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Discussione: Occhi

  1. #1
    Moderatore nel silenzio L'avatar di Mikk
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    Predefinito Occhi

    Già una volta avevo postato un racconto qua, non aveva avuto molte reply ma qualche consiglio prezioso lo avevo recepito. Provo a metterne uno nuovo, che in realtà ho scritto alcuni mesi or sono, ma ho riguardato solo oggi. E' lunghetto, però spero che qualcuno abbia voglia di leggerlo e, se sopravvive, fare un po' di critiche


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    Camminava lungo un sentiero brullo, fatto di terra e sassi. Gli alberi attorno alla via che aveva imboccato erano lance di legno che schizzavano al cielo altissime. Ogni tanto si fermava e guardava indietro. Pensava se avesse fatto bene a prendere quel sentiero, se non avesse sbagliato strada, se la destinazione non fosse da cercare altrove. Ma alla fine si diceva che lui si era scelto quel sentiero, e che quindi quella era la sua via, giusta o sbagliata che fosse. Tutto quello che avrebbe incontrato sarebbe solo stato frutto delle sue scelte. Certo, la legnosa muraglia infarcita di foglie che lo circondava gli dava proprio l’impressione che, scelta o non scelta, quella via si potesse percorrere solo in una direzione, senza deviazioni.
    A passo svelto incontrò ben presto quella che doveva essere la sua meta. Davanti a lui si apriva finalmente uno spiazzo. Era una piccola valle a conca, circondata, quasi in un cerchio perfetto, da una selva ben simile a quella che lo aveva accompagnato fino ad allora. Il sentiero prendeva a scendere dolcemente verso il centro della valle, scomparendo sempre di più nell’erba.
    Il viaggiatore non era in grado di capire se ci fossero altri sentieri che conducevano a quella vallata. La sua vista non era un granchè, e la foresta che circondava lo spiazzo gli appariva uniformemente fitta. Eppure qualche altro sentiero ben ci doveva essere, perché distingueva chiaramente alcune persone che stavano al centro dello spiazzo.
    Senza nemmeno pensarci, inconsciamente, prese a scendere il sentiero fino a perdere la via. Man mano che avanzava cominciava a distinguere sempre più particolari del gruppo di persone che lo stava aspettando. Riusciva a riconoscere questo o quest’altro cugino, ecco là uno zio. Sì, era nel posto giusto, si diceva. Da cosa lo aveva capito solo lui lo sapeva, dato che non aveva alcuna informazione su quale fosse “il posto giusto”.
    Si sedette nel primo spazio vuoto che trovò, salutando quello e quell’altro, ma senza mai cominciare davvero a parlare con qualcuno. Era più che altro incuriosito dalla presenza di altre persone che in effetti proprio non conosceva. Poi ebbe un sussulto, guardando una parte che ancora non aveva degnato d’attenzione. A fianco di un uomo che non aveva mai visto prima stava lei.
    Era sdraiata con la schiena rivolta al cielo e la faccia che osservava quell’uomo, quindi il viaggiatore poteva solo distinguerne a grandi linee la sagoma o vederle i capelli. Mossi, rossicci. Tanto gli bastava. La sua fata era sdraiata lì, probabilmente non lo aveva ancora visto. Parlava con quell’uomo, e il viaggiatore si sorprese di non riuscire proprio a riconoscerlo. Eppure, si diceva, se lei ci parla così dovrei sapere chi è.
    Aveva sentito dire da qualcuno che l’amore è un pigro mostro che sonnecchia nella sua tana, perché vuole essere cercato e trovato. Un mostro da cui si va in ginocchio, a pregarlo di essere morsi. Un morso che infonde in cuore e sangue una forza che far stare male. Lui non ci aveva mai creduto in fondo. Aveva pensato più all’amore come una leggera fata, che vive da sola sulle rive di un ruscello dorato. Una fata che soccorre chi smarrisce la via, ma che aspetta sempre qualcuno, con cui rinunciare per sempre alla sua solitudine.
    Lui aveva la sua fata lì, davanti agli occhi. Ora si muoveva, si voltava supina a guardare il sole e poi ancora quell’uomo. Una grazia leggera dominava i suoi movimenti. Il viaggiatore in quel corpo che strusciava il terreno, in quei capelli che si confondevano tra i fili d’erba, in quelle gambe che sollevavano il resto del corpo sfiorandosi tra di loro, pelle su pelle, cercava di vedere le ali che sicuramente quella fata teneva nascoste agli occhi di tutti.
    Lei ancora non lo guardava, anche se lui ormai si era fissato. Per i pochi attimi in cui la ragione riprendeva possesso della sua mente gli sembrò sconveniente fissarla in quel modo. Stava anche ignorando tutti i presenti. Ma non poteva fare a meno di sentire che c’era dell’altro dentro di sé. Un… desiderio… si vergognava a trovare altre parole, e anche questa lo scandalizzava. Desiderava quella fata. In altre circostanze, si sarebbe preso a pugni da solo per una cosa del genere. Ma non ora, non con lei davanti. L’unica cosa che poteva fare era nascondere quel desiderio, perfino a se stesso.
    L’inquietudine nello stare ferma portava quella fata a cambiare di continuo posizione. Pareva muovere con veli invisibili l’aria, che si spostava a suo comando nell’accompagnare ogni suo gesto. Il viaggiatore sentiva sulla sua pelle quella frescura che si muoveva, e gli vennero i brividi. Poi lei alzò finalmente gli occhi e lo vide. Sorrise. Un sorriso tanto dolce che il viaggiatore si spaventò, e indietreggiò col corpo. Lei non smise di rivolgergli quell’incantesimo tanto forte e alla fine lui si arrese, dato che cominciava persino a tremare per quel candore di denti. Lui disse, solo con le labbra (non seppe nemmeno lui il perché):
    “Ti devo parlare”.
    La fata allargò ancora di più il sorriso. Aveva forse la felicità più pura immaginabile. Si alzò leggera, ma decisa, come se non aspettasse altro. Disse due parole, all’uomo che le stava vicino, forse congedandosi.
    Il viaggiatore non si perse nemmeno un movimento di quel corpo. Lei si aiutò con le mani per mettersi in piedi, poi si sistemò i capelli agitandoli. Le vesti, stropicciate dal movimento a terra, si riadattarono al suo corpo. Aveva una maglia grigia, che ricadde sulla pancia leggera, avvolgendola delicatamente. I piccoli fremiti della sua pelle si misero in moto, e si avvicinò al viaggiatore. Lui era pietrificato, seduto a terra. Lei lo guardava ora dall’alto in basso. Lui non mosse neanche la testa, solo gli occhi, che osservavano i suoi, quasi volessero scappare dalle orbite per abbracciarla.
    La fata decise di chinarsi e passò a poca distanza dal viaggiatore. Lui poteva sentire il respiro della sua pelle da quella distanza. Alla fine lei si sedette lieve alla sinistra del viaggiatore. Poi si sdraiò e cominciò a guardare quell’azzurro infinito che li sovrastava. Anche lui guardò il cielo. Sembrava dirgli: “Lei è lì, è la tua fata, lei è lì”. Decise di sdraiarsi accanto a lei.
    Erano così, distesi per il lungo, l’uno accanto all’altra. D’improvviso il viaggiatore si rese conto che tutti gli altri se ne stavano andando via. Raccoglievano le loro cose, parlicchiavano tra di loro e si avviavano lungo chissà qualce sentiero. Tutti, nessuno escluso, nemmeno l’uomo che prima parlava con la sua fata. Lei non salutò nessuno, lui neanche e gli altri si comportavano quasi come se loro due non esistessero. Come se loro due non fossero sdraiati l’uno accanto all’altra.
    Il silenzio che nacque fu totale. Perfino gli uccellini sembrarono capire che cosa stava riempiendo ora quella vallata e decisero di intonare un muto canto, per rispetto di quei due corpi vicini. A chiudere gli occhi si poteva sentire il fiato delle grandi nuvole bianche che volavano indifferenti a chissà quale distanza.
    Il viaggiatore sentiva qualcosa di strano in quel silenzio, come se a udire suoni non fossero le sue orecchie ma la mente stessa. E provava un brivido sulla faccia. Capì perché. La fata non guardava più il cielo, ma guardava lui. Prima continuando quell’eterno e dolce sorriso di prima, poi facendosi via via più seria. La sua faccia divenne meno importante per il viaggiatore, che adesso era completamente rapito dagli occhi di lei. Come se non potesse vedere null’altro, il suo universo in quegli attimi era un’enorme fascio di luce bianca e due occhi al centro. I suoi.
    Erano azzurri, un azzurro spento, quasi grigio. Trasparenti come l’acqua che scorre lenta in un lago, nettare di vita per gambi di violette. Un’acqua in cui vedere il suo riflesso di viaggiatore senza meta che cammina nel riverbero di cime innevate. Un’acqua capace di onde timide che solleticano le ginocchia, o di una tempesta che stravolge la vita. Un’acqua che aveva bagnato mille sassi, che li aveva rigati per sempre, ma che vi era scivolata via senza farsi accarezzare. Nessuno può dire di aver posseduto l’acqua, nessuno può dire di averla ferita. Ed ora quell’acqua scorreva sopra di lui, poteva sentire la frescura del suo abbraccio. Gli riempiva gli occhi ora. Avrebbe voluto che quella visione non si interrompesse mai più. Mai più. Adesso era capace di vedere il volto di lei anche senza guardarla. Anche se fosse stata lontana o se fosse volata via per sempre.
    Forse passò quell’attimo magico in cui il viaggiatore si era perso negli occhi di lei. Un rumore ruppe il gigante di silenzio che abbracciava quella vallata. Altre persone, da altri posti, da altre fessure del bosco fitto stavano entrando nello spiazzo verde. In un carnevale di suoni e di luci, di voci e di musica, tutta la magia che era presente forse scomparve. Una moltitudine chiassosa li invase, senza considerarli molto, sempre come se quei due corpi non fossero lì. Forse erano loro la vera espressione di ciò che deve essere una vallata in montagna bagnata da un sole così limpido. Ma il viaggiatore non potè fare a meno di sentirsi disturbato da tutti loro, come se avessero rotto quello che c’era tra lui e la sua fata.
    Si voltò verso di lei. Non lo guardava più. Non aveva più neanche quel sorriso a dipingerle sul volto l’essenza stessa della felicità. Stava guardando dell’altro. Lui cercò nella folla rumorosa se ci fosse qualcuno che avesse destato l’attenzione della sua fata. In realtà fu lui attratto dalla strana figura di un drugo biancovestito, con bombetta e bastone neri. Non gli diede improtanza però. Gli importava solo di lei.
    Aveva tirato fuori da chissà dove un bicchiere, era quello che stava guardando prima. Si alzò seduta. Il viaggiatore era così immerso in una atmosfera onirica da fermarsi stupito anche a guardarle la schiena. Poi si alzò anche lui, perché troppa era la curiosità verso quello che stava facendo la donna seduta al suo fianco. Vide che sorseggiava dal bicchiere, un qualcosa che era bianco puro. Latte forse? Impossibile dirlo. Quel liquido non le sporcò le labbra e sembrò soddisfarla dopo solo un lieve sorso. Il bicchiere era ancora quasi pieno.
    La fata tornò ad interessarsi al suo viaggiatore. Lo guardò e vide lo sguardo che albergava sul suo volto. Gli porse il bicchiere, come a chiedere se ne volesse un po’. Lui accettò subito, immediatamente, senza mostrare nemmeno un attimo di esitazione. Prese il bicchiere in mano e lo guardò come se fosse una reliquia sacra. Poi, prima di bere, lanciò un’occhiata alla fata. Un’occhiata che nemmeno lui sapeva cosa volesse dire, ma che immaginava potesse esprimerle tutta la complicità di cui era capace.
    Avvicinò il vetro alle labbra. Lo guardò attentamente, girandolo proprio nel punto esatto dove una piccola goccia di liquido bianco disegnava le labbra di lei. Bevve da lì, quasi ostentandolo. Mentre beveva la osservava. Ne prese un lungo sorso, poi staccò la bocca dal vetro e lo porse di nuovo a lei. Sempre con lo stesso sguardo, sempre con una gran voglia di parlarle nel cuore.
    Lei accettò di prendere il bicchiere che tornava nelle sue mani. Ma i suoi occhi erano cambiati. Il viaggiatore si sentì precipitare lungo il più nero e disperato burrone che possa mai esistere. Lesse in quegli occhi da fata del disgusto. Volle credere, mille volte credere, di sbagliarsi, di non aver letto quello che invece sapeva di aver visto. E ne ebbe la conferma quando vide che la fata si apprestava a dare l’ultimo sorso al bicchiere. Ma questa volta, proprio con un gesto ostentato come fu quello del viaggiatore, bevve da un altro punto del bicchiere. E lo fece proprio per farlo vedere a lui, ne aveva la certezza. La fata si alzò in piedi. Ora lei camminava per andarsene e perdersi nella foresta.
    Il viaggiatore rimase immobile. Sentì che poteva tutto finire in quell’istante. Nella sua vita era tutto finito così.

    No. Questa volta no. Erano lacrime quelle che aveva visto bagnare i suoi occhi? Il viaggiatore capì. Non era repulsione quella che lei aveva provato. Si alzò in piedi e corse verso di lei, fino alla soglia di quegli alberi fitti.
    “Non devi venire” disse lei quando lo vide “In questo bosco più si va avanti e più ci si perde. I rami si annoderanno alla gola e il fango inghiottirà i corpi”.
    Il viaggiatore sorrise. Era la prima volta in tutta la sua vita che si sentiva così. Prese per mano la sua fata. Ed entrò con lei nel bosco.
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  2. #2
    Lo Zio L'avatar di flash
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    Predefinito Re: Occhi

    Come prosa è splendida,e dosa abilmente la parte descrittiva del testo con le emozioni del "viaggiatore".Un racconto permeato di alone quasi magico,sfumato,sogno e realtà in attimi di poetica prosa romanticheggiante.Bella.
    La "trama" del racconto non sembra chiarissima.Nel senso che forse ciò rientra nell'alone "magico" menzionato in precedenza.Comunque.

    Non male.Complimenti .

  3. #3
    Moderatore nel silenzio L'avatar di Mikk
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    Predefinito Re: Occhi

    Grazie
    La poca chiarezza dell'intreccio è dovuta al fatto che spesso i racconti che scrivo derivano da sogni, quindi sono più immagini che avvenimenti...

  4. #4
    Lo Zio L'avatar di linux2
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    Predefinito Re: Occhi

    A me piace, è lasciato tutto il significato all'interpretazione, e poi la storia è raccontata davvero molto bene.

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