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  1. #1
    Vitor
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    Predefinito Il topic della Rassegna Stampa radical-chic

    In questo post proveremo ad inserire un po' di articoli di approfondimento SERI
    Insomma niente calciomercato.com , ma cose che richiedono un minimo di attenzione.

    Iniziamo da Gianni Mura che intervista Boninsegna

    La foto dai toni seppia fa il giro del tavolo sotto il pergolato, fuori dalla trattoria. E' cominciato tutto lì e non è ancora finito. Gli Invincibili del Sant'Egidio, anno 1957. Due anni (1956/58 ) senza mai perdere una partita e la prima sconfitta arrivata con la monetina del sorteggio. "Io sono il secondo in basso da destra. Un ragnetto", dice Roberto Boninsegna, classe 1943.
    "Tant'è che giocavi mezzala, il bomber ero io", dice Adalberto Scemma, secondo da sinistra in alto, poi diventato giornalista, e pure bravo. "Vero, ma eri tutto velocità, tecnica poca", dice Boninsegna. Ed è curioso sentir parlare di tecnica uno che è passato alla storia (del calcio) come simbolo di forza e coraggio, sturm und drang, un satanasso. Però ne aveva, e tanta, visto che segnava in tutti i modi, quasi sempre di potenza, e da tutte le posizioni. E un po' di merito ce l'ha Massimo Paccini, l'allenatore di allora, in posa sulla destra come un maestro con la scolaresca. "Brava persona, bravo tecnico, ha vinto un titolo nazionale sulla panchina del Guastalla, con Gene Gnocchi in campo, ha curato le giovanili del Mantova. E' morto un mese fa, prima di morire s'è fatto portare sul campo dell'Anconetta, dove giocavamo. Ai funerali c'eravamo tutti noi degli Invincibili".

    Il capitano di quella squadra, Franco Salardi detto Cina, è il titolare della trattoria, adesso sta tornando con una bottiglia di Lambrusco bello scuro e una sleppa di Grana. Boninsegna indica la foto: "Sembriamo più giovani, no? E' perché c'era meno da mangiare. Ecco, questo biondino è Scardeoni detto Nacka, venne con me alle giovanili dell'Inter, poi al Genoa lo allenò Sarosi, ma lui aveva in testa l'arte e adesso fa l'antiquario a Lugano. Pedrazzoli è diventato pittore, ma anche assessore alla cultura. Alfano, direttore dell'Inps. Fornasari funzionario della Belleli che ha ristrutturato San Siro".

    A un certo punto penso che siamo indietro nel tempo, o forse fuori dal tempo. Quando mi ricapiterà di fare un'intervista sotto un pergolato, senza che l'intervistato guardi l'orologio ogni cinque minuti? E con un intervistato che parla senza reticenze? E' qui che capisco quanto forte sia il legame tra compagni di squadra, anche ragazzini, che si separano ma non si perdono. O dovrei dire compagni e basta, compagno centravanti?"Lascia stare, la definizione l'hanno coniata per Sollier. Io non ho mai avuto problemi, nemmeno con Agnelli e Boniperti che certamente non la pensavano allo stesso modo. Non facevo comizi, ma non ho mai nascosto da che parte stavo. E da che parte potevo stare? Mio padre era nel consiglio di fabbrica, alla Burgo. Bastava che facesse un fischio e si fermava il reparto.Aveva perso tre dita sotto una pressa, così in guerra non c'era andato. Ma in fabbrica avevano un bel po' d'armi nascoste. Tutte cose che ho saputo da altri. Era un omone, mio padre. Parlava poco ma lasciava il segno. Mia madre era più estroversa. E tifava Mantova anche con me in pancia. Al cancello dello stadio l'hanno bloccata che era all'ottavo mese, preoccupati. Elsa, non vorrai mica farlo qui? Te sta tranquillo, disse lei mi sono portata appresso la levatrice ".

    Tutto questo in dialetto mantovano, mi spiace non saperlo trascrivere. Avanti. "Non ho mai avuto paura nemmeno da bambino, nemmeno del buio. Non ero mai solo. Vivevamo in due stanze in corso Garibaldi, vicino all'ex macello, dove adesso c'è la biblioteca comunale. E i cosiddetti servizi, fuori in cortile. Vedevo mio padre uscire in bici la mattina presto e rientrare distrutto, e tossire, tossire. La fabbrica ti dava da vivere e ti accorciava la vita. Non usavano le mascherine, un litro di latte gratis al giorno e via andare. E' morto a 61 anni. Fino a che non mi sono sposato tutti i guadagni li davo in casa. Così prima s'è comprato un Vespino, almeno poteva tornare a casa nella pausa e mangiare qualcosa di caldo, poi una macchina. E a mia madre ho preso un negozio di merceria".Alza un braccio: "Vorrei chiarire una cosa. Tutti hanno scritto che festeggerò i 70 passerò in fabbrica. Non è vero. Lo passerò in famiglia, con mia moglie Ilde che ho sposato 45 anni, aggiungine sette di fidanzamento, posso dire che è la donna giusta di tutta una vita. E i miei figli: Gianmarco avvocato, Elisabetta psicologa. E Giovanni, il nipotino. Per questa storia della fabbrica mi hanno cercato anche dei giornali e delle radio di Roma.Ci vado il 5 per appoggiare il presidio dei 180 lavoratori che resistono da febbraio e forse c'è ancora un filo di speranza che le cose si aggiustino. Ma proprio un filo. Nella salamensa della Burgo c'è un grande crocifisso e ai lati due quadri con falce e martello. Ecco, mio padre non mi ha indottrinato né mi ha mai proibito di frequentare i preti. Gli Invincibili era la squadra dell'oratorio. Una volta son tornato a casa e gli ho chiesto: papà, ma è vero che voi mangiate i bambini? E' una balla, ha detto, e può avertela raccontata solo un prete, bisognerà che vada a parlarci. Bene, fermiamoci qui, tanto poi è chiaro che Berlusconi è stato la rovina dell'Italia e che dalla sinistra, con Bertinotti e D'Alema, gli sono arrivati buoni assist".

    Ho una curiosità, dopo tante pagine di taccuino riempite. Nel calcio ci sono biografie di cani e porci. Perché lui no? "Me l'hanno proposto e c'era anche un discreto ingaggio. Ma ho detto no grazie, perché se avessi raccontato tutta la verità avrei sputtanato un sacco di gente e se non l'avessi raccontata mi sarei sputtanato io. Tanto valeva lasciar perdere". Il resto è sintesi.IL CAMBIAMENTO. "Inizio da mezzala, divento seconda punta. E la prima punta, il povero Taccola a Prato, Bercellino a Potenza, è regolarmente capocannoniere del torneo. A Varese segno poco, prima punta è Combin. A Cagliari segno un po' di più, anche se c'è Riva. Un giorno Scopigno mi dice: siamo pochi e gli unici ad avere mercato siete tu e Gigi. Lui non si vuole muovere, e tu? Io qui ci sto benone, ma se mi date via accetto solo l'Inter.Affare fatto. Arrivano in cambio Domenghini, Gori e Poli più ottocento milioni, mica poco. E senza di me il Cagliari vince il suo primo scudetto. Io il primo con l'Inter, l'anno dopo, quando mi ero trasformato in prima punta. Ragionamento: se fare i gol è così importante, tanto vale che li faccia io. Sono diventato più egoista, più cattivo, più finalizzatore. Anche perché, siamo onesti, con intorno gente come Suarez, Corso e Mazzola era una pacchia".GLI AVVERSARI: "Il più bravo e corretto di tutti, Guarneri. I più rognosi, nell'ordine: Spanio, Rosato, Galdiolo, Morini. Di quelli che ho incontrato, troppo facile dire Pelé o Gerson, Rivelino o Jairzinho. Sto in Europa: Overath in cima, poi alla pari Beckenbauer e Crujiff. Ricordo che non c'erano tante moviole e tante regole: il fallo da ultimo uomo, per esempio. E avevi difese a uomo, stopper più libero. Prima era il difensore a stare attaccato all'attaccante, adesso con le difese in linea l'attaccante furbo va a farsi marcare dal difensore più scarso".

    GLI ALLENATORI: "Se oggi uno come Guardiola mi dicesse che il suo centravanti è lo spazio io gli direi: no, il centravanti sono io, e cambio squadra. Ne voglio ricordare tre. Scopigno era pigro ma intelligentissimo, non sbagliava mai un cambio, anche perché a Cagliari eravamo pochi, contati, una riserva per settore e quattro della Primavera. Senti questa: d'accordo col Cina, il capitano degli Invincibili, sciambola. Carnevale di Venezia, con le morose. Avevo prenotato su un volo alle 7 per Cagliari. Che tarda. Arrivo, salto su un taxi e gattono dentro all'Amsicora, confidando sul fatto che Scopigno non amava alzarsi presto. E invece lo trovo piantato davanti allo spogliatoio. E mi fa: "Capisco lo smoking, ma almeno potevi toglierti i coriandoli dalla testa". Herrera è stato un grande. Tatticamente. Poi aveva dei difetti, ma tatticamente meritava che lo chiamassero Mago. E poi Trapattoni, grande professionista, il primo all'allenamento, l'ultimo a uscire.A me il sabato piaceva calciare una trentina di rigori, mi aveva insegnato Meazza. e poi tirare al volo sui cross. Pioveva, un giorno, e ne ho tirato uno altissimo. "Bobo, vuoi che ti dica dove hai sbagliato?". "Scusa Trap, ma tu quanti gol hai fatto da professonista?". "Sei o sette". "Io 160, non mi menare il torrone". Mi ha fatto dare 150mila lire di multa, ma poi amici come prima. Anche se quand'ero alla Juve non ha mai azzeccato un cambio".RIVA. "Come fratelli, abbiamo diviso per due anni la stessa camera, poi mi sono sposato ma siamo rimasti amici. In campo ci mandavamo spesso a quel paese, questione di temperamento. Un giorno giochiamo in Mitropa a Skoplje e c'è invasione di campo, noi due siamo i più lontani dallo spogliatoio.

    Nenè fa in tempo a infilare la porta e chiude a chiave, e noi fuori a urlare "apri, deficiente". E intanto arrivavano i tifosi, sembrava un film con Bud Spencer e Terence Hill. Ne abbiamo stesi un sacco, ma ne abbiamo anche prese. Ma la paura più grande non è stata lì, ma quando Gigi m'ha proposto un giretto in macchina verso Villasimius. Aveva un'Alfa Quadrifoglio truccata. Non c'erano le cinture. Curve su due ruote. Il giorno dopo ho fatto l'assicurazione sulla vita".I GOL: "Il più bello al Foggia, in rovesciata. I più importanti in Messico: l'1-0 alla Germania, ma sono anche fiero dell'assist a Rivera per il 4-3, e il temporaneo 1-1 col Brasile.
    Nell'intervallo eravamo convinti di farcela, bastava che Valcareggi mettesse dentro Rivera al posto di Domenghini che non stava più in piedi. O meglio, che Rivera giocasse dall'inizio. Abbiamo regalato al Brasile il Pallone d'oro nella partita più adatta a lui. E senza staffetta. Mi piacerebbe rigiocarla con Rivera, quella finale".
    LA PANCHINA: "Forse è stato un errore rimanere nove anni fuori dal calcio, ma volevo godermi la famiglia. Poi ho fatto per 13 anni il ct dell'Under 21 di C. Meglio che fare l'allenatore, perché da selezionatore se un giocatore rompe i coglioni non lo convochi più, mentre da allenatore te lo devi tenere almeno un anno. Ho scovato gente come Toldo, Abbiati, Amelia, Fortunato, Barzagli, Iuliano, Bertotto, Di Biagio, Iaquinta, Montella e Toni, che era riserva nel Fiorenzuola e che chiamavo sbrindellone caracollante. Mi aspettavo qualcosa di più dalla federazione ma non mi lamento, so di essere stato un privilegiato"DUE CHICCHE (Brera e il Monatto). "Bonimba lo devo a Brera. A San Siro gli ho chiesto perché. Perché hai il culo basso e quando corri mi ricordi Bagonghi, nano da circo. Ho incassato guardandolo come per fargli capire che coi miei 176 centimetri ero più alto di lui. Poi Brera scrisse sul Giorno, più o meno: è inutile che Bonimba mi guardi dall'alto in basso, nano l'ho battezzato e nano resta. Un nano gigante, però.Quanto al monatto, un giorno mi telefona Facchetti. Bobo, c'è il regista Salvatore Nocita, un interista vero, che girerà a Mantova un pezzo dei Promessi sposi, sceneggiato tv, e ha pensato a te. Che parte dovrei fare, Giacinto? Il monatto, quello che carica gli appestati sul carretto. E perché non lo fai tu? Perché io sono alto, bello e biondo. Così ho fatto il monatto, senza pensare di essere basso, brutto e moro. E mi sono anche divertito".
    Ultima modifica di Vitor; 06-11-13 alle 12:52:07

  2. #2
    Vitor
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    Predefinito Re: Il topic della Rassegna Stampa radical-chic

    Klopp a tutto campo sul Guardian

    Jürgen Klopp is pondering the similarities between himself and Arsène Wenger, between his Borussia Dortmund team and Arsenal which, on the face of it, appear to be numerous. Klopp, however, does not see it. "He likes having the ball, playing football, passes … it's like an orchestra," the Dortmund manager says, pretending to play the violin. "But it's a silent song, yeah? I like heavy metal."Klopp's every entrance ought to be accompanied by a cymbal crash and it is no great stretch to imagine him laying into the speakers with a guitar. There is a wildness about the Dortmund frontman; a high-octane, all-or-nothing passion that overtakes him on match days. It feeds his explosive team and the 80,645 supporters that pack the club's Westfalenstadion, where 25,000 stand behind one of the goals to form the Yellow Wall. The place teems with energy and intensity. It is Klopp's home from home.
    "For me, he is Sir Arsène Wenger, he is really something, I love him," Klopp adds, before miming a polite handshake. "But I'm this guy, with high fives. I always want it loud. I want to have this … " Klopp makes the sound of an exploding bomb. (An article with him demands stage direction).
    "If Barcelona's team of the last four years were the first one that I saw play when I was four years of age ... with their serenity, winning 5-0, 6-0 … I would have played tennis. Sorry, that is not enough for me. What I love is that there are some things you can do in football to allow each team to win most of the matches.
    "It is not serenity football, it is fighting football – that is what I like. What we call in German – English [football] … rainy day, heavy pitch, everybody is dirty in the face and they go home and can't play football for the next four weeks. This is Borussia.
    "When I watch Arsenal in the last 10 years, it is nearly perfect football, but we all know they didn't win a title. In Britain they say that they like Arsenal but they have to win something. Who wins the title? Chelsea, but with different football, I would say. This is the philosophy of Arsène Wenger. I love this but I cannot coach this because I am a different guy. You think many things are similar? I hope so in some moments, but there are big differences, too."
    Klopp will face Wenger in Dortmund on Wednesday night, in Champions League Group F, knowing that a repeat of the victory at Emirates Stadium the week before last would put his team in the driving seat to qualify. That 2-1 win was built on trademark pressing and quick transitions but what appeared to please Klopp the most was the statistic that said his players had run a collective 11.5km more than their opponents.
    "Coaches will say that it's not important for their team to run more and they prefer to make games the right way," Klopp says. "I want to make games only the right way and run 10km more. It's a rule to give all and it can make the difference if you work more. If you don't have to give all and you still win, what's this? You don't like this game? It's like this [Klopp yawns]. What, you can win Wimbledon like this?"
    Klopp peppers the conversation with tennis references. He was not impressed when his own meltdown at the fourth official that saw him sent off in the Champions League defeat at Napoli in September was attributed, in some quarters, to the pressure he felt. "No, I make this fucking face when I play tennis. That's the truth."
    The 46-year-old is a talker, and he adds flavour with anecdotes and detail; some insightful, others more off-the-wall. He admits to being rubbish at DIY, for example. "You'd be waiting 30 or 40 years for me to build a table," he says. "I have more than two left hands."
    He remembers his one and only meeting with Sir Alex Ferguson as lasting for two minutes and coming "during the most shitty moment of my life". He encountered Ferguson at Wembley after Dortmund had lost last season's Champions League final to Bayern Munich. "He said 'great season' to me," Klopp says, before indicating how his own chin had been on the floor.
    It would be interesting to hear what Ferguson thinks of Klopp's look – the jeans and trainers and black-rimmed spectacles – given his more traditional sartorial values. "I don't think I have a chapter in his book," Klopp says. "Chapter One: How is Klopp looking?
    "I'm sorry, he is British," Klopp continues. "You drink tea at four o'clock in the afternoon and nobody else knows why in the rest of the world. You drive on the wrong side of the road. We are different. But I'm sure I can have two days and two nights with Sir Alex Ferguson. I don't know what he drinks. Red wine, OK. He can have his red wine. I prefer beer.
    "But we are like we are. He worked with Ryan Giggs for 20-odd years and when Ryan Giggs hears Ferguson's name, he doesn't go like this [Klopp pretends to vomit]. That is the best you can do in your life. Every day, every year, all the talk ... you know everything about this guy and you still like each other. That says everything about Sir Alex Ferguson."
    Klopp loves to laugh and his is a very big laugh. He jokes that his ugly face is one problem and he turns to the journalist from the Sun. "You have the same problem," he says, uproariously. He has all the trimmings of the charismatic maverick and it is put to him that he would get on well with Zlatan Ibrahimovic, with whom he would like to work. "Crazy players love me," Klopp says. "I don't know why."
    He is relaxed and engaging when he does not have his must-win game-face on and it is easy to see why the Dortmund players like him and, to quote the midfielder Nuri Sahin, will "run through walls for him". Most importantly, Klopp gets results. He has the highest points-per-game ratio of any Dortmund coach in history, together with two Bundesliga titles and one German cup.
    It has combined to make him an attractive proposition and the predators have sniffed, particularly from the Premier League. Klopp does not want to say that Manchester City and Chelsea wanted him before they appointed Manuel Pellegrini and José Mourinho respectively – to him it is in the past – but the references are almost matter of fact.
    "I know that some clubs were interested, of course," he says. "They thought about us. You know these clubs … they changed coaches last season. Man City? But I don't say anything about this. From other countries, they were also interested."
    Many Arsenal fans believe that Klopp would be tailor-made as Wenger's eventual successor. Like Wenger, he came from a small club (Mainz in 2008 ); he promotes young players; he is wedded to an entertaining style and he hunts for answers when key personnel depart. Klopp has lost Sahin, Shinji Kagawa and Mario Götze over the past three summers, although Sahin has since returned, and he will lose Robert Lewandowski as a Bosman free agent next summer. Klopp believes that renewal is essential for progress.
    But Arsenal and anyone else would have to wait until 2018, at least, for Klopp. He signed a new contract at Dortmund last Wednesday and he could not have been clearer about his intention to honour it. He had previously been contracted to 2016 and there was no pressure from either side to agree to the extension. But they did it because they wanted to; because the partnership feels right.
    "Borussia Dortmund is the only club in the world where if I speak to a young player, he knows that I am his coach for the next four-and-a-half years," Klopp says. "We want to have this situation. The players are similar to the journalists. They always think: 'Ah, he says this and then Real Madrid call and he is away.' But this is the message: Everybody can call but nothing will happen. This is for sure and then we will see what's with the players.
    "It makes me proud to hear that some Arsenal fans might want me, but it's not important for me to be proud. My mother is proud. It's a better feeling than if nobody knows me but it doesn't help me in the morning, it doesn't help me in the evening and it doesn't help me through the day."
    Klopp's connection with Dortmund is total. He talks emotively about how the club is "worth falling in love with because this is pure football" and, also, the unique thrill of emerging from the dark and narrow tunnel at the Westfalenstadion, in which he has to stoop at various points, to be assailed by the colour and noise.
    "It's a little bit like when you are born and your mother is [Klopp makes a face like a woman in labour]. Then, you come out and you see the best of the world," he says.
    Klopp is the incurable romantic. To him Dortmund are the Rebel Alliance to Bayern's Death Star, but his club can compete. The players have an average age of 25 and they will enter their prime years over the course of Klopp's contract. "The important thing is new ideas, not money," he says. "It is important to make the next step. You always want to be the team that can beat the one with more money."

  3. #3
    Vitor
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    Predefinito Re: Il topic della Rassegna Stampa radical-chic

    Daniele Manusia e il paradosso Gourcuff (contiene tanti video, metto l'url anche perché vale la pena dare qualche click a sti ragazzi)
    http://www.ultimouomo.com/momenti-gourcuff/

  4. #4
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    Predefinito Re: Il topic della Rassegna Stampa radical-chic

    Bell'idea Vitor

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  5. #5
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    Predefinito Re: Il topic della Rassegna Stampa radical-chic

    letti tutti e tre, interessanti Vitor

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  6. #6
    Vitor
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    Predefinito Re: Il topic della Rassegna Stampa radical-chic

    Citazione Originariamente Scritto da Patato80 Visualizza Messaggio
    Bell'idea Vitor

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    L'ha avuta Lewyn, sono solo un mero esecutore

  7. #7
    Vitor
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  8. #8
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    iscritto.

  9. #9
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    Citazione Originariamente Scritto da Vitor Visualizza Messaggio
    Daniele Manusia e il paradosso Gourcuff (contiene tanti video, metto l'url anche perché vale la pena dare qualche click a sti ragazzi)
    http://www.ultimouomo.com/momenti-gourcuff/
    Magari venisse a Roma

  10. #10
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    Predefinito Re: Il topic della Rassegna Stampa radical-chic

    Bravo Vitor, un soffio d'aria nuova in bar sport

  11. #11
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    vitor mod subito
    bell'idea, peccato tic tac

  12. #12
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    bell'idea.

    proporrei di vietare ad eliwan e simosky l'accesso al topic

  13. #13
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    Predefinito Re: Il topic della Rassegna Stampa radical-chic

    Citazione Originariamente Scritto da Camus Visualizza Messaggio
    proporrei di vietare ad eliwan e simosky l'accesso al topic
    Se parlo di calcio seriamente non ti vedo nemmeno
    Sono Dio.

  14. #14
    Volo85
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    Predefinito Re: Il topic della Rassegna Stampa radical-chic

    bon, chiudete.

  15. #15

    Predefinito Re: Il topic della Rassegna Stampa radical-chic

    Citazione Originariamente Scritto da Camus Visualizza Messaggio
    bell'idea.

    proporrei di vietare ad eliwan e simosky l'accesso al topic



    Ne dimentichi un paio però Camus...

  16. #16
    alberace
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    Predefinito Re: Il topic della Rassegna Stampa radical-chic

    da http://blog.futbologia.org

    30 April, 2013

    Back home. Time, Memory and Footbal

    Redazione Futbologia

    [Riceviamo e Pubblichiamo. Qualche giorno fa l'AFC Bournemouth è salito per la seconda volta nella sua storia in Championship League. Roger Bromley, professore emerito della Notthingham University e originario di Bournemouth, ci ha inviato questo magnifico articolo, che prende le mosse dall'evento per spaziare nei temi di identità e memoria. In una parola, fútbologico. Leggetelo tutto, anche la postilla biografica in fondo.]



    2 Marzo 1957 – Bournemouth and Boscombe Athletic VS Manchester Utd


    di Roger Bromley
    Molti anni fa la scrittrice Ella Winter aveva detto all’oramai dimenticato romanziere americano Thomas Wolfe, «Non lo sai che non puoi più tornare a casa?». Wolfe usò questa frase come titolo del suo ultimo romanzo, pubblicato postumo nel 1940. Nella parte finale del romanzo, George Webber, il protagonista, arriva alla conclusione che: “Non puoi tornare alla tua famiglia, tornare alla tua infanzia… tornare ai sogni di gloria e fama di giovane uomo, tornare ai luoghi di origine, tornare alle vecchie forme e organizzazione delle cose che un tempo sembravano eterne e che invece continuano a cambiare… rifuggire il Tempo e i Ricordi”.
    Tutto questo mi è tornato alla mente pochi giorni fa quando la squadra della mia città, l’AFC Bournemouth, ha raggiunto la promozione nella English Championship League (la seconda serie del campionato inglese) per la seconda volta nell’arco di centoquattordici anni, e dopo un’assenza di ventitré. Durante una cupa e gelida giornata dell’inverno 1950 assistevo alla mia prima partita a Dean Court a Boscombe (sobborgo di Bournemouth dove si trova lo stadio, NdT).



    Dean Court, Boscombe


    Il nome ufficiale del club era Bournemouth and Boscombe Athletic Football Club, ma tutti lo chiamavamo Boscombe. Di recente il nome è stato cambiato in AFC Bournemouth, per infiocchettarlo all’europea, come parte di una strategia di branding globale – senza che alcuno, nel globo, ne abbia mai davvero sentito parlare. Negli anni in cui crescevo e andavo a vedere tutte le partite casalinghe, sia della prima che della seconda squadra, il terreno di gioco si stendeva da Nord a Sud; oggi da Est a Ovest, e Dean Court è diventato il Goldsands Stadium, un altro passaggio della strategia di marketing –Glocalizzazione la chiamerebbe qualcuno oggi. Il Bournemouth salì in Terza Divisione (Sud) nel 1923. Nei giorni della mia infanzia di scolaro e della mia tarda adolescenza, sognavamo la terra promessa, la seconda divisione. Tuttavia, quando, sessantasette anni dopo l’ingresso nella Lega Calcio, infine arrivò, ero andato via da tempo (e mai più tornato sul campo). Eppure ancora sentivo quel trionfo come qualcosa di personale, un tributo ai miei anni di frustrata nostalgia.



    La stazione ferroviaria di Boscombe


    Ho lasciato Bournemouth definitivamente nel 1966 e ho girovagato di città in città alla ricerca di quell’appartenenza perduta, di una voce che potesse una volta ancora dire “noi”, per urlare «Up the Cherries», il grido ormai sopito degli spalti di Boscombe. L’amore per il pallone mi ha portato a seguire altre squadre in altre città, talvolta a sottoscrivere abbonamenti, ma quelle squadre erano sempre “loro”, e quando anche giocavano in casa, non era la mia. Mi chiedo, è una cosa generazionale? I ragazzi oggi indossano le maglie delle maggiori squadre della Premier o europee anche se non sono mai stati neppure nei pressi dei loro stadi, mentre la maggior parte dei miei coetanei nati altrove, qui a Nottingham, cercano in maniera febbrile sui loro telefoni i risultati del Hull, o del Norwich, o del forse modesto Torquay.
    Anche se non viviamo più nel posto da cui veniamo, la nostra generazione ha viaggiato molto meno da giovane, non aveva Internet o Sky (o alcuna televisione), e i nostri orizzonti erano delimitati. Forse però è più di questo, dal momento che per molti di noi le nostre squadre locali costituiscono tutto ciò che ci siamo lasciati alle spalle delle nostre origini tribali, il nostro campo – i genitori morti, i fratelli andati via, la casa di famiglia un luogo di estranei.
    Chiunque mi incontri ancora oggi deve sorbirsi dei miei anni a bordocampo a Boscombe (come raccattapalle, non come riserva), del tempo speso ad allenarmi con i professionisti, dell’allenatore che mi chiamava “sunshine” – ingannevole vezzeggiativo– e dei gloriosi giorni della stagione ‘56-57, quando nella FA Cup il Bournemouth sconfisse il Wolverhampton Wanderers fuori casa, poi il Totthenham Hotspur in casa per 3-1, e perse di misura al sesto turno contro il Manchester United, pochi mesi prima del disastro di Monaco di Baviera.



    1957 – Contro gli Spurs nella FA Cup, oltre 26000 spettatori


    Dunque, la tua squadra di casa è come la Stella Polare, l’Isola che non c’è del tuo Peter Pan. Diventa l’unica casa dove tornare, poiché, pur avendo cambiato nome, le maglie, che ora sono a strisce nere e rosse (un tempo erano rosse e bianche), e il campo è ruotato, la squadra e il luogo sono eterni – unico punto fermo nel mondo che gira incessante. Mentre la vecchiaia si avvicina come unica certezza, puoi provare a immaginare – ancora una volta – come diventerai quando sarai cresciuto, con i sogni di fama e gloria ancora da sognare, e il futuro qualcosa nel tuo passato. Grazie ai ricordi, la promozione del AFC Bournemouth in Championship mi ha permesso di rifuggire il tempo e diventare immortale.
    Roger Bromley
    22 April 2013
    __
    [trad. Redazione Futbologia. Riportiamo di seguito la versione in inglese di questo articolo, l'originale è ancora più bello]
    Many years ago, the writer Ella Winter said to the now-neglected American novelist, Thomas Wolfe, ‘Don’t you know you can’t go home again?’ Wolfe used this as the title of his last novel, published posthumously in 1940. In the final section of the novel, George Webber, the main character, realises: ‘You can’t go back home to your family, back home to your childhood…back home to a young man’s dreams of glory and of fame…back home to places in the country, back home to old forms and systems of things which once seemed everlasting but which are changing all the time…back home to the escapes of Time and Memory.’
    I had occasion to recall this just a few days ago when my home town team, AFC Bournemouth, gained promotion to the English Championship league (the second tier) for only the second time in one hundred and fourteen years, and after an absence of twenty three years. On a bleak, cold winter’s day in 1950 I attended my first match at Dean Court, Boscombe. Officially, the club was known as Bournemouth and Boscombe Athletic Football Club but everyone local called it Boscombe. In recent years, the name was changed to AFC Bournemouth to give it a continental flourish as part of its global branding – not that anyone anywhere on the globe was likely to have heard of it. When I was growing up and watching every home match, first team and reserves, the pitch ran from north to south; today it is laid from east to west, and Dean Court has become the Goldsands Stadium, another stage in its branding – glocalisation some would now call it. Bournemouth entered the Third Division (South) in 1923 and all through my schooldays and late adolescence we dreamed of the promised land – the second division – but when this eventually came, sixty seven years after first entering the Football League, I had long gone (and never returned to the ground) but still felt the triumph as something personal, a tribute to my years of disappointed longing.
    I left Bournemouth permanently in 1966 and have wandered from city to city searching for that lost belonging, for a voice that could once again say ‘we’, to scream ‘Up the Cherries’, the now-silenced cry from the sandy terraces of Boscombe. A love of the game meant that I have watched other teams in other cities, even bought season tickets at times, but those teams were always ‘they’, and even when they were playing at home, I wasn’t. Is it generational, I wonder? Younger people seem to wear the shirts of the major Premier League and European clubs even though many have never been anywhere near their stadiums, whereas most of my contemporaries where I now live in Nottingham, who were born elsewhere search feverishly on their phones for the Hull result, or the Norwich score, or maybe lowly Torquay. Even though we no longer live in the place where we came from, our generation travelled far less when we were young, had no internet or Sky television (or even television), and our horizons were limited. It is more than just this perhaps, as for many of us our local football teams are all we have left of our tribal origins, our ground – with parents dead, siblings moved on, the family home a place of strangers. Whoever I meet even today has to hear of my years on the bench at Boscombe (as ball boy not sub), time spent training with the professionals, the manager who called me ‘sunshine’ – feint traces of identity – and the glory days of 1956-7 when Bournemouth beat Wolverhampton Wanderers away in the FA Cup, then Tottenham Hotspur at home 3-1, and narrowly lost in the sixth round to Manchester United, just months before the Munich air disaster.
    So, your home football team acts as your cynosure, the Neverland for your Peter Pan. It becomes the only home you can go back to as, despite the change of name, the black and red striped shirts (which once were red and white), and the rotated pitch, the team and the place are everlasting – the one still point in a turning world . As old age approaches with its only certainty, you can set out once again to imagine what you might become when you grow up, with the dreams of fame and glory still to be dreamt, and the future something in your past. Thanks to memory, AFC Bournemouth’s promotion to the Championship last week has allowed me to escape time and become immortal.

    __
    Roger Bromley è esperto di Cultural Studies, professore emerito in studi sociali alla Nottingham University (Emeritus Professor of Cultural Studies e Honorary Professor of Sociology), Visiting Professor della University of Lancaster, Associate Fellow alla Rhodes University, SA.
    Durante la sua lunga carriera accademica ha effettuato ricerche in diversi ambiti e su diversi argomenti. Le pubblicazioni recenti includono un film documentario sul Rwanda, analisi del Sud Africa post apartheid, studi sul cinema of displacement e sulle forme di cultura pubblica e comunità.
    Nella email che ci ha scritto c’è una frase meravigliosa che riportiamo in originale:
    «Everything I write is political and always has been, otherwise I see no point in bothering. This ‘football’ piece is only indirectly political but is the beginning of an auto-ethnography which will be a blend of sociological, political and cultural analysis, although at times it will be painful to write».
    Recentemente ha scritto un articolo per l’importante rivista di analisi politica Ceasefire sulla narrazione del Thatcherismo: Anthem for a Lost Narrative: On Thatcher’s ‘Emotional Household’.

  17. #17
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    qual'era l'altro sito dove c'era l'articolo su heskey?

  18. #18
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    Vice, rubrica Stili di Gioco, sempre di Daniele Manusia
    http://www.vice.com/it/read/stili-di-gioco-lukaku

  19. #19
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    C'è qualche articolo di buffa, che è il radical chic per eccellenza o solo video?

  20. #20
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    Sul calcio mi sa solo video
    Metterò.

  21. #21
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    Predefinito Re: Il topic della Rassegna Stampa radical-chic

    Federico Buffa racconta Arpad Weisz, imperdibile




    Federico Buffa racconta Diego Armando Maradona




    Garrincha




    Il calcio boliviano




    El Super Clasico



    Alessandro Del Piero & Federico Buffa - Giochiamo Ancora



    Il milanista Buffa ammazza il Milan



    Federico Buffa e Leonardo



    Le squadre giapponesi


  22. #22
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    Da ieri non funzia youtube in ufficio, grande amarezza

  23. #23
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    Predefinito Re: Il topic della Rassegna Stampa radical-chic

    Alessio Cerci, la nuova ala
    di Giuseppe De Bellis per Rivista Studio

    La cosa più bella di Alessio Cerci è stata un errore: palla a lui, attaccato alla riga laterale destra, testa alta a guardare i movimenti degli altri, poi sinistro carico, forte, teso dalla parte opposta. Cambio di gioco, dicono gli allenatori. Sessanta metri di lancio sulla corsa di un compagno che aveva visto solo lui, Alessio. Fuori dall’inquadratura della tv e fuori anche dalla visuale stretta di chi osserva solo il pallone. Cerci ha usato il grandangolo del cervello, facendo una giocata che non si vede spesso e che non ha capito neanche il compagno. Non l’ha capita perché era troppo, perché in quel momento nessuno avrebbe fatto quel cambio di gioco. Palla fuori dalla parte opposta. Un errore meraviglioso, ossimoro che spiega benissimo certe sfumature che nel pallone fanno la differenza tra uno forte e uno mediocre. Cerci appartiene ai primi. Gioca da fuoriclasse in una squadra che come fuoriclasse ha soltanto lui. Passerà alla storia di questo campionato per essere stato quello che ha fermato per primo la Roma. Aggiungeranno il dettaglio succulento che l’ha fatto da romanista. Invece ha un sacco di altri meriti, a cominciare da quel lancio finito fuori che però ti riconcilia con il calcio. Fatelo, per capire. Oppure fatevelo raccontare: il cambio di gioco è difficile, ardito, coraggioso. È un colpo da regista, non da esterno.

    Ecco, Cerci è questo: un’ala completa, altra anomalia pallonara. Uno che sa fare tutto quello che deve fare chi gioca sulla fascia e poi il resto: lo scambio veloce, il lancio, il taglio in profondità, la sponda, l’inserimento. Tipo quello del gol, per intendersi. In sostanza è un esterno con colpi da centrocampista e da attaccante. Perfetto? Ovviamente no. Ma diverso, molto diverso. In Italia è unico così ed è tra i pochi anche all’estero. A David Silva, per esempio, mancano le giocate e i movimenti da punta. A Theo Walcott, altro esempio, manca invece tutta la parte da centrocampista. I paragoni servono a capire le differenze. Cerci è un rimpianto di molti: chi non ha creduto in lui adesso deve pentirsi. Perché a Torino ha trovato l’identità: gioca, segna, fa segnare. Grande in una media.
    Dicono: ma forse in un club più competitivo non sarebbe così determinante. Sicuri? Il passato ha detto questo, ma il passato: Roma e Fiorentina non sono andate, ma oggi sarebbe ancora così? La verità è che il suo essere diverso ha spaventato troppi direttori sportivi e troppi allenatori. Non abbastanza punta e non abbastanza centrocampista. Il fatto di essere quell’ala tipica e atipica allo stesso tempo non è stato capito per un po’ di anni. Ora che tutti hanno fame di esterni, Cerci è diventato il Panda da osservare e ammirare. I nostalgici lo vedono come l’erede di Bruno Conti. Tra i due c’è una generazione pallonara di vuoto, qualcosa che sta in mezzo e che in realtà è la vera ispirazione di Alessio. Perché quel vuoto era proprio il vuoto degli esterni che fanno gol: non ce ne erano per incapacità e per ossessione degli allenatori che a chi giocava sulla fascia dicevano soltanto di puntare il fondo. È per questo che per tutto un periodo, anche abbastanza lungo, i mancini giocavano a sinistra e i destrorsi a destra. Nessuno invertiva, nessuno giocava con il piede opposto alla fascia di competenza. L’ala era una specie di velocista che doveva stare in quella fascia di campo stretta più o meno come la corsia di una gara dei cento metri: la riga laterale da una parte, lo spazio del terzino dall’altra. L’ala giocava coi paraocchi: guarda dritto davanti a te, quando il campo è finito, allora crossa per gli attaccanti veri.

    Cerci ha invertito i piedi e lo schema. Non solo lui, ovviamente. Ma lui, oggi, è un simbolo: l’esterno offensivo, sì l’ala, gioca a destra se è mancino e a sinistra se è destrorso. Così ha due soluzioni: puntare il fondo o accentrarsi e calciare. Scoperta banale, ma molto funzionale. Ventura non è né Mourinho, né Conte, né Garcia, né Ancelotti, ma l’ha capito prima di altri. A Pisa prese questo ragazzino della primavera della Roma e gli disse di fare il terzo attaccante, quello di destra: dieci gol in 26 partite in serie B, a vent’anni. Tutti più o meno uguali: partenza dall’esterno, dribbling verso l’interno, tiro o a giro sul secondo palo o forte sul primo. È esattamente quello che ha fatto con la Roma nel primo tempo, con De Sanctis che ha deviato in corner.
    I detrattori dicono: fa sempre la stessa cosa. Vero, così come faceva Garrincha senza che nessuno riuscisse mai a prenderlo. Il dribbling non è solo sorpresa, è anche tempismo. Puoi fare lo stesso movimento, ma se lo fai nel momento giusto ti può riuscire sempre. A Cerci succede ora e non succedeva a Firenze. Per qualcuno quella è stata un’occasione sprecata. A chi glielo chiede, lui risponde di sì, che è vero, avrebbe potuto dare di più e prendere di più. Ha avuto bisogno di altro, per farcela. Cerci è il volto più noto di una serie di giocatori che seguono alcuni allenatori. I mister si spostano e chiedono come prima cosa di prendergli quel calciatore lì. Palacio è arrivato così all’Inter: era il pupillo di Gasperini che lo mise come condizione per il suo trasferimento. Ecco, Cerci è il giocatore di Ventura: l’ha avuto a Pisa e l’avrebbe voluto al Bari per due anni di seguito. Si sono reincontrati a Torino, dove Cerci è arrivato con la fama di uno che crea problemi, con la storia di un carattere complicato e di un talento sostanzialmente mal utilizzato. Arrivava da una notorietà precoce, con quei soprannomi che sanno dare soltanto a Roma e dintorni: quando faceva le giovanili lo chiamavano il Thierry Henry di Valmontone. Un po’ ridicolo e un po’ sbagliato, perché con il francese c’entra pochissimo fisicamente e calcisticamente. Così è stata la storia: una promessa che stava per deludere s’è ritrovata a Torino, dove per molti avrebbe dovuto perdersi del tutto.
    Il gol alla Roma è un emblema: ha sconfitto i fantasmi, perché bisogna ammazzare le proprie origini per trovare se stessi. Ovviamente Cerci s’era già ricreato l’anno scorso: otto gol e 35 partite da titolare. Tanto per un’ala, checché se ne possa dire o pensare. La nazionale è arrivata così, ma è come se fosse passato tutto sotto traccia. Sì, ok, e poi? La differenza tra chi lascia un segno e chi sorvola la propria esistenza e il proprio calcio. Quest’anno i gol sono otto di nuovo, ma dopo 11 giornate. Cerci è il talento che l’Italia pensava di non avere. Diverso da altro e da altri. Salta l’uomo, passa, tira, si fa buttare giù, tira le punizioni e i rigori. Poi il resto, appunto: la prossima volta quel lancio non sarà un errore. Sessanta metri di cambio di campo troveranno un compagno che capirà che cosa sta facendo quello lì dall’altra parte. Fuori dall’inquadratura, sempre. Sarà il miglior colpo della partita, comunque.

  24. #24
    La Borga L'avatar di ghost_master
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    Predefinito Re: Il topic della Rassegna Stampa radical-chic

    c'è un imprecisione però mi sa: Palacio però non è arrivato all'Inter con Gasperini ma l'anno dopo

    Cerci me lo ricordo dal Pisa in serie B, sempre con Ventura
    Ultima modifica di ghost_master; 06-11-13 alle 14:50:45

  25. #25
    Vitor
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    Predefinito Re: Il topic della Rassegna Stampa radical-chic

    Può essere, onestamente non ricordo

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