. Non sono un professore universitario: ma ho molti amici professori, che insegnano letteratura inglese e francese, filologia romanza e comparatistica, storia antica e letteratura greca e letteratura bizantina.
    Ho chiesto notizie: cosa quasi impossibile, perché in ogni università accadono cose diverse, progetti vengono annunciati e ritirati, ardite cosmogonie costruite e il giorno dopo distrutte, voci attraversano l'aria, vengono sostituite da altre voci, che a loro volta generano voci completamente dissimili; gli studenti terrorizzati non osano più studiare, i professori impauriti e annoiati preparano la lettera di dimissioni. Non pretendo dire cose certe, come un buon giornalista. Vorrei soltanto raccontare al lettore di Repubblica la farsesca e sinistra storia delle facoltà umanistiche italiane negli ultimi anni. Forse Berlinguer è stato soltanto questo: un autore di pochades e vaudevilles neri.
    Credo che il racconto debba incominciare con una notizia. Negli anni passati, le università italiane avevano moltissimi studenti fuori corso: molto più numerosi che nelle università inglesi, francesi e tedesche. Gli studenti salivano a Roma da Lecce, da Bari, da Potenza, discendevano da Civitavecchia o da Terni: alloggiavano in squallide pensioni vicino alla Sapienza, lavoravano come camerieri, dattilografi e pony, amoreggiavano, facevano manifestazioni di destra o di sinistra per il Corso, occupavano l'università, protestavano contro i professori, esaltavano la Roma e la Lazio, si sposavano, tornavano al paese, avevano due o tre figli (che a loro volta si preparavano fin dalla nascita a diventare studenti universitari): senza mai riuscire a dare esami o a laurearsi, e qualche volta a vedere un'aula universitaria gremitissima di folla. Il cuore dell'onorevole Berlinguer era commosso e angosciato. Ma dimenticava due fatti. Il primo è che soltanto nell'università italiana si può ripetere, per trenta volte, lo stesso esame. Il secondo è che era inutile preoccuparsi dei fuori corso. Gli studenti di lettere, laureati in quattro o cinque anni, erano moltissimi. Il loro numero superava quello dei professori richiesti dalle scuole medie, dagli istituti tecnici, o dai licei. Gli studenti fuori corso avrebbero potuto fare i falegnami, gli idraulici, i corniciai, gli elettricisti: professioni nobilissime, difficilissime, e quasi abbandonate dagli italiani.
    Il secondo fenomeno era più recente. All'università si presentavano, come sempre, studenti appassionati e brillanti, che leggevano tutti i libri, frequentavano le eccellenti biblioteche italiane e straniere di Roma, discutevano di Platone e di Hölderlin, frequentavano cinema e teatri, e si nutrivano di pane, mortadella e coca cola. Ma giungevano anche plotoni di studenti che non sapevano parlare. Ignoravano il linguaggio comune, apprendevano qualche termine nuovo dalla televisione, e lo ripetevano senza conoscerne il significato: la lettura del Corriere della Sera o di Repubblica sembrava loro più ardua di quella di Finnegans
    Wake. Quanto a scrivere, nemmeno pensarci. Errori di ortografia, niente sintassi e consecutio temporum, oblio del congiuntivo, incapacità di organizzare o almeno di mettere in fila quelle debolissime idee che baluginavano nelle loro teste, amore travolgente per una parola: discorzzo. Che poi esistesse una cosa chiamata «pensiero», coltivata per secoli da Platone o da Spinoza o da Musil, ecco, questo non l'avevano mai saputo. Si accontentavano di emettere suoni vagamente romaneschi, borborigmi, biascichii, blaterii senza forma né contenuto.
    Davanti a questa situazione drammatica, il ministro Luigi Berlinguer intervenne con la forza, l'impeto e l'ardore di un generale napoleonico. Escogitò il cosiddetto modello tre più due. I suoi consiglieri lo assistettero con la fantasia degli escogitatori di parole incrociate e l'accortezza degli inventori di puzzle e giochi elettronici. Inventarono i «moduli», i«crediti» e i «debiti». Non chiedetemi di spiegarveli. Il principio fondamentale era questo. La laurea breve (in tre anni) doveva essere una specie di liceo prolungato, dove si leggevano, per esempio, i classici greci e latini quasi sempre in traduzione, si offriva una puerile storia della letteratura e della filosofia, si insegnava vagamente qualche lingua straniera. Dopo tre anni, ne conosciamo i risultati. Il livello degli studi si è incredibilmente abbassato. Non si legge più. All'università di Roma La Sapienza, la maggiore d'Italia, un professore che tenga un corso su Shakespeare di circa due mesi non può imporre ai suoi allievi la lettura di oltre duecentocinquanta pagine. L'edizione Arden commentata di Amleto ne comprende 570.
    Il professore non potrà dunque adottarla, mai, a nessun costo, perché il tenero cervello dell'allievo ventenne o ventiduenne rischierebbe di incrinarsi, sciogliersi, putrefarsi, nullificarsi, se venisse sottoposto all'intollerabile peso di trecento pagine in due mesi. Dovrà accontentarsi del nudo Amleto, senza nessuna altra tragedia o commedia, accompagnato da qualche paginetta di critica. Se le pagine adottate fossero duecentocinquantadue, lo studente potrebbe rifiutarsi di leggerle, mentre il direttore del dipartimento avrebbe il dovere di rimproverare, minacciare o punire con le verghe il professore troppo «elitario». Una parte degli studenti non acquista più libri (anche se un Oscar costa 12 euro e un classico di Repubblica o del Corriere 7.90). Pretende di usare soltanto fotocopie, che contengono esclusivamente le poche cose commentate durante le lezioni (82 versi di Shakespeare, 13 della Dickinson, 60 dell' Odissea, un capitolo di Madame Bovary, 30 righe Hölderlin). Ma siccome una minoranza degli studenti italiani è molto più intelligente dei ministri (e spesso dei professori), alcuni si ribellano e pretendono di studiare. Vogliono leggere tutta l'Iliade e l'Odissea e tutte le Metamorfosi di Ovidio e quelle di Apuleio e la Divina Commedia e il Faust e persino i tredici volumi che, nella Pléiade, raccolgono la Comédie humaine di Balzac, e naturalmente Guerra e Pace. Questo è, per fortuna, il paradosso italiano; su cento sciocchi, ci sono sempre sette ragazzi intelligentissimi: molto più fantasiosi e colti degli scrupolosi studenti americani, come dice un amico che insegna anche negli Stati Uniti. Il primo inconveniente, che l'onorevole Berlinguer non ha previsto, è che il sistema della laurea breve non funziona nelle facoltà universitarie. I fuori corso continuano ad accumularsi, nelle tristi pensioncine vicino alla Sapienza e alla Stazione Termini. Nessuno studia, o studia in modo confuso e impreciso: eppure chi ha scelto la laurea breve non riesce a laurearsi, tale è la frammentazione del sistema universitario, la moltiplicazione dei corsi inutili, il groviglio burocratico, il caos, il guazzabuglio e la confusione che la GRANDE RIFORMA ha introdotto nelle cose più usuali. Il secondo inconveniente, molto peggiore, è che la laurea breve non porta a nessun lavoro. In realtà, è una truffa. Non permette di insegnare nelle scuole medie e nei licei: consente, sì, di diventare redattore nelle case editrici, dove nessuno accoglierà mai un ventunenne che ignora la lingua italiana. Permette di fare la guida turistica e il custode dei musei: ma non credo che la richiesta sia grande. Consente una sola cosa: fare concorsi che gli permettano di partecipare a nuovi concorsi che gli apriranno la strada a altri concorsi, che infine gli consentiranno di scrivere, con mano rugosa e tremante, la domanda per un concorso definitivo: la morte. Nemmeno questa volta, forse, la sua richiesta verrà accolta.
    Dopo i tre anni di laurea breve, ci sono i due anni di studio specializzato, che dovrebbero permettere (ma non è sicuro) di insegnare nelle scuole medie e nei licei. Per ora, pochissimi hanno iniziato questo studio; ed è quindi fuori luogo parlarne. Ma ho qualche dubbio. Mi sembra difficile che chi non è riuscito a leggere 252 pagine in due mesi, si trasformi improvvisamente in un eccellente studioso di Pindaro o di Dante o di Rilke. Il risultato della GRANDE RIFORMA è che, in cinque anni, si studierà molto meno e peggio che nel vecchio, mediocre ordinamento universitario di quattro anni.
    Intanto, come una pianta tropicale malefica, la GRANDE RIFORMA estende dappertutto le sue ramificazioni; e fra poco, ce la troveremo in casa, tra le pentole, le stoviglie e i bicchieri. Le diverse università si fanno concorrenza fra loro, per attirare un numero maggiore di studenti, e per riuscirci abbassano sempre più severità degli studi. All'interno di ogni università, il professore di letteratura francese, a caccia di allievi, fa concorrenza a quello di letteratura tedesca, di letteratura inglese, o di storia della filosofia - e il modo migliore, naturalmente, è quello di far leggere soltanto sessanta pagine di Racine e trenta di Molière e dodici versi di Baudelaire, mentre l'ingenuo germanista pretende almeno la lettura integrale delle Affinità elettive (p. 290).
    Il caos, le pretese, la megalomania, le ostentazioni, l'invidia hanno raggiunto il diapason; e i professori trascorrono pomeriggi interi (come accade anche nelle scuole medie) in riunioni, discussioni e litigi interminabili. Una volta, i volumi delle collane di cultura venivano saggiamente adottati: era bello che uno studente conoscesse Curtius o Praz o Duby o Mazzarino, o addirittura Gibbon; ma ora questi classici sono stati sostituiti da librettini che in sessanta pagine spiegano Dante o le Crociate. Tutto ciò contribuisce, come l'onorevole Berlinguer non immagina, alla rapida distruzione dell'editoria di cultura, che qualsiasi governo italiano pretende di amare e proteggere con tutto il cuore. E, infine, come Claudio Magris, i professori fuggono. Non c'è alcuna ragione di restare in un'Università dove l'insegnamento è quasi impossibile. Molto meglio andare in pensione: o scrivere articoli sui giornali, dove non c'è la tre più due; o insegnare negli Stati Uniti, dove ogni professore ha la chiave della biblioteca e può entrarvi alle sette di mattina o alle due di notte, togliendo amorosamente i libri dagli scaffali con le proprie mani e studiando quello che vuole, quando vuole, come vuole, mentre nel campus illuminato dalla luna i galli neri e bianchi si inseguono con frenesia.

    * * *


    Non contenta delle imprese distruttive del suo predecessore, Letizia Moratti sta preparando progetti forse ancora più spettacolari. Mi duole di non poter essere preciso: perché, nell'argomento dell'Università, nulla è sicuro: tutto oscilla, vaga, si contraddice, con la consistenza delle nuvole rosee e grigie nel cielo tempestoso di aprile. Quello che dico oggi, domani non è più vero. Il ministro non sa quello che prepara il suo ufficio studi. Gli psicologi sabotano i pedagoghi. La Camera ignora quello che sta legiferando il Senato. Berlusconi ignora quello che pensa Tremonti: e tanto più Prodi che, nei suoi viaggi incessanti tra Bruxelles e Roma, medita certamente una nuova, grandiosa GRANDE RIFORMA, che comprenderà in sé tutte le riforme passate e future, tutte le riforme possibili e inverosimili, tentate in ogni paese del mondo. Mi limito a indicare non so se due progetti di leggi o due voci. La prima è che, da qualche parte, in un oscuro armadio barocco della Camera o del Senato, giace un progetto secondo il quale al 3 + 2 si sostituirà (o si congiungerà) l' 1 +4. Tutte le facoltà avranno un anno di corsi comuni - sociologi dei buchi neri, scienza azteca, letteratura khmer, ermeneutica della televisione, psicologia della settima età, propedeutica al sesso orale, Che Guevara e il mito classico, arte e tecnica del terrorismo, Bush e Bin Laden, metafisica di Umberto Bossi -; dopo il quale gli studenti decideranno quale facoltà scegliere. La seconda è che la laurea breve (tre anni) condurrà a due anni abilitanti: in questi due anni, non si insegnerà niente. Si insegnerà a insegnare. Alcune migliaia di pedagoghi, psicologi, teorici dell'età evolutiva, apprenderanno agli allievi le arti, i trucchi, i vezzi dell'educazione.
    Dopo questi due anni, gli studenti della laurea breve, senza sapere niente e aver letto pochissime fotocopie, andranno ad insegnare nelle medie e nei licei italiani; e così via, all'infinito, secondo un processo di decadenza che non avrà più fine. Più preoccupante è l'ipotesi che riguarda gli studenti della laurea specialistica: perché dopo tre anni di laurea breve, due anni di laurea specialistica, dovranno (forse) affrontare altri due anni abilitanti. Totale: sette anni di studi quasi completamente vani.
    Non vorrei accusare soltanto Luigi Berlinguer e Letizia Moratti. Sebbene siano nulli, sono (in parte) innocenti. Tutte queste demenze universitarie dipendono anche dagli ultimi trenta (o quaranta) anni di folle benessere e folle stupidità europea e americana. Andiamo alle Seychelles, alle Maldive, a Samoa, in Antartide, passiamo il fine settimana nella seconda, quarta o quinta casa, assistiamo alle trasmissioni in cui dodici genii discutono di cose che ignorano completamente, o otto uomini politici cercano di sedurre gli elettori con programmi che farebbero bene a nascondere. Tutti credono che la democrazia sia l'immensa facilità ! I bambini non debbono stancarsi: gli studenti universitari non debbono leggere - e mai, mai, mai, cose difficili. Proibiti, Platone, Plotino, i Vangeli, san Paolo, Pascal, Dostoevskij, Proust, Musil. Proibito camminare a piedi. Proibito nuotare. Proibito guardare il mondo senza macchine fotografiche o cineprese.
    Come ha scritto giorni fa Federico Rampini in un bell'articolo su Repubblica, i cinesi e gli indiani la pensano diversamente. Studiano cose difficilissime: fanno ricerche, moltiplicano i brevetti. Gli americani (che sono, malgrado la nostra infantile supponenza, molto meno sciocchi di noi), sono preoccupati. Mentre le fabbriche e i lavori più elementari si spostano in Oriente, l'unico strumento dell'Europa è l'estrema esattezza e precisione della mente (spero anche dell'anima). Le lauree brevi, i corsi abilitanti, la facilità generale distruggono la poca precisione rimasta. Se le riforme Berlinguer e Moratti non troveranno ostacoli, fra qualche anno non i cinesi e gli indiani ma gli abitanti del Gabon e della Nigeria insegneranno storia antica, letteratura francese e tedesca nelle nostre Università: lingua e letteratura italiana ai licei. A me piacerebbe moltissimo: ma non so cosa ne pensino gli attuali studenti di lettere. Intanto, cogli occhi spalancati sul televisore, gli italiani continueranno a fantasticare se Prodi sia meglio di Berlusconi, o Berlusconi di Prodi.

    ________________________________________ _________________________

    Da Repubblica, 23 maggio 2006

    Dalla riforma Berlinguer alle iniziative della Moratti
    Distrutta ogni probabilità che l'Italia formi un'élite moderna
    Finanziamenti, crediti, laurea breve: perché i nostri Atenei sono al collasso

    di PIETRO CITATI


    Negli ultimi sessanta anni, in Italia, sono accadute molte catastrofi: alluvioni, terremoti, inondazioni. Ma la catastrofe di gran lunga più grave è stata la cosiddetta Riforma Berlinguer, immaginata otto anni fa dal governo presieduto da Romano Prodi. Gli italiani, che hanno la memoria brevissima, se ne sono dimenticati: ma gli studenti, i professori, il paese ne subiscono il terribile effetto, che andrà moltiplicandosi nei prossimi anni. Mi riferisco alle facoltà di tipo umanistico: non a quelle a carattere sopratutto tecnico.
    La Riforma Berlinguer ha distrutto e sta continuando a distruggere la probabilità che in Italia si formi quella che chiamiamo un'élite moderna. Non voglio ripetere cose notissime: ma senza un'élite colta e intelligente un paese non vive, non si sviluppa, non si arricchisce.

    Senza un'élite, un paese è votato alla rovina: specialmente nei nostri anni, quando l'attività industriale si è in buona parte trasferita in Cina o in India, dove si sta diffondendo una cultura specializzata già superiore, per certi versi, a quella italiana. Ma all'onorevole Berlinguer, circondato dal suo radiosissimo alone di gloria, non importa nulla della nostra classe dirigente.
    La catastrofe si preparava da anni. Ricordo un mediocre studioso di diritto romano lamentarsi dolorosamente, in qualche raduno televisivo, della mortalità universitaria. Non riuscivo a capire. Pensai che la Peste, o il Colera, o il Tifo, o l'Aids, o Ebola, avessero spopolato i folti banchi della Sapienza. Lo specialista di diritto romano rassicurò il pubblico: no, Ebola non era arrivato fin qui. Il danno era molto più grave. Gli studenti universitari non terminavano le facoltà che avevano iniziato: innumerevoli fuori-corso languivano nei tristi corridoi delle università italiane. Il professore sbagliava. Che soltanto il venti o il trenta per cento degli studenti di lettere giungessero alla laurea era un fatto positivo. Se si fossero laureati tutti, l'Italia avrebbe conosciuto una disastrosa disoccupazione scolastica. Così, invece, decine di migliaia di giovani ritornavano a Barletta o a Fabriano o a Alba o a Sanremo: vi aprivano un negozio di verdure o di formaggi o di tartufi o una piantagione di garofani, e trascorrevano volentieri il resto della vita, con nella memoria un vago ricordo di Omero, di Saffo e di Erodoto.

    Mi chiedo se, alcuni anni dopo l'applicazione della Riforma Berlinguer, si possa fare qualcosa per diminuirne le conseguenze negative. Il primo fatto, generalmente riconosciuto, è che il corso minor di tre anni non serve a niente: dopo tre anni, lo studente non sa quasi nulla: non può insegnare nelle medie e nei licei; non gli resta (se ha imparato una lingua) che fare la guida turistica o lavorare in un'agenzia di viaggi, eventualmente aggiungendo ai tre anni universitari un master privato inutile e costoso.

    Intanto, il complicato meccanismo di crediti e moduli, che regge l'insegnamento secondo il modello americano, ha dimostrato la propria inefficienza. Gli esami si sono triplicati: il lavoro dello studente è aumentato; salvo che egli impara pochissimo, perché non si può insegnare qualcosa di decoroso su Shakespeare o Petrarca nel corso di poche settimane. Non è possibile che La Sapienza di Roma stabilisca che, durante un modulo, uno studente non debba leggere più di 200 pagine (testi compresi), per evitare che le sue energie psico-cerebrali e quelle dei genitori e della fidanzata vengano irreparabilmente logorate ed esaurite. Il sistema dei moduli va limitato o reimmesso nel vecchio equilibrio degli esami annuali, che era molto più efficace. Forse andrebbe ricordato che l'uggioso edificio universitario, con le grandi aule squallide, i melanconici corridoi, le scale sbrecciate, ha un solo aspetto positivo: che vi si studi.

    Dopo i tre anni di insegnamento minore, gli studenti dovrebbero affrontare i due anni di insegnamento specialistico: dico dovrebbero, perché coloro che li hanno abbracciati sono, per ora, pochi. Dopo i due anni di specialistica, può avvenire un concorso. Chi lo vince, diventa dottorando per tre anni, e riceve un piccolo stipendio. Ma dopo i tre due tre = otto anni di studio, la sua carriera è bloccata. Il dottorando è costretto a diventare, attraverso vari gradini, professore universitario. Ma se, all'Università, non ci sono posti liberi? O se egli preferisce insegnare nei licei? Questo gli è severamente proibito: i dottorandi, vale a dire i più colti e intelligenti tra gli studenti italiani, non devono insegnare nei licei, che pure avrebbero bisogno di loro.

    C'è soltanto una possibilità. Seguire altri due anni di corsi di didattica: cosa assolutamente idiota, perché per imparare a insegnare basta un corso di due mesi, congiunto con la disposizione naturale per l'insegnamento, senza la quale nessuno diventerà mai professore. Non voglio nascondere che questo è un discorso puramente fantastico, perché per il dottorando non esistono, oggi, né posti nell'università né nei licei. Egli non troverà lavoro. Non farà niente. A meno che una vasta moria (la quale pare prevista dal nostro profetico Ministero) renda libere migliaia di cattedre.

    Mi piacerebbe raccontare quali nuove cattedre l'onorevole Berlinguer e i successori e i funzionari ministeriali e i rettori di università e i presidi di facoltà e i direttori di dipartimento hanno inventato. Sappiamo che nelle università americane c'è la cattedra di gelato artigianale, di cappellini per signore, di jeans per ragazzi e ragazze, di sandali per i tropici, di computer applicati all'analisi letteraria, di retto uso dei pannolini, di bella conversazione e di corteggiamento erotico. Va benissimo. Quella non è università. Ma non sarebbe inutile ridurre radicalmente il numero delle cattedre insensate, che oggi vengono aperte nelle università italiane.

    Una recente circolare del Ministro Moratti prescrive che i professori universitari devono fare almeno centoventi ore annue di lezioni frontali. C'è di nuovo, almeno per me, la difficoltà di capire. Cos'è una lezione frontale? Secondo i dizionari, frontale vuol dire: relativo alla fronte come parte anatomica: con la fronte rivolta verso chi osserva: visto di fronte: che avviene nella parte anteriore di uno schieramento militare: sezione realizzata secondo piani perpendicolari all'asse dorso-ventrale: facciata di una chiesa: mensola di un caminetto: piastra di ferro che chiude il fondo di un camino: parte della briglia che passa sulla fronte di un cavallo: antico ornamento femminile (cerchietto o nastro o filo di perle): parte dell'elmo; parte di metallo o di cuoio che copre la fronte del cavallo. Infine, quasi spossato dalla fatica ermeneutica, trovai nel Dizionario della lingua italiana di Tullio De Mauro (Paravia) la spiegazione giusta: frontale è un metodo di insegnamento, nel quale il professore siede in cattedra, di fronte ai suoi allievi. Non amo molto l'insegnamento frontale: può essere agevolmente sostituito dalla lettura di un buon libro.

    La vera lezione, sebbene rivolta a non più di trenta studenti, è il cosiddetto seminario: soltanto nel seminario, compiuto in comune, il professore insegna agli studenti a leggere un testo, cercando insieme a loro le fonti e le allusioni e interpretandone le superfici e i segreti. Ma centoventi ore annuali di insegnamento frontale sono troppe: un vero professore deve leggere e studiare per conto proprio; ciò che esige infinito tempo e pazienza. Un ministro o un funzionario ministeriale o un preside pensano che questo sia inutile. È bene, invece, che un professore passi mattine e pomeriggi espletando del lavoro burocratico completamente assurdo, che il Ministero (visionario come tutti i Ministeri) gli impone.

    Un'altra origine di insensatezza è la distribuzione dei finanziamenti, da parte del Ministero, alle diverse università. I criteri sono molti, e non posso elencarli tutti. Basterà ricordare che la qualità della ricerca è un criterio molto meno importante di criteri esterni, come per esempio il possesso di computer. L'Università Orientale di Napoli è il luogo che, in Italia, dedica più attenzione allo studio delle civiltà orientali. Quale importanza (anche pratica) abbia, oggi, lo studio delle lingue e culture araba e cinese, non è necessario ricordare. Ma l'Università Orientale ha anche una sezione "occidentale": un professore di questa sezione ha da poco espresso la seguente opinione: l'Università deve essere più ancorata ai bisogni del territorio; vale a dire, suppongo, che l'Orientale, invece di studiare il buddismo o il manicheismo, dovrebbe dedicarsi allo studio psico- sociologico della camorra a Caserta e Castellamare di Stabia.

    Come è naturale, gli studenti che imparano la lingua e la letteratura persiana o turca sono meno numerosi di coloro che apprendono la letteratura italiana o inglese. Ma il Ministero provvede. Per il Ministero, non ha alcuna importanza che l'Università Orientale possegga una biblioteca di 200.000 volumi antichi, continuamente aggiornati, e che eccellenti studiosi vengano da Parigi o Tübingen a parlare ai giovani orientalisti. Ciò che è grave è che gli studenti siano relativamente pochi rispetto ai professori. L'Orientale va dunque punita per eccesso di serietà. Infatti, l'anno scorso, il Ministero dell'Istruzione ha tolto quattro milioni di euro al finanziamento dell'Orientale: una catastrofe. Così l'imprecisione, l'inesattezza, la cialtroneria, la demagogia - questo è per molti italiani la cultura moderna - si diffondono. Non saranno né imprecisi né inesatti i cinesi e gli indiani che, un giorno, verranno a colonizzare la cultura universitaria italiana.
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    Accattatevilli. Un paio di cose, da parte mia:
    * Citati qui parla della situazione della Sapienza di Roma, che da questo e altri commenti mi pare essere particolarmente drammatica: non so se i suoi "numeri" siano iperboli ma alla Statale di Milano, per quanto si riscontrino molti dei problemi di cui parla (in primis il casino enorme con orari e organizzazione e il fatto che per approfondire bene le cose non c'è che fare studi extra-curricolari - mentre ti mettono il fuoco al culo per giunta) non si sfiorano neanche tali livelli di pochezza. Le opere complete si fanno, altroché. Magari non in tutti i corsi, ma quelli messi peggio sono sempre evitabili. è pur vero che parlo di Filosofia e non di Lettere, ma anche lì non mi risulta quanto detto.
    * Condivido in toto l'esagerazione assurda sul falso problema dei fuori-corso; aggiungo giusto che, per male che possa andare una carriera universitaria, il solo fatto di spostarsi in un'altra città e di doversi arrangiare è un'irripetibile occasione di crescita. è così negativo?
    * Condivido soprattutto la visione di una "cultura delle coccole"; sembra incredibile come la società italiana sembri diventare "mammona" in ogni sua manifestazione.
    * Nonostante il nome di ministri e politicanti assortiti, meglio sarebbe non farne una discussione politica, visto anche che è fuori area.
    * Magari ci sarebbero altre cose, ma se lo posto qua e non in BS è anche per non sentirmi vincolato al commento. Eccheccazzo.

    Vediamo se riusciamo a mettere in piedi una discussione alla Scanto come si facevano una volta. Orsù.

    (buona notte)

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