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Friday, August 18, 2006
Charlotte Simmons, c'est moi (e tout le monde aussi)
Non importa chi sei, ma quello che ti fanno diventare. Tom Wolfe dopo anni di ricerche in college di mezza america se ne esce con uno spaccato sociale della meglio gioventù americana. Il risultato è "Io sono Charlotte Simmons", un romanzo stupendo, godibile quanto ricco di spunti. Un libro che dovevo leggere prima e che dovremmo regalare anche ai dicottenni di casa nostra.
Dopo aver raccontato la New York avvocatesca e yuppie anni ’80, l’Atlanta del nuovo potere economico e razziale di fine millennio, a settant’anni, Tom Wolfe, l’intellettuale in bianco, giornalista rivoluzionario, fieramente e genuinamente conservatore nel narrare i costumi umani, sente il bisogno di affrontare, con il suo terzo grande romanzo, la classe dirigente del futuro: i ragazzi dei campus universitari. L’ambientazione è la Dupont University, Pennsylvania, un college – fiction che nella sospensione dell’incredulità il lettore accetta come la più prestigiosa università d’America: una sorta di Harvard, Stanford, Yale messe assieme. Questa è la meta tanto agognata della protagonista, la Charlotte Simmons del titolo catapultata in questo mondo, nel mondo, da un paesetto minuscolo sui monti Appalachi. La famiglia Simmons è il prototipo di quell’america bushiana che a noi europei piace tanto irridere: un padre brusco, ignorante ma lavoratore e attaccato alla famiglia, una madre puritana, adepta modello di una chiesa evangelica, tanto pura di sentimenti da apparire fuori dalla realtà. Charlotte è la ragazza prodigio, cresciuta sui libri, innamorata perdutamente del sapere, ingenua, cui il sistema americano, attraverso una borsa di studio, offre la migliore possibilità di riscatto: l’accesso ad un’istruzione elitaria.
La Dupont si rivela ben diversa da quella sognata da Charlotte. Non un tempio consacrato a cultura e scienza, ma un postribolo dove la depravazione (nell’ottica dei Simmons) regna sovrana, dove il sesso diventa moneta sociale. Al college è concepibile solo la logica del branco, si procede per imitazione, la propria personale iniziativa si sbriciola nelle convenzioni sociali delle èlite del campus: la squadra di basket, le fraternity; esse determinano con l’atteggiamento dei loro membri (sempre sbagliato) lo standard della coolness, ovvero dell’“essere giusto”.
L’interesse di Wolfe, il suo approccio scientifico al romanzo, è dichiarato fin dalla prima, geniale, pagina. Lo scrittore di Richmond è sì un cinico analizzatore della società, che seziona riga dopo riga, ma è anche un tenace individualista il cui scopo principale è cercare di capire come il singolo reagisce alle pressioni culturali e sociali; il vero oggetto di studio, per dirla con E. Zola (suo idolo e modello) è la bestia umana. Nel laboratorio del dr. Wolfe ci sono tanti tipi umani da far impallidire qualunque scrittore realista, tutti personaggi così “veri” (persino il linguaggio che adoperano sottende uno studio approfondito effettuato dall’autore stesso sul campo, o meglio “sul campus”) da apparire cinematografici, perennemente in bilico tra verosimiglianza e stereotipo. Ci sono gli atleti zucconi, gli intellettuali snob “politicamente corretti”, “duri” che si fanno rispettare, c’è un allenatore universitario più parodistico di tutti i coach apparsi sul grande schermo, un prof. ex sessantottino inflessibile solo quando si tratta di infierire sui nemici politici. Ingredienti perfetti per un plot emozionante che si fa leggere d’un fiato, per la serie 770 pagine e non le senti. Lo stile di Wolfe è stupendamente old-fashioned, a tratti verista, ma non rinuncia all’introspezione psicologica, lasciando che un anonimo narratore s’incarni di volta in volta nei diversi personaggi e assuma il loro punto di vista; quasi uno sberleffo consapevole al post-moderno, Wolfe è un uomo di fine ottocento che scrive nel duemila; la sua modernità consiste in un uso pirotecnico del linguaggio, al limite della logorrea e, allo stesso tempo, finemente psicologico e in grado di suscitare autentiche emozioni.
Nelle diverse recensioni ed opinioni che mi è capitato di leggere emergono sostanzialmente tre critiche. Una di queste constata l’eccessiva “americanità” del romanzo che quindi risulta poco fruibile per conto nostro, un’altra sostiene che il romanzo sembra scritto quarant’anni fa, impressione dovuta alla concezioni retrograde, stilisticamente e moralmente, dell’autore. Sono entrambe da smontare. Noi non abbiamo i campus universitari, vero, ma sfido chiunque a sostenere che i problemi sollevati dal romanzo non si riproducono sotto i nostri occhi nei bar che frequentiamo, quando usciamo il sabato sera, nelle associazioni politiche giovanili, persino nelle nostre scuole superiori. In secondo luogo c’è solo da ammirare la bravura con cui Wolfe si è gettato a capofitto in una generazione distante anni luce dalla sua: tutto dal linguaggio, ai gesti, alle azioni è assolutamente verosimile, la patina di “vecchiume” è forse data da uno psicologismo ottocentesco di cui l’autore si fa orgogliosamente e in piena coscienza alfiere.
La critica più frequente considera irrealistica la figura della protagonista. A mio avviso questa comporta un grave travisamento dell’opera. Charlotte Simmons è un giallo che si sviluppa pagina dopo pagina. C’è qualcosa di sfuggente in questo personaggio che sta transitando dalla giovinezza all’età adulta, il mistero che, come nelle detective - stories migliori, si svela solo alla fine, consiste nel scoprire chi è veramente e a cosa ambisce sul serio. Chi conosce Tom Wolfe sa che ce ne sarà per tutti: nessuno dei personaggi si salverà completamente e qualcuno si dannerà per sempre. Una lettura formidabile, piacevole e formativa (d’altronde si tratta di un romanzo di formazione benché fuori dai cliché) da esperire non appena se ne ha il tempo e la voglia e da assaporare fino all’ultima parola delle tante digressioni che spaziano, mantenendo uno spessore intellettuale d’altri tempi, da Socrate a Darwin, dall’uomo alla bestia (umana).