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  1. #51
    Emack
    ospite

    Predefinito Re: [archivio al 12/09/2006] Sugli scaffali dello scanto c'è...

    dal topic "Natura vs. Cultura: un'opinione"

    JimmyPage ha scritto sab, 11 marzo 2006 alle 18:38
    IL PUZZLE NATURA-CULTURA
    Quanto una persona sia religiosa, progressista o conservatrice, dotata per le lingue, è parzialmente ereditabile. Eppure anche i geni sono influenzati dall'ambiente. E allora? Sono sufficienti le risposte delle neuroscienze e la ridefinizione di 'ambiente' come 'cultura dei pari?

    di STEVEN PINKER


    [tratto da “Micromega” di settembre-ottobre 2005, pp. 110-126]

    Durante buona parte del XX secolo, una posizione comune in questo dibattito [natura vs. cultura] era quella di negare che la natura umana esistesse affatto [...] La dottrina secondo cui la mente è una tabula rasa non è stata solo una posizione essenziale del behaviorismo in psicologia e del costruzionismo sociale nelle scienze sociali, ma ha avuto anche vasta diffusione nella vita intellettuale più ampiamente condivisa.

    [...]

    Se nulla nella mente è innato, allora le differenze tra le razze, i sessi e le classi non potranno mai essere innate, facendo così ella tabula rasa l'ultimo caposaldo contro il razzismo, il sessismo e i pregiudizi di classe. Inoltre, questa dottrina escludeva la possibilità che caratteristiche ignobili quali l'avidità, i pregiudizi e l'aggressività scaturissero dalla natura umana e quindi offriva speranze di progresso sociale illimitato.

    [...]

    Ma la scienza cognitiva ha dimostrato che devono esserci meccanismi innati complessi che permettono all'apprendimento e alla cultura di essere in primo luogo possibili. La psicologia evoluzionista ha documentato l'esistenza di centinaia di universali che oltrepassano le barrire tra le culture del mondo e ha dimostrato che molti tratti psicologici (quali il nostro amore per i cibi grassi, lo status sociale e le relazioni sessuali rischiose) si adattano meglio alle esigenze evolutive di un ambiente ancestrale che a quelle dell'ambiente attuale. [...] La genetica comportamentista ha dimostrato che il temperamento emerge presto e rimane piuttosto costante per tutto il corso della vita; che buona parte delle varianti tra le persone all'interno di una cultura deriva dalle differenze nei geni e che, in alcuni casi, geni particolari possono essere legati ad aspetti della cognizione, del linguaggio e della personalità. La neuroscienza ha dimostrato che il genoma contiene un ricco corredo di fattori di crescita, molecole guida dell'assone e molecole di adesione cellulare che contribuiscono a strutturare il cervello durante lo sviluppo, oltre ai meccanismi di plasticità che rendono possibile l'apprendimento.

    [...]

    Natura e cultura, naturalmente, non sono alternative. L'apprendimento stesso deve realizzarsi attraverso uno schema di circuiti innato e ciò che è innato non è una serie di rigide istruzioni per il comportamento ma piuttosto programmi che assorbono informazioni dai sensi e danno vita a nuovi pensieri e nuove azioni. […] Inoltre, poiché la mente è un sistema complesso composto da molte parti interagenti, non ha senso chiedersi se gli esseri umani sono egoisti o generosi o cattivi o nobili in senso assoluto. Essi sono piuttosto stimolati da motivazioni contrastanti nate in circostanze diverse. E se i geni influenzano il comportamento, non lo fanno andando a muovere i muscoli, ma mediante gli intricati effetti che esercitano sullo schema di collegamenti di un cervello in crescita.

    […]

    La biologia evoluzionista ci dà ragioni per credere che esistono universali speciespecifici sistematici, modi circoscritti in cui i sessi si differenziano l’uno dall’altro, variazioni quantitative casuali tra gli individui e poche se non alcuna differenza tra razze e gruppi etnici. Questa riformulazione della natura umana ci offre anche un modo razionale di affrontare le paure politiche e morali della stessa. L’eguaglianza politica, per esempio, non si basa su un dogma secondo il quale le persone sono innatamente indistinguibili, ma sull’impegno di trattarle come individui in ambiti quali l’educazione e il sistema di giustizia criminale.

    […]

    Ormai gli scienziati respingono sia la dottrina del XIX secolo secondo la quale la biologia è destino, sia quella del XX secolo per la quale la mente è una tabula rasa. […] Tutto il comportamento è frutto di un’inestricabile interazione tra eredità e ambiente durante o sviluppo, quindi la risposta a tutte le domande su natura-cultura è: «Un po’ di tutte e due». […] Inoltre, la biologia moderna ha reso obsoleta la stessa distinzione tra natura e cultura. Poiché un dato patrimonio di geni può avere effetti diversi in ambiti diversi ci può sempre essere un ambiente in cui un effetto dei geni previsto può invece essere ribaltato o cancellato; quindi i geni non impongono costrizioni significative al comportamento. In effetti, i geni sono espressi in risposta a segnali ambientali, quindi non ha senso cercare di distinguere geni e condizioni ambientali; farlo è solo di ostacolo a una ricerca produttiva. […] Questa dottrina, che chiamerò di interazionismo olistico, ha un fascino considerevole.

    […]

    Il punto non è che sappiamo che l’evoluzione o la genetica sono importanti per spiegare questi fenomeni [relativi al comportamento], ma che la stessa possibilità è spesso trattata come tabù innominabile piuttosto che come un ipotesi sperimentabile. Per ogni domanda su natura e cultura, la risposta esatta è: «Un po’ di tutte e due». Non è vero. Perché la gente in Inghilterra parla inglese e la gente in Giappone parla giapponese? Il «compromesso ragionevole» sarebbe quello di dire che la gente in Inghilterra ha dei geni che rendono loro più semplice imparare l’inglese e che la gente in Giappone ha dei geni che rendono loro più semplice imparare il giapponese, ma che entrambi i gruppi devono avere in primo luogo accesso a una lingua per poterla acquisire. Questo compromesso è, naturalmente, non ragionevole ma falso, poiché vediamo che quando i bambini hanno accesso a una data lingua, la acquisiscono allo stesso modo a prescindere dalla loro origine razziale. Anche se le persone possono essere geneticamente predisposte ad apprendere il linguaggio, non sono geneticamente predisposte, nemmeno in parte, a imparare una lingua particolare; la spiegazione del perché le persone in paesi diversi parlano in modo diverso è al 100 per cento ambientale.
    A volte l’estremo opposto si rivela corretto. Gli psichiatri di solito davano la colpa di una psicopatologia alle madri. L’autismo era provocato da «madri di ghiaccio», che non coinvolgevano i figli dal punto di vista emotivo, e la schizofrenia da madri che sottoponevano i figli a un doppio vincolo. Oggi sappiamo che l’autismo e la schizofrenia sono altamente ereditabili, e anche se non sono completamente determinati dai geni, gli altri fattori plausibili (quali le tossine, gli agenti patogeni e gli incidenti durante lo sviluppo) non hanno nulla a che fare con il modo in cui i genitori trattano i propri figli. Le madri non meritano di vedersi addossata parte della colpa se i loro figli soffrono di questi disturbi, come implicherebbe il compromesso natura-cultura. Non ne meritano alcuna.

    […]

    Questo sembra essere un compromesso interazionista ragionevole che non potrebbe assolutamente generare controversie. Ma in realtà viene da uno dei libri più discussi degli anni Novanta, La Bell Curve di Herrnstein e Murray. Qui, Herrnstein e Murray hanno riassunto il loro argomento secondo il quale la differenza nei punteggi del test sul quoziente di intelligenza tra neri americani e bianchi americani ha cause sia genetiche che ambientali. La loro posizione - «un po’ di tutte e due» - non li ha protetti dalle accuse di razzismo e dai paragoni con i nazisti. Né ha, naturalmente, stabilito che la loro posizione fosse corretta: come per la lingua che una persona parla, il divario medio nel quoziente di intelligenza tra i neri e i bianchi potrebbe essere al 100 per cento ambientale. Il punto è che in questo e in molti altri campi della psicologia, la possibilità che l’ereditarietà abbia un ruolo esplicativo è ancora causa di controversie. L’effetto dei geni dipende in modo cruciale dall’ambiente, quindi l’ereditarietà non impone costrizioni sul comportamento. Vengono di solito usati due esempi per illustrare questo punto: razze diverse di grano possono arrivare ad altezze diverse quando sono irrigate in modo uguale, ma una pianta della razza più alta può crescere di meno se viene privata dell’acqua; e i bambini oligofrenici, un disturbo ereditario che porta al ritardo mentale, possono diventare normali se viene loro somministrata una dieta povera dell’amminoacido fenilalanina.

    […]

    Nello stesso tempo, è fuorviante chiamare in causa la dipendenza dall’ambiente per negare l’importanza di comprendere gli effetti dei geni. Per cominciare, non è semplicemente vero che qualsiasi gene può avere qualsiasi effetto in un ambiente, con l’implicazione che possiamo sempre progettare un ambiente per produrre qualsivoglia risultato riteniamo valido. Anche se alcuni effetti genetici possono essere annullati in alcuni ambienti, non lo sono tutti: gli studi che misurano sia la similarità genetica che quella ambientale (come gli schemi di adozione, dove possono essere paragonate le correlazioni con i genitori adottivi e biologici) mostrano numerosi effetti principali di personalità, intelligenza e comportamento. […] Inoltre, la mera esistenza di un qualche ambiente che possa ribaltare gli effetti previsti dai geni è quasi priva di significato. Solo perché ambienti estremi possono distruggere un tratto non significa che la gamma ordinaria degli ambienti modulerà quella caratteristica, né significa che l’ambiente possa spiegarne la natura. Anche se le piante di granoturco non irrigate possono seccarsi, non cresceranno arbitrariamente alte se verranno loro date sempre maggiori quantità d’acqua. Né la loro dipendenza dall’acqua spiegherà perché genereranno spighe di grano invece di pomodori o pigne. […]

    In breve, l’esistenza di mitigazioni ambientali non rende senza conseguenze di effetti dei geni. Al contrario, i geni specificano quali tipi di manipolazioni ambientali avranno quali tipi di effetti e a quale prezzo. […] Peter Singer osserva che gli esseri umani normali in tutte le società manifestano un senso di compassione: una capacità di trattare gli interessi di altri alla stregua dei propri. Sfortunatamente, le dimensioni della cerchia morale alla quale viene estesa questa compassione sono un parametro a piacere. Per definizione, la gente prova compassione solo per i membri della propria famiglia, del clan o del villaggio, e tratta chiunque si trovi al di fuori di questa cerchia come inumano. Ma in alcune circostanze la cerchia può espandersi ad altri clan, tribù, razze o perfino specie. Un modo importante, allora, di capire il progresso morale è specificare le molle che spingono le persone a espandere o contrarre le loro cerchie morali. […]
    I geni sono influenzati dall’ambiente e l’apprendimento sociale richiede l’espressione di geni, quindi la distinzione natura cultura è priva di significato. È, naturalmente, nella natura dei geni che essi non siano attivi tutto il tempo ma vengano espressi e regolati da una varietà di segnali. Questi segnali possono a loro volta essere innescati da una serie di input, tra i quali la temperatura, gli ormoni, l’ambiente molecolare e l’attività neurale. Tra gli effetti di espressione genica ambientalmente sensibili ci sono quelli che rendono possibile l’apprendimento stesso. Abilità e ricordi sono immagazzinati alla sinapsi come mutamenti fisici e questi cambiamenti richiedono l’espressione di geni in riposta a schemi di attività neurale[/i].
    Queste catene causali non rendono, a ogni modo, obsoleta la distinzione natura-cultura. Ciò che fanno è costringerci a ripensare la superficiali equazione di «natura» uguale geni e di «cultura» uguale tutto anziché geni. I biologi hanno notato che la parola «gene» ha accumulato parecchi significati nel corso del XX secolo. Tra questi, un’unità di eredità, una specificazione di una parte, la causa di una malattia, un modello di sintesi proteica, un fattore di sviluppo e un obiettivo della selezione naturale.
    È fuorviante, quindi, identificare il concetto prescientifico della natura umana con «i geni» e considerare chiuso l’argomento, con l’implicazione che l’attività genetica dipendente dall’ambiente prova che la natura umana è indefinitamente modificabile per esperienza. La natura umana è legata ai geni in termini di unità ereditarie, di sviluppo e di evoluzione, in particolare quelle unità che esercitano un effetto sistematico e durevole sui collegamenti e la chimica del cervello. Tutto ciò è distinto dal più comune uso del termine «gene» nella biologia molecolare, vale a dire in riferimento a eliche di dna che codificano una proteina. Alcuni aspetti della natura umana possono essere specificati all’interno di portatori di informazioni diversi dai modelli proteici, tra cui il citoplasma, regioni non codificanti del genoma che influenzano l’espressione genetica, proprietà dei geni a parte la loro sequenza (per esempio il loro imprinting), e aspetti dell’ambiente materno coerenti dal punto di vista transgenerazionale che il genoma si aspetta, perché è stato modellato in tal senso dalla selezione naturale. Di contro, molti geni dirigono la sintesi di proteine necessaria per la quotidiana funzione metabolica (come la cicatrizzazione delle ferite, la digestione e la formazione dei ricordi) senza incarnare il concetto di natura umana.
    Anche i vari concetti di «ambiente» devono essere ridefiniti. Nella maggior parte dei dibattiti su natura-cultura, la parola «ambiente» si riferisce in pratica ad aspetti del mondo che costituiscano l’input percettivo verso la persona e sul quale altri esseri umani hanno un certo controllo. Esso comprende, per esempio, i riconoscimenti e le punizioni che vengono dai genitori, l’arricchimento precoce, i modelli di ruolo, l’educazione, le leggi, l’influenza dei pari, la cultura e i comportamenti sociali. È fuorviante confondere l’«ambiente», nel senso dell’ambiente psicologicamente rilevante, con l’«ambiente» nel senso di ambito chimico di un cromosoma o di una cellula, specialmente quando quell’ambito stesso consiste nei prodotti di altri geni e quindi corrisponde più strettamente al concetto tradizionale di eredità. Ci sono ancora altri sensi di «ambiente», quali le tossine nutritive e ambientali. Il punto non è che un senso sia quello principale, ma che si dovrebbe cercare di distinguere ognuno dei sensi e di caratterizzarne precisamente gli effetti.

    […]

    Molti aspetti dell’ambiente, per esempio quelli che influenzano direttamente i geni piuttosto che influenzare il cervello attraverso i sensi, provocano contingenze del tipo «se… allora…» geneticamente specificate che non conservano le informazioni nella causa immediata stessa. Tali contingenze sono molto diffuse nello sviluppo biologico, dove molti geni producono molti fattori di trascrizione e altre molecole che danno il via a successioni di espressione di altri geni. Un buon esempio è il gene PAX6, che produce una proteina che dà l’avvio all’espressione di 2.500 altri geni, che danno come risultato la formazione dell’occhio. Risposte genetiche altamente specifiche possono anche verificarsi quando l’organismo interagisce con il suo ambiente sociale, come quando un cambiamento di status sociale in un pesce ciclide maschio dà l’avvio all’espressione di più di 50 geni, che a loro volta alterano le sue dimensioni, la sua aggressività e la risposta allo stress. Tutto ciò ci ricorda sia che l’organizzazione innata non può essere identificata con una mancanza di sensibilità nei confronti dell’ambiente sia che le risposte all’ambiente sono spesso non specificate dallo stimolo ma dalla natura dell’organismo.

    […]

    I genetisti comportamentismi hanno posto rimedio a tali mancanze con studi su gemelli e figli adottivi, e hanno scoperto che, in effetti, praticamente tutti i tratti comportamentali sono in parte (anche se mai completamente) ereditabili. Vale a dire che alcune variazioni tra individui all’interno di una cultura devono essere attribuite a differenze nei loro geni. La conclusione deriva da ripetute scoperte che dimostrano come gemelli identici allevati lontani l’uno dall’altro (condividendo i geni ma non l’ambiente familiare) sono molto simili; che gemelli identici ordinari (che condividono l’ambiente e tutto il corredo genetico) sono più simili dei gemelli fraterni (che condividono l’ambiente ma solo la metà dei geni variabili); e che i fratelli biologici (che condividono l’ambiente e metà dei geni variabili) sono più simili dei fratelli adottivi (che condividono l’ambiente ma nessuno dei geni variabili). […] Naturalmente, tratti comportamentali concreti che dipendono palesemente da un contenuto fornito dalla famiglia o dalla cultura – la lingua, la religione, il partito – non sono assolutamente ereditabili. Ma i tratti che riflettono talenti e temperamenti fondamentali – quanto una persona sia brava a parlare una lingua, quanto sia religiosa, progressista o conservatrice – sono parzialmente ereditabili. Perciò i geni hanno un ruolo nel rendere le persone differenti dai propri vicini e i loro ambienti giocano un ruolo ugualmente importante.
    A questo punto si è tentati di concludere che le persone sono modellate sia dai geni che dall’educazione familiare: da come sono state trattate dai genitori e in che tipo di famiglia sono cresciute. Ma la conclusione è ingiustificata. La genetica comportamentista ci permette di distinguere due modi molti diversi attraverso i quali gli ambienti in cui vivono le persone potrebbero influenzarle. L’ambiente condiviso è quello che influisce su una persona e ugualmente sui suoi fratelli: i genitori, la vita familiare e i vicini. L’ambiente unico (non condiviso) è tutto il resto: qualsiasi cosa accada a una persona che non succeda necessariamente ai fratelli di quella persona.
    È notevole che la maggior parte degli studi sull’intelligenza, la personalità e il comportamento rivelino pochi, se non alcun effetto da parte dell’ambiente condiviso – spesso con sorpresa degli stessi ricercatori, che pensavano fosse ovvio che la variazione non genetica dovesse venire dalla famiglia.

    […]

    La scoperta che l’ambiente familiare condiviso ha poco o nessun effetto durevole sulla personalità e l’intelligenza è scioccante per l’opinione tradizionale secondo la quale l’educazione modella la personalità stessa. Getta dei dubbi su forme di psicoterapia che cercano nell’ambiente familiare le radici di una disfunzione in un adulto, sulle teorie che attribuiscono l’alcolismo, il fumo e la delinquenza nei giovani a come questi sono stati trattati nella prima infanzia e sulla filosofia degli esperti di educazione secondo la quale la microgestione parentale è la chiave di un figlio ben inserito. Le scoperte sono talmente controintuitive che si potrebbe dubitare della ricerca genetica comportamentista che vi ci ha condotto se non fossero corroborate da altri dati.
    I figli di immigrati finiscono con l’adottare la lingua, accento e costumi dei loro pari, non dei loro genitori. Grandi differenze nelle pratiche di allevamento dei bambini – madri che si affidano a babysitter contro madri che rimangono a casa, singola babysitter contro molteplici, genitori dello stesso sesso contro genitori di sesso diverso – hanno scarso effetto duraturo quando altre variabili sono controllate. L’ordine di nascita e la condizione di figli unici hanno scarsi effetti sul comportamento fuori di casa. E un ampio studio teso a valutare la possibilità che i figli possano essere modellati da aspetti unici nel trattamento da parte dei genitori (in contrasto con modalità in cui i genitori trattano tutti i figli allo stesso modo) ha dimostrato che le differenze di educazione all’interno di una famiglia sono effetti, non cause delle differenze tra i figli.

    […]

    Lo sviluppo della personalità – le idiosincrasie emotive e comportamentali di una persona – pone una serie di interrogativi distinti da quelli sollevati dal processo di socializzazione. I gemelli identici che crescono nella stessa casa condividono geni, genitori, fratelli, gruppo di pari e cultura. Anche se sono molto simili, sono lungi dall’essere indistinguibili: secondo la maggior parte dei test, le correlazioni tra i loro tratti caratteriali sono nell’ordine dello 0,5. L’influenza dei pari non può spiegare le differenze, perché i gemelli identici hanno quasi sempre in comune i gruppi di pari. Invece, l’inspiegata variazione nella personalità getta una luce sul ruolo della mera casualità nello sviluppo: differenze casuali nella fornitura di sangue prenatale ed esposizione a tossine, agenti patogeni, ormoni e anticorpi; differenze casuali nella crescita o nell’adesione di assoni nel cervello in sviluppo; eventi casuali nell’esperienza; differenze casuali nel modo in cui un cervello stocasticamente funzionante reagisce agli stessi eventi dell’esperienza. Sia le spiegazioni del comportamento popolari che quelle scientifiche abituate a chiamare in causa i geni, i genitori e la società, raramente riconoscono l’enorme ruolo che fattori imprevedibili devono giocare nello sviluppo di un individuo.

    […]

    Lo sviluppo degli organismi deve utilizzare complessi «circoli di retroazioni» piuttosto che schemi prespecificati. Eventi casuali possono alterare le traiettorie di crescita, ma le traiettorie stesse sono confinate all’interno di un ambito di schemi funzionanti per la specie. Queste profonde questioni non riguardano il problema natura contro cultura. Riguardano la cultura contro la natura: riguardano quali siano, precisamente, le cause non genetiche della personalità e dell’intelligenza.

    […]

    Il cervello è stato definito l’oggetto più complesso dell’universo conosciuto. Senza dubbio le ipotesi che contrappongono natura a cultura facendone una dicotomia o che mettono in relazione geni o ambiente con il comportamento senza guardare all’intervento del cervello si riveleranno semplicistiche o sbagliate. Ma quella complessità non significa che si debbano confondere le questioni dicendo che è tutto troppo complicato da pensare o che alcune ipotesi dovrebbero essere trattate a priori come ovviamente vere, ovviamente false o troppo pericolose per farne parola. Come per l’inflazione, il cancro o l’effetto serra, non abbiamo altra scelta che cercare di districare le molteplici cause.
    ----------------------------------

    chiedo scusa per avere deturpato e decurtato l'articolo, ma ho dovuto copiarlo manualmente dalla fonte;
    ritengo tuttavia di aver riportato tutti i passi salienti, abbastanza per poter afferrare il senso e i risultati del pezzo




  2. #52
    Emack
    ospite

    Predefinito Re: [archivio al 12/09/2006] Sugli scaffali dello scanto c'è...

    dal topic "Epizoo"

    Emack ha scritto mar, 13 dicembre 2005 alle 22:13

    Un epizoo è un "organismo che vive su un animale senza esserne parassita" (cit. dizionario De Mauro, Paravia). Epizoo è anche il nome di un esoscheletro indossato dallo spagnolo Marcel.lì Antunez Roca in una performance del 1994. L'apparecchio consiste in una serie di dispositivi meccatronici posizionati su zone considerate "erogene" (la bocca, le orecchie, il naso, i pettorali, e i glutei), controllati in remoto tramite un'interfaccia grafica. Roca sale sul palco, e al pubblico viene concessa la possibilità di decidere quale meccanismo azionare semplicemente col tocco di un mouse.
    L'opera potrebbe essere considerata come un sadico gioco erotico impreziosito da un approccio inusuale, ma c'è qualcosa di più. Il potere, tra le mani degli spettatori, è asettico, freddo: ragionando analogicamente, si sposta un cursore, ma in verità si mette in moto uno strumento di piacere e di tortura. In ciò si può scorgere un interessante paradigma della realtà occidentale odierna, in cui il rapporto tra causa ed effetto, per via delle lontananze tra individui solo apparentemente interagenti, risulta talmente indiretto e arzigogolato (non lineare) da divenire indeterminabile.
    Nel mondo globalizzato il nostro intorno di esistenza è assai minore (locale) rispetto alle ragioni e alle conseguenze del nostro vivere (globale): indossiamo scarpe fabbricate in Taiwan, incoraggiando lo sfruttamento di lavoratori privi di tutele sindacali; ci dichiariamo a favore di una guerra a migliaia di chilometri di distanza, ignorando cosa significhi dormire cullati dalle bombe; esprimiamo i nostri pareri su forum pubblici, esponendoci a confronti più o meno maieutici per gli interlocutori. A ben pensarci, non è un fatto inedito: lo sono invece le modalità. Entra in campo l'artificio, il costrutto tecnologico, che aumenta la portata delle nostre azioni e nel contempo le rende meno esplicite mano a mano che ci si allontana dalla sorgente.

  3. #53
    Emack
    ospite

    Predefinito Re: [archivio al 12/09/2006] Sugli scaffali dello scanto c'è...

    dal topic "Forme di comunicazione"

    gangio ha scritto lun, 22 agosto 2005 alle 02:43
    Emack ha scritto sab, 20 agosto 2005 alle 12:41
    gangio ha scritto sab, 20 agosto 2005 alle 01:10
    ci sarebbe da fare un lungo discorso sulla genesi dei simboli, ma non avrò mai la voglia di farlo
    vuoi per caso farti pregare?
    Giammai! è che è veramente un argomento vastissimo e complicatissimo, nonché pieno di trabocchetti logici, linguistici e di prospettiva
    ah, se solo avessi l'adsl....

    beh, proviamo ad avanzare a piccoli passi

    è chiaro che anche la cosidetta parola scritta non è altro che una serie di immagini trasformate in simboli attraverso una convenzione, un accordo che in principio non può non essere stato fonetico
    e qui già si pone una colossale questione di confini tra l'insieme delle immagini e quello dei simboli, due famiglie da sempre molto litigiose

    qualcuno ha pensato d'aver risolto la questione dipingendo una pipa e didascalizzandola con una smentita sulle deduzioni dei passanti riguardo alle reali intenzioni del pittore
    ma è veramente così? è sufficiente affermare l'ovvio per tracciare un confine netto tra realtà e rappresentazione della realtà?

    proviamo a fare la stessa operazione non con un oggetto, ma bensì con un simbolo

    A


    "nota: questa qui sopra non è una A, è solo un'immagine approssimata della vera A che giace sotto forma di simbolo nella mia mente"

    Poiché tutte le A che giacciono nelle nostre menti differiscono per pochi irrilevanti particolari, quasi tutti riconosciamo nella rappresentazione della A qualcosa di famigliare e riusciamo a collegarla con le altre rappresentazioni, arrivando qualche volta ad intuire cosa ha tentato di comunicarci un'entità spesso non dissimile da come pensiamo di essere.

    Quindi tutto ciò che ha residenza fuori dalla nostra mente è una rappresentazione? Si potrebbe affermare l'esatto contrario e nessuno potrebbe smentirlo categoricamente.
    Si supera l'empasse attribuendo al termine realtà un significato totalizzante, che comprenda sia l'Io, sia l'immagine che l'Io ha di tutto ciò che non riconosce come se stesso per il principio di identità. Alcune filosofie estremizzano il passaggio identificando l'Io con il Tutto, altre negano l'esistenza dell'Io perché non ha senso distinguere una parte dalla totalità se questa non differisce dal Tutto per qualche ragione sostanziale (il primo atteggiamento viene spesso definito idealismo assoluto, il secondo materialismo assoluto).
    Entrambe le posizioni sono dimostrabili logicamente, entrambe devono passare per la negazione del libero arbitrio.
    E qui casca l'asino! Tutte le discussioni, da quelle da bar sport a quelle dei salotti buoni, potenzialmente arrivano a questo punto di discontinuità. Esiste o non esiste?
    Ma soprattutto, cosa c'entra con la preponderanza dell'aspetto visivo che molti di noi avvertono come un fatto indiscutibile, di cui si vorrebbe capire il motivo?
    A parte il fatto che il libero arbitrio necessità dell'equilibrio tra i due estremi, c'entra nella misura in cui siamo in grado o non siamo in grado di stabilire se la funzione di un oggetto può essere disgiunta dalla sua rappresentazione.
    Questo è abbastanza facile nel caso di una pipa: una pipa vera posso usarla per fumare, mentre la sua rappresentazione no. Nonostante vi sia una sostanziale differenza materica tra i due oggetti, potrei arrotolare la tela su cui è stata dipinta ed usarla per farmi un mega-cannone, basta un po' di fantasia per avvicinare di molto le due funzioni. Mettiamo però che la pipa sia dipinta in forma digitale, ecco che già la distanza aumenta tanto da apparire incolmabile. Perché? Perché la forma digitale è più effimera, meno sensoriale, perché - guarda caso - soprattutto visiva. Lo stesso vale per la scrittura. La funzione della A è distinguibile dalla sua rappresentazione? Sembrerebbero coincidere, poiché la lettera può funzionare solo se rappresentata. Questa potrebbe essere una buona definizione di simbolo, ma non ci dice nulla sul perché la forma visiva ha finito per prevalere sulle altre. In fin dei conti, l'uomo è sopravissuto per un bel po' di millenni senza simboli, la trasmissione d'informazioni in forma orale sembrava funzionare egregiamente. Le ragioni storiche per cui è stata evoluta una forma visiva di comunicazione sono note ed evidenti. Ma perché è andata proprio così? Non avrebbe potuto svilupparsi una forma di trasmissione di tipo tattile? Ci si sarebbe toccati e le informazioni sarebbero fluite sotto forma di composti chimici. Forse è la necessità del superamento delle grandi distanze che ha privilegiato la forma visiva. Distanze spazio-temporali colmabili però anche dalla forma fonetica. Allora si deve aggiungere la necessità di vedere il nemico od una preda, quando è evidente che è molto più difficile udirli. Ma anche questa sembra una risposta parziale ed un po' tautologica. Forse c'entrano le dimensioni dell'universo. In un universo quadridimensionale determinato dalla finitezza della velocità della luce è logico che le forme di vita che lo abitano tendano ad assomigliare al contenitore? Insomma, l'uomo potrebbe essere scambiato più per una metonimia che per una sineddoche. L'uomo come entità sensoriale è destinato ad evolversi in un'entità a-sensoriale. L'abbandono delle forme sensoriali più "materiali" sarebbe quindi un passagio evolutivo obbligato, dettato dalla natura profonda dell'universo che ci ha generati. Cenere alla cenere...
    Kanjar ha scritto sab, 27 agosto 2005 alle 03:22
    Comunicare equivale a scambiarsi delle informazioni.
    Ci devono essere un soggetto che invia, uno che recepisce, un canale comunicativo e direi anche un codice comune, altrimenti non abbiamo una comunicazione, giusto?

    Dunque comunicando ci scambiamo informazioni: possiamo farlo per via ormonale ed inconscia, nel caso di una femmina che emana odori che attraggono il maschio: abbiamo i due soggetti, il canale di comunicazione è olfattivo, il codice è condiviso da entrambi per quanto non compreso, perché è inconscio.

    Possiamo scambiarci dei dati riguardo la caccia dell'altra sera: siamo seduti di fronte al fuoco e gesticoliamo ampliamente per descrivere le scene, gli oggetti, le azioni; contemporaneamente usiamo dei suoni semplici ai quali abbiamo precedentemente attribuito dei significati comuni. I soggetti ci sono, il canale è sia visivo che uditivo, il codice (per quanto rozzo) è comune ad entrambi e poco compreso, molto poco.

    Possiamo scambiarci delle opinioni riguardanti la vita di coppia rispetto all'ascesi mistico-religiosa: avremo bisogno di un codice molto elaborato, nel nostro caso si tratterà di un linguaggio scritto od orale formato da fonemi poi divenuti grafemi oppure pittogrammi; ogni singolo fonema individua la minima unità di suono distinguibile, ogni parola è formata da più fonemi, ogni frase è formata da più parole. Anche in questo tipo di comunicazione un codice comune, ma la comprensione non è impeccabile: ogni vocabolo può avere diverse sfumature ed il suo inserimento entro una proposizione complessa lo rende ben più ambiguo. Dunque la comprensione non è totale, anzi è spesso molto conflittuale.

    Possiamo utilizzare anche una comunicazione audio-visiva complessa, facente uso di parole, musica, immagini in movimento (non necessariamente rifacentesi alla realtà): il codice in questo caso non sarà del tutto comune, in quanto ancora non ne esiste uno (al di là della teoria cinematografica) ma si può provare con questo metodo a spiegare cose, emozioni, sensazioni, stati d'animo che normalmente sarebbe ben più difficile esplicare.




    Quanto al tema iniziale del Thread: credo sia molto difficile stabilire se siano più importanti le immagini per un mero motivo culturale (riguardante il succitato "homo videns" moderno) o per un motivo strutturale, cerebrale, riguardante l'homo sapiens in generale. Io propendo più per la seconda ma credo anche che i fattori culturali influiscano molto.

  4. #54
    Emack
    ospite

    Predefinito Re: [archivio al 12/09/2006] Sugli scaffali dello scanto c'è...

    dal topic "La danza del sole e il dolore"

    Ph@ntom ha scritto sab, 20 agosto 2005 alle 16:12
    George Catlin descrive così una Danza del Sole che dipinse: "Salii verso una rupe scoscesa dove c'erano una ventina di casupole di pellerossa. Là vivevano gli affiliati al gruppo "Tiny-tato-ah". Il guerriero destinato ad agire come personaggio centrale della danza non aveva addosso abiti, all'infuori dei calzoni. Nei muscoli del petto gli erano stati conficcati grossi spilli di legno, assicurati a corde che pendevano da un alto palo.

    Il giovane guerriero doveva lasciarsi andare all'indietro con tutto il peso del corpo.
    Il palo, che era flessibile, cedeva e assecondava il movimento in modo che il torturato rimaneva con il corpo piegato ad arco verso terra.
    Il giovane indiano impugnava con la sinistra l'arco preferito, mentre la sua destra stringeva disperatamente il sacchetto della medicina. Il sangue sgorgava dalle ferite e si mescolava con l'ocra con cui il guerriero, prima della cerimonia, si era spalmato il corpo.
    Gli stavano attorno tutti i membri della tribù mentre egli, senza degnarli di uno sguardo, fissava il sole. Seduti ai piedi del palo, in cerchio, c'erano gli uomini di medicina.
    Con mazze e bastoni battevano sui tamburi e scuotevano fragorose raganelle intonando contemporaneamente un canto stridulo che doveva incoraggiare il guerriero a resistere, e a non distogliere lo sguardo dal sole, dal mattino fino all'ultima ora del tramonto.
    Se il guerriero sottoposto alle torture le avesse sopportate fino all'ultimo, se cuore e fisico avessero resistito agli atroci dolori e ai tormenti. allora i lacci venivano sciolti.
    Il torturato riceveva doni, onoranze e l'applauso della tribù, e anche un nuovo nome scelto fra quelli degli stregoni.
    Se invece falliva la prova, se crollava prima del tempo sotto l'assalto del dolore, la sua fama di valoroso guerriero era distrutta e la tribù lo radiava con disprezzo."
    ---------------------------------------- -------


    Questo sopra è un rituale Lakota, un popolo nativo americano.
    Cosa rappresenta, il dolore, per voi?

  5. #55
    Emack
    ospite

    Predefinito Re: [archivio al 12/09/2006] Sugli scaffali dello scanto c'è...

    scusate, doppio post.

  6. #56
    the_lamb
    ospite

    Predefinito Re: [archivio al 12/09/2006] Sugli scaffali dello scanto c'è...

    Ebbravo Emack!

    Ora, sii ancora più bravo e cancella tutta la roba postata da me eccetto i pezzi di Citati, grazieeee!

  7. #57
    Emack
    ospite

    Predefinito Re: [archivio al 12/09/2006] Sugli scaffali dello scanto c'è...

    the_lamb ha scritto lun, 11 settembre 2006 alle 11:02
    Ebbravo Emack!

    Ora, sii ancora più bravo e cancella tutta la roba postata da me eccetto i pezzi di Citati, grazieeee!
    Sono tra i pochi momenti in cui hai scritto più di tre righe, e mi sono fatto il culo per trovarli. Ergo, non se ne parla

  8. #58
    the_lamb
    ospite

    Predefinito Re: [archivio al 12/09/2006] Sugli scaffali dello scanto c'è...

    Emack ha scritto lun, 11 settembre 2006 alle 20:40
    Sono tra i pochi momenti in cui hai scritto più di tre righe
    Appunto!

    Quote:
    e mi sono fatto il culo per trovarli.
    Azzi tuoi!!

    Quote:
    Ergo, non se ne parla
    Daiiii!

  9. #59
    Emack
    ospite

    Predefinito Riferimento: [archivio al 12/09/2006] Sugli scaffali dello scanto c'è...

    No, non se ne parla proprio.

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