Fosse anche la mia
purche' L'Italia viva
Dunque ecco la', ben in vista, con quei visi di ragazzi incattivii dalle delusioni patite, brandendo le armi che abbiamo raccolto nei mucchi della resa.
Molti di noi hanno reindossato la camicia nera, si sono riappuntati sul bavero della giubba quei fasci che avevamo portato sulle uniformi di balilla, di avanguardisti, di giovani fascisti, altri si sono fregiati con i nuovi gladi incorniciati d'alloro della X.ma Mas e delle altre unita' dell'esercito, della marina e dell'aviazione repubblicane. Abbiamo ripreso a marciare per le strade bombardate e ormai semideserte delle citta', in mezzo a gente silenziosa e pesta, che si sforza di distogliere lo sguardo da quella nostra scomoda presenza, carica di rimproveri, dietro vessilli nei quali il buco originario dell'8 settembre e' stato chiuso da un'aquila che regge tra gli artigli il fascio repubblicano, e a cantare le vecchie canzoni apprese nelle parate militari e nelle adunate patriottiche, alle quali se ne sono aggiunte altre spevalde e amare insieme, nate nei nostri stessi ranghi, che celebrano l'orgoglio di quella scelta eretica e il disprezzo per chi ha abbandonato il combattimento:
Le donne non ci vogliono piu' bene
Perche' portiamo la camicia nera
[...]
Ce ne freghiamo, la signora Morte
Fa la civetta in mezzo alla battaglia
Si fa baciare solo dai soldati
Forza ragazzi facciamole la corte
Diamole un bacio sotto la mitraglia
Lasciamo le altre donne agli imboscati!
Sono le nostre smilze compagnie che presidiano quei paesi, quelle valli e quei monti dove la guerriglia sta portando a segno i suoi primi colpi.
Nella realta' di tutti i giorni, quella degli scontri, le imboscate, i rastrellamenti, noi siamo, per la Resistenza e per la gente comune che vede in noi la provocatoria memoria vivente di un passato che si rinnega e si vorrebbe cancellare e i responsabili della continuazione delle pene e delle privazioni della guerra, la forza armata nella quale si materializza il risorto fascismo, siamo <<i fascisti>>, come d'altronde indicano i simboli che abbiamo raccolto e come si proclamano non pochi di noi. Ma in che cosa consiste il <<fascismo>> di questi giovani di diciannove, diciotto, diciassette, sedici anni? Fascisti <<per battesimo e non per convinzione>>, come scriveva una giovane ausiliaria della X.ma Mas. Che contenuti ideologici, di conoscenze storiche e sopratutto di atti individuali, di dirette responsabilita' con il regime crollato nell'estate del '43, esso ha? Che significato ha per noi la scelta compiuta e quali esiti ad essa prevediamo? Nei giorni immediatamente successivi all'8 settembre conobbi un gruppo di ex allievi ufficiali della Milizia, che avevano frequentato una speciale scuola istituita per formare i quedri di quelle unita' d'elite, che erano i battaglioni <<M>>. Si trattava di giovani intorno ai vent'anni, studenti universitari, volontari gia' reduci da vari fronti, selezionati tra i migliori delle ultime leve. Un gruppo di essi, a seguito dello sbarco alleato sulla penisola,
aveva disertato quella scuola gia' prima dell'8 settembre per unirsi a una divisione di paracadutisti tedesca in trasferimento verso il fronte di combattimento in Calabria, per andare <<a fermare il nemico>>. Il piu' autorevole di questi giovani dal passato di ardenti fascisti era un caporal maggiore di nome Ceroni, un giovane serio e riflessivo, che in quei giorni di grande disorientamento, prima della ricomparsa di Mussolini, si sforzava con i suoi camerati di esaminare la situazione creatasi con la caduta del fascismo, la resa, la dissoluzione dello stato e dell'esercito e dare un significato alla decisione da loro presa di non gettare le armi e alla scelta che noi piu' giovani avevamo compiuto, arruolandoci proprio in quel momento in cui tutto crollava.
Ricordo con molta chiarezza le sue parole e quelle dei suoi camerati che allora per me, non ancora diciottenne avevano il valore di una illuminazione, e ne ho riferito nel mio libro
A cercar la bella morte. Ne riporto dei brani per mostrare quali fossero i sentimenti e le domande che si ponevano allora, in quei giorni in cui decidemmo della nostra vita, giovani piu' adulti e consapevoli di noi.
<< Cerroni diceva: << Noi lo chiamiamo ancora fascismo perche' e' la parola cui siamo abituati e per la quale sono morti i nostri camerati. Ma essa non ha piu' nulla a che vedere oramai con tutto quello che e' stato: Mussolini non c'e' piu', l'Italia e' sconfitta, il regime e' spazzato via ... Gli altri quelli che hanno tradito e buttato le armi, l'hanno rifiutata. Ma anche per noi non significa piu' una cosa precisa e univoca ... Si tratta per ciascuno di noi di una cosa diversa, un'idea personale ... Ognuno e' rimasto per un motivo suo ... Perche' sono scappati di casa quei ragazzi quando tutto era finito? Chi li ha chaimati? Che vogliono?>>
In sostanza quel giovane allievo ufficiale, che mori' pochi giorni dopo e verso il quale andava il rispetto dei suoi compagni e la piu' incondizionata ammirazione di noi piu' giovani, era consapevole che il fascismo e tutto quanto lo aveva connotato fosse finito, e che quel loro dichiararsi ancora fascisti era solamente un atto di fedelta' ai loro compagni caduti e un modo per contrapporsi alla disersione e al voltafaccia di coloro che avevano rinnegato il loro passato; e aveva un connotato personale di ordine morale dal contenuto diverso per ciascuno di noi.
Che non si trattasse del facismo quale si era toricamente affermato, delle sue istituzioni, della sua dottrina, e anche dei suoi uonimi, dei quali uno di loro diceva: << Da maggiore in su, tutti traditori!>>, e' evidente.
Nei primi anni del dopoguerra, quando fra reduci di Salo', ci si cercava come un gregge disperso e perseguitato, ci si dava appuntamento in luoghi isolati e appartati per ritrovare un viso amico, uno con cui scambiare liberamente una parola, qualcuno si incarico' di organizzare delle riunioni e dei dibattiti semiclandestini per fare un po' di luce su quanto avevamo vissuto, tentere di trasferire dalla istintualita' e l'emotivita' in cui si erano svolte all'ordine razionale di un linguaggio articolato quelle esperienze e trovare
delle parole che dicessero cosa eravamo stati.
In questi incontri che a Roma avvenivano in una saletta di un istituto religioso a piazza Sant'Agostino, ci si interrogava <<su cosa fosse>> il fascismo.
E ognuno ne aveva una sua interpretazione dai contenuti vaghissimi che quasi nulla avevano a che fare con cio' che il fascismo era stato nella realta' della storia, e che avrebbero potuto adattarsi a qualsiasi ideologia o credo politico. Venivano fuori affermazioni quali: <<Il fascismo e' un modo di essere>>, e chissa' cosa ci sembrava di dire; <<e' una concezione erorica della vita>>, ovvero <<e' una capacita' di sentire con passione, che solo chi la possiede puo' capire>> e via discorrendo.
Cercavamo, in quei libretti che si andavano stampando presso piccole case editrici dalla effimera vita di una stagione, totalmente ignorati dalla cultura ufficiale e che ebbero diffusione solo tra i reduci di Salo', parole e formule che ci spiegassero. Ricordo, tra le altre, la lettera di un breve romanzo che raccontava le vicende di un volontario della RSI tra le atrocita' e i disperati eroismi di quella guerra civile, dal titolo Gavetta Nera, scritto da un giovane autore, Bruno De Lisi, classe 1926.
Il protragonista del racconto era un ex repubblichino che a guerra finita veniva ricoverato in una speciale clinica dove gli venivano somministrate cure e trattamenti per permettergli di <<ammazzare i ricordi>> che invece tornavano con ossessiva insistenza. In questo ingenuo romanzetto c'erano passaggi che esprimevano i confusi sentimenti che ci avevano mossi:
"Quando le chiesi [e' il giovane protagonista che interroga la sua ragazza, Anna] perche' veniva con me che avevo i giorni contati, o almeno un futuro piuttosto difficile,
mi disse che veniva con me per la medesima ragione per la quale avevo scelto quella strada.
- Ami la vita difficile?
- Amo vivere secondo i miei sentimenti
- E io lo stesso."
Oppure un altro passaggio, quando un'infermiera della clinica, con la quale ha stabilito rapporti di amicizia, gli chiede:
- A che cosa sono serviti tutti quei morti?
- I nostri - dissi - sono caduti per la vita dello spirito."
Erano queste le vaghezze e le ambigiuta' in cui ci dibattevamo, le formule che sembravano ci spiegassero.
Quando a quelle riunioni cominciarono a presentarsi persone piu' mature o nostri coetanei gia' inseriti nelle organizzazioni giovanili del movimento politico che si dichiarava erede del fascismo, i quali pretendevano di indottrinarci <<a posteriori>> anch'essi a dirci <<cosa eravamo stati>>, nascevano dispute e anche risse furibonde, perche' quello che ci veniva propinato e si pretendeva che riconoscessimo quale nostra ispirazione - stato etico, principio di gerarchia e poi corporativismo, socializzazione e via discorrendo - non era il <<nostro>> fascismo.
Volendo indicare appunto con questa parola quasi esclusivamente solo quell'empito di sentimento che ci aveva sollevati ed era sfociato in quell'atto di rivolta contro i modi e le conseguenze dell'armistizio dell'8 settembre, la non accettazione di quel voltafaccia, quel soprassalto di ingenuo elementare senso di dignita' e di coerenza di uomini. Che nelle parole di quel giovane autore, Bruno De Lisi, come dichiarava il protagonista alla fine del romanzo nel momento in cui sta per essere dimesso dalla clinica, dove non era riuscito ad <<ammazzare>> quei ricordi cosi' scomodi e fastidiosi per tutti, si sintetizzava in passaggi come questo:
"Mi prendeva il disgusto al pensiero che presto mi sarei dovuto accostare ad un mondo in cui era impossibile vivere eroicamente, secondo gli impulsi del cuore. Per non vivere in questo sistema io e l'Alfiere avevamo combattuto e Anna si era sacrificata, e per questo, fino a pochi giorni indietro, avevo sopportato il peso di avvenimenti, all'apparenza irreali e disumani, che non erano altro che il tentativo di impedire che un sacrilegio contaminasse la nostra vita"
E' chiaro che siamo nell'ambito del piu' puro e ingenuo idealismo adolescenziale, in una concezione etico-epica della vita che col fascismo, quale dottrina e prassi storica, ha ben poco da spartire.
C'erano, comunque, anche fra di noi alcuni, appena un poco piu' adulti, che avevano idee piu' chiare, piu' precise, sui concreti perhce' di quella scelta da parte di tanti, che altro non erano che semplice senso del dovere, coerenza col proprio passato di soldati, sentimento di dignita' personale, responsabilita' verso il proprio paese.
Adriano Bolzoni, ventun'anni, ex sergente dell'esercito che aveva scelto per Salo', in un bellissimo libretto comparso nel 1946 dal titolo
La guerra questo sporco affare scriveva:
<<Io non sono mai stato fascista. Come intendono almeno. Eppure ho combattuto, volontario, una guerra che chiamano fascista, ed oggi partecipo cosi' all'ultimo periodo di questa guerra, con alle spalle un tricolore con l'emblema del fascio dentro [...]. Quanti come me nella generazione perduta, quantifra costoro che ancora si battono. Quanti ho incontrato che non erano fascisti e non capivano quale merito vi fosse nell'esserlo e quanti non funorno antifascisti perche' non comprendevano quale nobilta' vi fosse essendolo,
quando la Patria era fascista, lo Stato anche e fasciste le leggi che ne regolavano la vita. Costoro come me, per natura direi, non capivano la disersione, la fuga, l'imboscarsi, il sabotaggio alla guerra quando erano essi a farla, a rimetterci la vita e il sangue>>.
Di questo sergente, che l'8 settembre avava colto in Montenegro e che con un manipoli di commilitoni non aveva buttato le armi e in un'avventurosa marcia, durante la quale <<Serbi, tedeschi, montenegrini, albanesi, greci:
"Italiani", urlavano. E ci tiravano>> si era aperto un passaggio tra quelle aspre montagne fino alla costa edi dove su un peschereccio era rientrato in patria, il caso aveva fatto un corrispondente di guerra.
Come tale era stato inviato prima a Nettuno sul fronte tenuto dal battaglioni Barbarigo della X.ma Mas, fra Littoria e Cisterna, e piu' tardi, quando dai campi di addestramento della Germania aerano tornate le quattro divisioni dell'esercito di Graziani, in Garfagnana presso la divisione alpina Monterosa. Con quei soldati che avevano risposto ai bandi di chiamata alle armi del governo della RSI aveva vissuto le esperienze delle trincee, dei caposaldi, le attivita' di pattuglia, i tremendi bombardamenti alleati. E aveva avuto l'opportunita' di cogliere gli uomori, i sentimenti di quei soldati che si trovavano adesso sulla linea del fronte a continuare quella assurda guerra senza speranza:
<<Chiare idee politiche, o solamente idee, non esistono. I soldati sanno poco di fascismo o di antifascismo: sanno che loro devono continuare, cosi', in questo senso. Disprezzano cordialmente i tedeschi quando non li odiano
ed ad essi sottraggono quanto possono in armi e materiali.
[...] Mille uomini, mille motivi diversi. Il fascismo e' l'ultima cosa, l'ultimissima. Quando due hanno il tempo di parlarne ne parlano distrattamente: quattro frasi brevi e rapide. Eppure pagano per esso: incomprensibile>>
Importante, mi sembra, quest'ultima constatazione, nella quale, gia' allora, negli anni immediatamente successivi alla fine della guerra c'era qualcuno di noi che sapeva chiaramente come quei soldati, quei giovani, che volontari
o di leva si erano arruolati nelle forze armate di Salo', erano andati, consapevoli o meno , <<a pagare>> per il fascismo, perche' qualcuno doveva pur esserci che avesse il coraggio e la dignita' di andare a saldare il conto che il paese aveva aperto con la storia, ad assumersi per tutti la responsabilita' di quella che era stata una generale ubriacatura nazionale.
In quel contesto Bolzoni racconta episodi che hanno del paradossale: quello di un maro' della divisione San Marco che per aver fatto esplodere un carro armato americano era stato decorato della croce di ferro tedesca, e che avrebbe potuto benissimo, secondo l'autore, essere fregiato anche della bronze star americana per aver sabotato nei pressi si San Savino due camion carichi di ss, provocando la morte di numerosi di essi.
Quel soldato era figlio di ebrei: la madre era stata inviata in un campo di concentramento, mentre il padre era stato ucciso dalla mitraglia di un Mitchell americano.
E ancora il caso di un alpino del gruppo <<Bergamo>>, <<feroce antifascista>> reduce di Russia da dove aveva riportato in patria un lembo della bandiera del reggimento, e dove il suo capitano, nelle gelide notti passate davanti alla stufa in un caposaldo sul Don, lo aveva inizialto al comunismo, che egli a sua volta andava spiegando ai suoi commilitoni dell'esercito di Graziani, il quale pero' continuava a combattere nel suo gruppo
alpino dalla parte di Salo', perche' quel suo capitano, morendo, gli aveva detto: <<la bandiera soprattutto>>.
Casi estremi e singolari, ma che danno la misura di quanto variegata e contraddittoria fu la partecipazione a quella esperienza anche a livello di semplici soldati, di giovani, di ragazzi idealisti, che pagarono largamente,
molti con la vita, e furono bollati dall'etichetta, che pretendeva di infamarli, di <<fascisti>>, mentre proprio la loro partecipazione, la loro ingenua dedizione, i loro inutili eroismi quella etichetta nobilitarono.
La quale per gran parte di essi significava solo puro e semplice patriottismo, ingenuo patriottismo, che a volte si manifestava in un vero <<culto della patria>>, al quale la religione in cui erano cresciuti li aveva educati e che toccava in casi non rari vette di reale esaltazione mistica.
<<Io vivo per la Patria e pae la Patria ho giurato la morte>>.
scriveva alla madre, prima di essere fucilata, agli inizi di maggio del 1945, nei pressi di Torino, Margherita Audisio giovane ausiliaria di vent'anni:
<<Tutti i pensieri, le passioni di adolescente, di giovane ventenne non mi hanno fatto volgere gli occhi, non mi hanno vinto. Io sento le pupille sbarrate all'orizzonte lontano e nebuloso: la' e' la Patria>>.
<<Reazione di pelle>> di fronte a quel voltafaccia, secondo Egidio Steppa, scelta obbligata dovuta all'educazione ricevuta per Augusto Ceracchini, atto di disperato coraggio e sfida alla <<signora morte>>, come canta Mario Castellacci nella canzone 'Le donne non ci vogliono piu' bene', fedelta' verso i propri compagni caduti e contrapposizione a chi ha disertato il campo come dichiara il caporale Cerroni, <<per vivere secondo i propri sentimenti e non essere contaminato da un sacrilegio>> come scrive Bruno De Lisi, per semplice dignita' di soldati secondo Adriano Bolzoni, <<esigeza morale e nazionale>> come dichiara J. Valerio Borghese.
E' questa la gamma dei vari motivi e pulsioni che spingono quei trecento mila giovani volontari a mettere a repentaglio la loro propria vita, e scegliere, consapevoli o meno la <<strada sbagliata>>.
Ma come manifestare questa volonta' di rifiuto della sorte che ci e' toccata quali membri di una comunita' che si e' disintegrata? In che modo opporsi all'evento che ha causato la dissoluzione dei vincoli di lealta', di fedelta', di subordinazione che la tenevano unita e l'ha precipitata in una realta' in cui imbella e disarmata, additata dell'ex alleato e dall'ex nemico e' esposta alla ingiuria di chiunque> Come concentrare in un gesto emblematico questa volonta' di riscatto da quella sorte, che e' l'ispirazione comune di quegli uomini?
In un solo modo: con il contrario della resa, l'opposto di quanto gli altri, la maggioranza della nazione ha scelto o passivamente accettato; con il riprendere le armi e riacquistare cosi' la propria dignita' di soldati e il rispetto degli altri.
Il giornale <<Folgore>> dei paracadutisti della RSI apre cosi' il primo numero:
"Solo la guerra, nient'altro che la guerra, ancora guerra deve essere lo scopo di ogni nostro pensiero e ogni nostra attivita'"
E' tanto bruciante la vergogna di quella resa, di quelle defezioni, dei mucchi di armi abbandonate sul ciglio delle strade, di quelle teorie di soldati laceri, in abiti scompagnati, avuti in dono dalla pieta' di donne che in essi non hanno visto altro che dei <<figli di mamma>>, che il solo imperativo e' quello del combattimento, al di la' degli esiti e della propria sorte.
In ultima analisi, del motto che sintetizza la cultura nella quale quella generazione era stata educata, ripetuto con martellante insistenza in ogni occasione - <<Credere, Obbedire, Combattere>> - solo l'ultimo imperativo e' sopravvissutoal crollo che ha spazzato via tutto.
La caduta repentina e imbelle di Mussolini e del fascismo ha sgretolato il Credere, la fuga del re e del governo, lo sfacelo dello stato e quindi la scomparsa di ogni autorita' hanno sciolto ogni vincolo di obbedienza.
Non resta che quel <<Combattere>>, nudo e crudo, isolato in una sfera che non e' piu' quella della storia, ma quella eroica, la sola in cui e' permesso conseguire la propria redenzione individuale dal destino che e' toccato in sorte come membri di una nazione.
<<La Nazione? ... La Patria>> diceva [il caporale Ceroni], <<Non siamo rimasti che noi: io, te il graf Brembo', che diciamo: no! Non ci stiamo. Per questo non possiamo piu' costringere nessuno: chi vuol venire venga. Si mette un tavolo sulla piazza di ogni comune e si fa rullare il tamburo. Chi vuol venire prende il fucile dal mucchio e va al fronte: "Ecco cammina da quella parte, il nemico e' laggiu'">>.
Oppure secondo le parole di Adriano Bolzoni:
<<Noi non crediamo alla vittoria, anche se sognamo il miracolo. Crediamo che, smettendo ora, si venga meno a qualcosa che e' in noi. Ci sentiamo, percio' con chi vuole, di aspettare la fine, combattendo, da soldati, con le armi in mano>>.
Le armi in mano. Ecco il punto: da soldati, da uomini che hanno ancora cuore e polsi per portare armi e affrontare armi. In questa volonta' di combattimento e' implicito il bisogno di scrollarsi di dosso tutto l'amaro connesso all'avverarsi di tanti offensivi giudizi che stranieri avevano espressi sul carattere imbelle degli italiani e che ora riaffiorano brucianti alla memoria, da quel lontano <<terra di morti>> del Lamartine, all'ultimo, ancora piu' sferzante nel suo distacco, nel suo flemmatico disprezzo, del generale Alexander, comandante degli eserciti
alleati che hanno invaso la penisola: <<Gli italiani non hanno stomaco per la guerra>>.
Allora, anche se quella decisione e' stata presa individualmente, anche se volgendosi intorno ci si rende conto di essere in pochi nei confronti di tutta la nazione, la segreta speranza e' forse che:
<<Domani la storia dira' di noi: ecco un gruppo di pazzi. Non era la nazione italiana, ma erano italiani pur sempre. Travolti cosi' dall'inizio, soldati della piu' insensata delle guerre, hanno continuato ferocemente e valorosamente, insani e condannabili forse, ma degni di rispetto>>.
Il combattimento, il fronte, la volonta' di misurarsi con il nemico faccia a faccia. Mostrare il priprio coraggio; pur quando tutto e' crollato, mostrare di saper <<tenere la mano sul fuoco>> almeno quanto gli altri giovani delgli altri paesi, come scriveva Gaetano Tumiati. Cancellare in qualche modo l'immagine di quei soldati sbandati e spauriti, che per la dissoluzione di ogni gerarchia e l'abbandono dei capi, hanno gettato le armi e sono tornati fuggiaschi e sconfitti a casa.
Ecco come un testimone insospettabile, un ragazzo di quattordici hanni, collocato sulla sponda avversa, osservatore curioso e attento di quanto si svolgeva in quei giorni sotto i suoi occhi, racconta la partenza per il fornte del reparto in cui io militai, la Legione Tagliamento che per sette mesi era stataimpegnata nella Valsesia in una feroce controguerrigli in cui alle imboscate, gli eccidi, gli attacchi proditori si era risposto con altrettanto spietate rappresaglie, rastrellamenti, fucilazioni, incendi, ai danni delle formazoni garibaldine di Moscatelli:
<<Passo' una moto con due militi dei quali uno grido' dalla strada ai fascisti che erano nel mio giardino di lasciare la postazione e di concentrarsi in piazza per la partenza. Vi era un'atmosfera gioiosa di fine campagna. Uscii anc'io e vidi in piazza uno spettacolo singolare.
Ivi si era raccolto tutto il battaglione in una indescrivibile allegria generale. alcuni militi credevano di essere mandati al fuoco di Cassino ed erano addirittura stravolti dalla gioia.Vi erano molti camion gremiti e prionti alla partenza in fila davanti all'Albergo d'Italia.
A terra stavano gli ufficiali Altri automezzi si stavano caricando. Da tutta la piazza veniva un clamore assordante>>.
Certo un giovane di oggi scuotera' il capo incredulo e sgomento davanti all'immagine di quei coetanei d'allora che partono per il fronte <<stravolti dalla gioia>>. Ma l'acerbo cronista di quella giornata non ha aggiunto una parola in piu' a quella che era la realta'.
E' preciso nella mia memoriail ricordo di quella partenza in un'atmosfera di allegria, di fine di un'attesa, di coronamento dai motivi che ci avevano spinto a lasciare le nostre case, a mettere in giuoco le nostre vite, per andare al combattimento.
E cosi' incidere in qualche moso sulla storia? sulle sorti di quel conflitto? Nella speranza di trarre, con quella partecipazione, vantaggi per il nostro paese dalla eventuale vittoria tedesca?
<<Noi non crediamo nella vittoria, anche se sognamo il miracolo>> scriveva Adriano Bolzoni. Ed e' cosi'. Anche se in momenti di esaltazione c'era chi si aggrappava alla chimera delle armi segrete che avrebbero capovolto le sorti dello scontro, oscuramente sapevamo che gli esiti di quella guerra erano segnati e che comunque noi, come nazione, ne eravamo fuori.
<<Io non voglio tornare al fronte per vincere la guerra>> scrive uin un romanzo autobiografico, un'altro ragazzo di Salo', Mario Gandini, giovane sottotenete d'artiglieria, che , reduce dal fronte russo, dopo mesi di incertezze e interogativi, decide di riprendere le armi, e si presenta a un centro di arruolamento.
<<Voglio tornare al fronte per perderla. Soltanto che la volgio perdere a modo mio.>>
Anche questo romanzo, La caduta di Varsavia, pubblicato da Longanesi nel 1964, come tutte le altre testimonianze repubblichine che andiamo via via recuperando, e' stato naturalmente ignorato dalla storiografia ufficiale. In esso e' narrata la vicenda dell'autore e di un suo commilitone che, giovani ufficiali, classe 1921, partiti allo scoppio della guerra e inviati in Russia, sono sopravvisuti a quella tragedia che aveva inghiottito il corpo di spedizione italiano, e tornati in patria, nella primavera del'44 si arruolarono nella X.ma Mas per andare a <<perdere>> quella guerra, <<a modo loro>> che e' lo stesso degli altri autori citati. Quello che si evince dalle poche righe dove e' descritto l'arrivo di quei due sottotenenti di artiglieria, che portano all'asola della giacca il nastrino della <<croce di ghiaccio>>, al comando della X.ma Mas a La Spezia dove, dopo lunghe ediscussioni e riflessioni, hanno deciso di presentarsi per chiedere di essere arruolati.
<<La caserma era sul mare, e grosse lettere nere correvano sopra i muri rossi del cortile:
"La guerra continua. L'Italia mantiene la parola data, gelosa custode delle sue millenarie tradizioni. Maresciallo d'Italia Pietro Badoglio, Marchese del Sabotino, Duca di Addis Abeba".
Sul pennone, accanto alla batteria lanciasiluri, sventolava una grande bandiera tricolore con un buco al posto della stemma sabaudo>>.
Il modo che Gandini e il suo collega scelgono per andare a <<perdere quella guerra>> e' allora quello cui inevitabilmente conducono <<le millenarie tradizioni>> di cui l'Italia <<e' gelosa custode>>, come ha proclamato il 25 luglio a nome del re e della nazione l'uomo che ha sostituito Mussolini alla guida dello stato, le quali impongono, senza scampo, ereditando le responsabilita' di un passato di cui si e' stati direttamente corresponsabili e compartecipi, <<di mantenere la parola data>>.
Se dopo quarantacinque giorni da quella solenne proclamazione il re e il suo maresciallo si rendono spergiuri e non solo decidono di non mantenere fede alla parola data, ma passano a quello che e' stato fino a oggi il nemico, atto per il quale il tenente Gandini ricorda di aver visto fucilare, mesi addietro, un suo artigliere, <<perche' voleva passae dall'altra parte>>, a lui, giovane sottotenente di complemento, e ai suoi commilitoni non resta altro che strappare lo scudo sabaudo dalla bandiera nazionale e farsi carico personalmente di quelle <<millenarie tradizioni>> e mantenre fede a quella parola.
Questa volonta' di combattimento, al di la' dei possibili esiti, questo imperativo di mantenere fede ai patti si sommano in una parola che non spetta al lessico della politica, degli interessi, del successo. E' quella che rende meno amara la sconfitta di Francesco I di Valois sul campo di Pavia in cui egli stesso, il re di Francia, cade prigioniero degli imperiali:
<<Tutto e' perduto fuorche' l'onore>>.
In Donne e mitra Enrico De Boccard immagina l'incontro per trattare una tregua d'armi, tra due ufficiali che si trovano su sponde opposte, uno comandante di una formazione partigiana, l'altro di una unita' dell'esercito di Salo'.
Quando sono l'uno di fronte all'altro per parlamentare si rendono conto di essersi conosciuti prima dell'8 settembre per aver servito e combattuto nello stesso reparto.
Quella data ha diviso i loro destini, li ha posti ora uno contro l'altro.
Prima di salutarsi e tornare ognuno dalla sua parte, quello che e' diventato capo partigiano cerca di convincere l'ex commilitone a disertare e unirsi alla sua formazione:
"Il comandante partigiano lo guardo' negli occhi: <<Proprio non ti andrebbe di venire con noi. Noi combattiamo per la Liberta'>>
I partigiani erano tutti in crocchio intorno ai due, le nere bocche dei mitra punteta verso terra, i fazzoletti rossi intorno alo collo.
<<No - rispose N** - non mi va. Noi combattiamo per questo>>. E indico' la striscia sulla sua manica sinistra."
Su quella striscia di fettuccia, nera per il lutto della patria, i paracadutisti della RSI vi avevano ricamato in oro la scritta: << PER L'ONORE >>.
[...]
Presidi e interi reparti militari che si arresero, consegnarono le armi dopo regolari trattative con i CLN, in totale spregio ai patti stipulati, vennero passati per le armi dopo inenarrabilisevizie. Gente fu prelevata a forza dalle prigioni e scomparve nel nulla, per una rassomiglianza, un'accusa senza alcun fondamento. Il generale Teruzzi, venne fucilato tre volte: tre innocenti, per il semplice fatto di portare una barba simile alla sua furono trucidati, implorando pieta' e proclamando la loro reale identita'. Lui mori' nel suo letto molti anni dopo. Giorgio Bocca ha dato una cifra approssimativa tra i dodici e i qundicimila uccisi. NO, il suo cuore partigiano lo ha spinto a indulgere, diminuire le proporzioni del massacro, edulcorando ulteriormente con l'espressione eufemistica: <<soluzione rivoluzionaria>.
In realta' si tratto' di molti di piu'. Gia' <<L'Opinione>> del lugio 1945 riportava la notizia di ventimila <<fascisti o presunti tali>> eliminati, tra i quali 3.000 donne. Nel 1951 il giornalista Ferruccio Lanfranchi, testimone dei fatti, secondo i suoi calcoli, su <<Il Tempo>> avanzava l'ipotesi di 50/60.000 uccisi.
E Silvio Betoldi nel settembre 1990 sul <<Corriere della Sera>> riferiva che in un colloquio con Ferruccio Parri, poco prima della sua morte, questi, che era stato comandante dei volontari della Liberta', gli aveva confidato che si era trattato di <<piu' di trentamila morti>>.
E infatti di <<piu' di trentamila>> si tratto'. Come risulta dai dati forniti nel 1994, dopo anni di ricerche, di analisi di elenchi nominativi e di testimonianze, dal gruppo di lavoro all'uopo costituito dall'Istituto Storico della RSI. Escludendo gli uccisi nella Venezia Giulia ad opera dei partigiani titini (23.000) e' stato stabilito che, fra militari e civili,
gli eliminati dal 25 aprile al 31 maggio 1945, furono 42.000!.
[...]
Non posso chiudere questo scritto senza ricordare il sacrificio di 43 miei giovani camerati, molti dei quali conoscevo personalmente, e i cui volti adolescenti sono ancora qui davanti ai miei occhi, fucilati il 28 aprile 1945 da una banda di partigiani comunisti a Rovetta, un paesino posto sotto il passo della Presolana, in provincia di Bergamo.
La loro fine mi fu raccontata dalla madre di uno di essi, Alvaro Porcarelli, in un pomeriggio di tanti anni fa in un nudo appartamento all'ultimo piano di un palazzone che guardava sul piazzale del Colosseo a Roma. Era l'imbrunire di un giorno di autunno e il sole che tramontava dietro i ruderi del Palatino filtrava i suoi raggi lunghi attraverso i vetri coperti di polvere di una finestra davanti alla quale ci eravamo seduti.
Tutta la casa mostrava i segni manifesti dell'incuria e dell'abbandono. La madre di quel compagno d'arme, una donna sui cinquant'ann, gia' vedova, era rimasta completamente sola, essendo stati i suoi due <<ragazzi, che da quella stessa finestra avevano assistito a tante sfilate e parate militari>>, uccisi ambedue in quei giorni di sangue. Uno fucilato in quell'eccidio a Rovetta e l'altro <<impiccato con il filo spinato>>, come con la sua voce mormoro', in una localita' della Langhe.
Quei miei giovani commilitoni, comandati da un sottotenente di ventitue anni, molti dei quali convalescenti da ferite e malattie, rimasti isolati di presidio al passo della Presolana, avuta la notizia della fine della RSI e della morte di Mussolini, su pressioni del parroco e di altri maggiorenti del paese si erano arresi al locale CLN e avevano consegnato le armi, come disposto nei bandi affissi dalle nuove autorita'.
Il giorno successivo, una formazione partigiana comunista era scesa in paese dai monti e, impostasi icon le armi al CLN aveva rotto i patti e deciso di fucilare tutti quei militi.
Furono portati davanti al muro del cimitero, fu fatta loro scavare la fossa e vennero fucilati cinque per volta. Ognuna di quelle cinquine, cadendo sotto le raffiche, gridava: <<Viva L'Italia>>.
Un'altra cinquina veniva prelevata dal gruppo li in attesa, la facevano schierare davanti ai corpi ancora scalcianti di quelli gia' abbattuti, e nuovamente quando partiva la salva quei <<figli di ******a>> gridavano il nome della madre: <<Viva l'Italia>>.
Per otto volte, come le donne del paese, che chiuse nelle loro case, terrorizzate tendevano le orecchie a quegli spari e a quelle grida, raccontando alle madri di quei martiri, quando alcuni anni dopo si recarono lassu' a riesumare i resti dei figli, per otto volte, sotto quei monti, nel silenzio agghiacciato di quel giorno, sentirono le voci di quei ragazzi gridare:
<< Viva l'Italia >>.