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Discussione: 25 Aprile.

  1. #1
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    Predefinito 25 Aprile.


    Fosse anche la mia
    purche' L'Italia viva


    Dunque ecco la', ben in vista, con quei visi di ragazzi incattivii dalle delusioni patite, brandendo le armi che abbiamo raccolto nei mucchi della resa.
    Molti di noi hanno reindossato la camicia nera, si sono riappuntati sul bavero della giubba quei fasci che avevamo portato sulle uniformi di balilla, di avanguardisti, di giovani fascisti, altri si sono fregiati con i nuovi gladi incorniciati d'alloro della X.ma Mas e delle altre unita' dell'esercito, della marina e dell'aviazione repubblicane. Abbiamo ripreso a marciare per le strade bombardate e ormai semideserte delle citta', in mezzo a gente silenziosa e pesta, che si sforza di distogliere lo sguardo da quella nostra scomoda presenza, carica di rimproveri, dietro vessilli nei quali il buco originario dell'8 settembre e' stato chiuso da un'aquila che regge tra gli artigli il fascio repubblicano, e a cantare le vecchie canzoni apprese nelle parate militari e nelle adunate patriottiche, alle quali se ne sono aggiunte altre spevalde e amare insieme, nate nei nostri stessi ranghi, che celebrano l'orgoglio di quella scelta eretica e il disprezzo per chi ha abbandonato il combattimento:

    Le donne non ci vogliono piu' bene
    Perche' portiamo la camicia nera
    [...]
    Ce ne freghiamo, la signora Morte
    Fa la civetta in mezzo alla battaglia
    Si fa baciare solo dai soldati
    Forza ragazzi facciamole la corte
    Diamole un bacio sotto la mitraglia
    Lasciamo le altre donne agli imboscati!

    Sono le nostre smilze compagnie che presidiano quei paesi, quelle valli e quei monti dove la guerriglia sta portando a segno i suoi primi colpi.
    Nella realta' di tutti i giorni, quella degli scontri, le imboscate, i rastrellamenti, noi siamo, per la Resistenza e per la gente comune che vede in noi la provocatoria memoria vivente di un passato che si rinnega e si vorrebbe cancellare e i responsabili della continuazione delle pene e delle privazioni della guerra, la forza armata nella quale si materializza il risorto fascismo, siamo <<i fascisti>>, come d'altronde indicano i simboli che abbiamo raccolto e come si proclamano non pochi di noi. Ma in che cosa consiste il <<fascismo>> di questi giovani di diciannove, diciotto, diciassette, sedici anni? Fascisti <<per battesimo e non per convinzione>>, come scriveva una giovane ausiliaria della X.ma Mas. Che contenuti ideologici, di conoscenze storiche e sopratutto di atti individuali, di dirette responsabilita' con il regime crollato nell'estate del '43, esso ha? Che significato ha per noi la scelta compiuta e quali esiti ad essa prevediamo? Nei giorni immediatamente successivi all'8 settembre conobbi un gruppo di ex allievi ufficiali della Milizia, che avevano frequentato una speciale scuola istituita per formare i quedri di quelle unita' d'elite, che erano i battaglioni <<M>>. Si trattava di giovani intorno ai vent'anni, studenti universitari, volontari gia' reduci da vari fronti, selezionati tra i migliori delle ultime leve. Un gruppo di essi, a seguito dello sbarco alleato sulla penisola,
    aveva disertato quella scuola gia' prima dell'8 settembre per unirsi a una divisione di paracadutisti tedesca in trasferimento verso il fronte di combattimento in Calabria, per andare <<a fermare il nemico>>. Il piu' autorevole di questi giovani dal passato di ardenti fascisti era un caporal maggiore di nome Ceroni, un giovane serio e riflessivo, che in quei giorni di grande disorientamento, prima della ricomparsa di Mussolini, si sforzava con i suoi camerati di esaminare la situazione creatasi con la caduta del fascismo, la resa, la dissoluzione dello stato e dell'esercito e dare un significato alla decisione da loro presa di non gettare le armi e alla scelta che noi piu' giovani avevamo compiuto, arruolandoci proprio in quel momento in cui tutto crollava.
    Ricordo con molta chiarezza le sue parole e quelle dei suoi camerati che allora per me, non ancora diciottenne avevano il valore di una illuminazione, e ne ho riferito nel mio libro A cercar la bella morte. Ne riporto dei brani per mostrare quali fossero i sentimenti e le domande che si ponevano allora, in quei giorni in cui decidemmo della nostra vita, giovani piu' adulti e consapevoli di noi.

    << Cerroni diceva: << Noi lo chiamiamo ancora fascismo perche' e' la parola cui siamo abituati e per la quale sono morti i nostri camerati. Ma essa non ha piu' nulla a che vedere oramai con tutto quello che e' stato: Mussolini non c'e' piu', l'Italia e' sconfitta, il regime e' spazzato via ... Gli altri quelli che hanno tradito e buttato le armi, l'hanno rifiutata. Ma anche per noi non significa piu' una cosa precisa e univoca ... Si tratta per ciascuno di noi di una cosa diversa, un'idea personale ... Ognuno e' rimasto per un motivo suo ... Perche' sono scappati di casa quei ragazzi quando tutto era finito? Chi li ha chaimati? Che vogliono?>>

    In sostanza quel giovane allievo ufficiale, che mori' pochi giorni dopo e verso il quale andava il rispetto dei suoi compagni e la piu' incondizionata ammirazione di noi piu' giovani, era consapevole che il fascismo e tutto quanto lo aveva connotato fosse finito, e che quel loro dichiararsi ancora fascisti era solamente un atto di fedelta' ai loro compagni caduti e un modo per contrapporsi alla disersione e al voltafaccia di coloro che avevano rinnegato il loro passato; e aveva un connotato personale di ordine morale dal contenuto diverso per ciascuno di noi.
    Che non si trattasse del facismo quale si era toricamente affermato, delle sue istituzioni, della sua dottrina, e anche dei suoi uonimi, dei quali uno di loro diceva: << Da maggiore in su, tutti traditori!>>, e' evidente.

    Nei primi anni del dopoguerra, quando fra reduci di Salo', ci si cercava come un gregge disperso e perseguitato, ci si dava appuntamento in luoghi isolati e appartati per ritrovare un viso amico, uno con cui scambiare liberamente una parola, qualcuno si incarico' di organizzare delle riunioni e dei dibattiti semiclandestini per fare un po' di luce su quanto avevamo vissuto, tentere di trasferire dalla istintualita' e l'emotivita' in cui si erano svolte all'ordine razionale di un linguaggio articolato quelle esperienze e trovare
    delle parole che dicessero cosa eravamo stati.
    In questi incontri che a Roma avvenivano in una saletta di un istituto religioso a piazza Sant'Agostino, ci si interrogava <<su cosa fosse>> il fascismo.
    E ognuno ne aveva una sua interpretazione dai contenuti vaghissimi che quasi nulla avevano a che fare con cio' che il fascismo era stato nella realta' della storia, e che avrebbero potuto adattarsi a qualsiasi ideologia o credo politico. Venivano fuori affermazioni quali: <<Il fascismo e' un modo di essere>>, e chissa' cosa ci sembrava di dire; <<e' una concezione erorica della vita>>, ovvero <<e' una capacita' di sentire con passione, che solo chi la possiede puo' capire>> e via discorrendo.
    Cercavamo, in quei libretti che si andavano stampando presso piccole case editrici dalla effimera vita di una stagione, totalmente ignorati dalla cultura ufficiale e che ebbero diffusione solo tra i reduci di Salo', parole e formule che ci spiegassero. Ricordo, tra le altre, la lettera di un breve romanzo che raccontava le vicende di un volontario della RSI tra le atrocita' e i disperati eroismi di quella guerra civile, dal titolo Gavetta Nera, scritto da un giovane autore, Bruno De Lisi, classe 1926.
    Il protragonista del racconto era un ex repubblichino che a guerra finita veniva ricoverato in una speciale clinica dove gli venivano somministrate cure e trattamenti per permettergli di <<ammazzare i ricordi>> che invece tornavano con ossessiva insistenza. In questo ingenuo romanzetto c'erano passaggi che esprimevano i confusi sentimenti che ci avevano mossi:

    "Quando le chiesi [e' il giovane protagonista che interroga la sua ragazza, Anna] perche' veniva con me che avevo i giorni contati, o almeno un futuro piuttosto difficile,
    mi disse che veniva con me per la medesima ragione per la quale avevo scelto quella strada.
    - Ami la vita difficile?
    - Amo vivere secondo i miei sentimenti
    - E io lo stesso."
    Oppure un altro passaggio, quando un'infermiera della clinica, con la quale ha stabilito rapporti di amicizia, gli chiede:
    - A che cosa sono serviti tutti quei morti?
    - I nostri - dissi - sono caduti per la vita dello spirito."

    Erano queste le vaghezze e le ambigiuta' in cui ci dibattevamo, le formule che sembravano ci spiegassero.
    Quando a quelle riunioni cominciarono a presentarsi persone piu' mature o nostri coetanei gia' inseriti nelle organizzazioni giovanili del movimento politico che si dichiarava erede del fascismo, i quali pretendevano di indottrinarci <<a posteriori>> anch'essi a dirci <<cosa eravamo stati>>, nascevano dispute e anche risse furibonde, perche' quello che ci veniva propinato e si pretendeva che riconoscessimo quale nostra ispirazione - stato etico, principio di gerarchia e poi corporativismo, socializzazione e via discorrendo - non era il <<nostro>> fascismo.
    Volendo indicare appunto con questa parola quasi esclusivamente solo quell'empito di sentimento che ci aveva sollevati ed era sfociato in quell'atto di rivolta contro i modi e le conseguenze dell'armistizio dell'8 settembre, la non accettazione di quel voltafaccia, quel soprassalto di ingenuo elementare senso di dignita' e di coerenza di uomini. Che nelle parole di quel giovane autore, Bruno De Lisi, come dichiarava il protagonista alla fine del romanzo nel momento in cui sta per essere dimesso dalla clinica, dove non era riuscito ad <<ammazzare>> quei ricordi cosi' scomodi e fastidiosi per tutti, si sintetizzava in passaggi come questo:

    "Mi prendeva il disgusto al pensiero che presto mi sarei dovuto accostare ad un mondo in cui era impossibile vivere eroicamente, secondo gli impulsi del cuore. Per non vivere in questo sistema io e l'Alfiere avevamo combattuto e Anna si era sacrificata, e per questo, fino a pochi giorni indietro, avevo sopportato il peso di avvenimenti, all'apparenza irreali e disumani, che non erano altro che il tentativo di impedire che un sacrilegio contaminasse la nostra vita"

    E' chiaro che siamo nell'ambito del piu' puro e ingenuo idealismo adolescenziale, in una concezione etico-epica della vita che col fascismo, quale dottrina e prassi storica, ha ben poco da spartire.
    C'erano, comunque, anche fra di noi alcuni, appena un poco piu' adulti, che avevano idee piu' chiare, piu' precise, sui concreti perhce' di quella scelta da parte di tanti, che altro non erano che semplice senso del dovere, coerenza col proprio passato di soldati, sentimento di dignita' personale, responsabilita' verso il proprio paese.
    Adriano Bolzoni, ventun'anni, ex sergente dell'esercito che aveva scelto per Salo', in un bellissimo libretto comparso nel 1946 dal titolo La guerra questo sporco affare scriveva:
    <<Io non sono mai stato fascista. Come intendono almeno. Eppure ho combattuto, volontario, una guerra che chiamano fascista, ed oggi partecipo cosi' all'ultimo periodo di questa guerra, con alle spalle un tricolore con l'emblema del fascio dentro [...]. Quanti come me nella generazione perduta, quantifra costoro che ancora si battono. Quanti ho incontrato che non erano fascisti e non capivano quale merito vi fosse nell'esserlo e quanti non funorno antifascisti perche' non comprendevano quale nobilta' vi fosse essendolo,
    quando la Patria era fascista, lo Stato anche e fasciste le leggi che ne regolavano la vita. Costoro come me, per natura direi, non capivano la disersione, la fuga, l'imboscarsi, il sabotaggio alla guerra quando erano essi a farla, a rimetterci la vita e il sangue>>.

    Di questo sergente, che l'8 settembre avava colto in Montenegro e che con un manipoli di commilitoni non aveva buttato le armi e in un'avventurosa marcia, durante la quale <<Serbi, tedeschi, montenegrini, albanesi, greci:
    "Italiani", urlavano. E ci tiravano>> si era aperto un passaggio tra quelle aspre montagne fino alla costa edi dove su un peschereccio era rientrato in patria, il caso aveva fatto un corrispondente di guerra.
    Come tale era stato inviato prima a Nettuno sul fronte tenuto dal battaglioni Barbarigo della X.ma Mas, fra Littoria e Cisterna, e piu' tardi, quando dai campi di addestramento della Germania aerano tornate le quattro divisioni dell'esercito di Graziani, in Garfagnana presso la divisione alpina Monterosa. Con quei soldati che avevano risposto ai bandi di chiamata alle armi del governo della RSI aveva vissuto le esperienze delle trincee, dei caposaldi, le attivita' di pattuglia, i tremendi bombardamenti alleati. E aveva avuto l'opportunita' di cogliere gli uomori, i sentimenti di quei soldati che si trovavano adesso sulla linea del fronte a continuare quella assurda guerra senza speranza:
    <<Chiare idee politiche, o solamente idee, non esistono. I soldati sanno poco di fascismo o di antifascismo: sanno che loro devono continuare, cosi', in questo senso. Disprezzano cordialmente i tedeschi quando non li odiano
    ed ad essi sottraggono quanto possono in armi e materiali.
    [...] Mille uomini, mille motivi diversi. Il fascismo e' l'ultima cosa, l'ultimissima. Quando due hanno il tempo di parlarne ne parlano distrattamente: quattro frasi brevi e rapide. Eppure pagano per esso: incomprensibile>>

    Importante, mi sembra, quest'ultima constatazione, nella quale, gia' allora, negli anni immediatamente successivi alla fine della guerra c'era qualcuno di noi che sapeva chiaramente come quei soldati, quei giovani, che volontari
    o di leva si erano arruolati nelle forze armate di Salo', erano andati, consapevoli o meno , <<a pagare>> per il fascismo, perche' qualcuno doveva pur esserci che avesse il coraggio e la dignita' di andare a saldare il conto che il paese aveva aperto con la storia, ad assumersi per tutti la responsabilita' di quella che era stata una generale ubriacatura nazionale.
    In quel contesto Bolzoni racconta episodi che hanno del paradossale: quello di un maro' della divisione San Marco che per aver fatto esplodere un carro armato americano era stato decorato della croce di ferro tedesca, e che avrebbe potuto benissimo, secondo l'autore, essere fregiato anche della bronze star americana per aver sabotato nei pressi si San Savino due camion carichi di ss, provocando la morte di numerosi di essi.
    Quel soldato era figlio di ebrei: la madre era stata inviata in un campo di concentramento, mentre il padre era stato ucciso dalla mitraglia di un Mitchell americano.
    E ancora il caso di un alpino del gruppo <<Bergamo>>, <<feroce antifascista>> reduce di Russia da dove aveva riportato in patria un lembo della bandiera del reggimento, e dove il suo capitano, nelle gelide notti passate davanti alla stufa in un caposaldo sul Don, lo aveva inizialto al comunismo, che egli a sua volta andava spiegando ai suoi commilitoni dell'esercito di Graziani, il quale pero' continuava a combattere nel suo gruppo
    alpino dalla parte di Salo', perche' quel suo capitano, morendo, gli aveva detto: <<la bandiera soprattutto>>.
    Casi estremi e singolari, ma che danno la misura di quanto variegata e contraddittoria fu la partecipazione a quella esperienza anche a livello di semplici soldati, di giovani, di ragazzi idealisti, che pagarono largamente,
    molti con la vita, e furono bollati dall'etichetta, che pretendeva di infamarli, di <<fascisti>>, mentre proprio la loro partecipazione, la loro ingenua dedizione, i loro inutili eroismi quella etichetta nobilitarono.
    La quale per gran parte di essi significava solo puro e semplice patriottismo, ingenuo patriottismo, che a volte si manifestava in un vero <<culto della patria>>, al quale la religione in cui erano cresciuti li aveva educati e che toccava in casi non rari vette di reale esaltazione mistica.
    <<Io vivo per la Patria e pae la Patria ho giurato la morte>>.
    scriveva alla madre, prima di essere fucilata, agli inizi di maggio del 1945, nei pressi di Torino, Margherita Audisio giovane ausiliaria di vent'anni:
    <<Tutti i pensieri, le passioni di adolescente, di giovane ventenne non mi hanno fatto volgere gli occhi, non mi hanno vinto. Io sento le pupille sbarrate all'orizzonte lontano e nebuloso: la' e' la Patria>>.
    <<Reazione di pelle>> di fronte a quel voltafaccia, secondo Egidio Steppa, scelta obbligata dovuta all'educazione ricevuta per Augusto Ceracchini, atto di disperato coraggio e sfida alla <<signora morte>>, come canta Mario Castellacci nella canzone 'Le donne non ci vogliono piu' bene', fedelta' verso i propri compagni caduti e contrapposizione a chi ha disertato il campo come dichiara il caporale Cerroni, <<per vivere secondo i propri sentimenti e non essere contaminato da un sacrilegio>> come scrive Bruno De Lisi, per semplice dignita' di soldati secondo Adriano Bolzoni, <<esigeza morale e nazionale>> come dichiara J. Valerio Borghese.
    E' questa la gamma dei vari motivi e pulsioni che spingono quei trecento mila giovani volontari a mettere a repentaglio la loro propria vita, e scegliere, consapevoli o meno la <<strada sbagliata>>.
    Ma come manifestare questa volonta' di rifiuto della sorte che ci e' toccata quali membri di una comunita' che si e' disintegrata? In che modo opporsi all'evento che ha causato la dissoluzione dei vincoli di lealta', di fedelta', di subordinazione che la tenevano unita e l'ha precipitata in una realta' in cui imbella e disarmata, additata dell'ex alleato e dall'ex nemico e' esposta alla ingiuria di chiunque> Come concentrare in un gesto emblematico questa volonta' di riscatto da quella sorte, che e' l'ispirazione comune di quegli uomini?
    In un solo modo: con il contrario della resa, l'opposto di quanto gli altri, la maggioranza della nazione ha scelto o passivamente accettato; con il riprendere le armi e riacquistare cosi' la propria dignita' di soldati e il rispetto degli altri.
    Il giornale <<Folgore>> dei paracadutisti della RSI apre cosi' il primo numero:
    "Solo la guerra, nient'altro che la guerra, ancora guerra deve essere lo scopo di ogni nostro pensiero e ogni nostra attivita'"
    E' tanto bruciante la vergogna di quella resa, di quelle defezioni, dei mucchi di armi abbandonate sul ciglio delle strade, di quelle teorie di soldati laceri, in abiti scompagnati, avuti in dono dalla pieta' di donne che in essi non hanno visto altro che dei <<figli di mamma>>, che il solo imperativo e' quello del combattimento, al di la' degli esiti e della propria sorte.
    In ultima analisi, del motto che sintetizza la cultura nella quale quella generazione era stata educata, ripetuto con martellante insistenza in ogni occasione - <<Credere, Obbedire, Combattere>> - solo l'ultimo imperativo e' sopravvissutoal crollo che ha spazzato via tutto.
    La caduta repentina e imbelle di Mussolini e del fascismo ha sgretolato il Credere, la fuga del re e del governo, lo sfacelo dello stato e quindi la scomparsa di ogni autorita' hanno sciolto ogni vincolo di obbedienza.
    Non resta che quel <<Combattere>>, nudo e crudo, isolato in una sfera che non e' piu' quella della storia, ma quella eroica, la sola in cui e' permesso conseguire la propria redenzione individuale dal destino che e' toccato in sorte come membri di una nazione.
    <<La Nazione? ... La Patria>> diceva [il caporale Ceroni], <<Non siamo rimasti che noi: io, te il graf Brembo', che diciamo: no! Non ci stiamo. Per questo non possiamo piu' costringere nessuno: chi vuol venire venga. Si mette un tavolo sulla piazza di ogni comune e si fa rullare il tamburo. Chi vuol venire prende il fucile dal mucchio e va al fronte: "Ecco cammina da quella parte, il nemico e' laggiu'">>.
    Oppure secondo le parole di Adriano Bolzoni:
    <<Noi non crediamo alla vittoria, anche se sognamo il miracolo. Crediamo che, smettendo ora, si venga meno a qualcosa che e' in noi. Ci sentiamo, percio' con chi vuole, di aspettare la fine, combattendo, da soldati, con le armi in mano>>.
    Le armi in mano. Ecco il punto: da soldati, da uomini che hanno ancora cuore e polsi per portare armi e affrontare armi. In questa volonta' di combattimento e' implicito il bisogno di scrollarsi di dosso tutto l'amaro connesso all'avverarsi di tanti offensivi giudizi che stranieri avevano espressi sul carattere imbelle degli italiani e che ora riaffiorano brucianti alla memoria, da quel lontano <<terra di morti>> del Lamartine, all'ultimo, ancora piu' sferzante nel suo distacco, nel suo flemmatico disprezzo, del generale Alexander, comandante degli eserciti
    alleati che hanno invaso la penisola: <<Gli italiani non hanno stomaco per la guerra>>.
    Allora, anche se quella decisione e' stata presa individualmente, anche se volgendosi intorno ci si rende conto di essere in pochi nei confronti di tutta la nazione, la segreta speranza e' forse che:
    <<Domani la storia dira' di noi: ecco un gruppo di pazzi. Non era la nazione italiana, ma erano italiani pur sempre. Travolti cosi' dall'inizio, soldati della piu' insensata delle guerre, hanno continuato ferocemente e valorosamente, insani e condannabili forse, ma degni di rispetto>>.
    Il combattimento, il fronte, la volonta' di misurarsi con il nemico faccia a faccia. Mostrare il priprio coraggio; pur quando tutto e' crollato, mostrare di saper <<tenere la mano sul fuoco>> almeno quanto gli altri giovani delgli altri paesi, come scriveva Gaetano Tumiati. Cancellare in qualche modo l'immagine di quei soldati sbandati e spauriti, che per la dissoluzione di ogni gerarchia e l'abbandono dei capi, hanno gettato le armi e sono tornati fuggiaschi e sconfitti a casa.
    Ecco come un testimone insospettabile, un ragazzo di quattordici hanni, collocato sulla sponda avversa, osservatore curioso e attento di quanto si svolgeva in quei giorni sotto i suoi occhi, racconta la partenza per il fornte del reparto in cui io militai, la Legione Tagliamento che per sette mesi era stataimpegnata nella Valsesia in una feroce controguerrigli in cui alle imboscate, gli eccidi, gli attacchi proditori si era risposto con altrettanto spietate rappresaglie, rastrellamenti, fucilazioni, incendi, ai danni delle formazoni garibaldine di Moscatelli:
    <<Passo' una moto con due militi dei quali uno grido' dalla strada ai fascisti che erano nel mio giardino di lasciare la postazione e di concentrarsi in piazza per la partenza. Vi era un'atmosfera gioiosa di fine campagna. Uscii anc'io e vidi in piazza uno spettacolo singolare.
    Ivi si era raccolto tutto il battaglione in una indescrivibile allegria generale. alcuni militi credevano di essere mandati al fuoco di Cassino ed erano addirittura stravolti dalla gioia.Vi erano molti camion gremiti e prionti alla partenza in fila davanti all'Albergo d'Italia.
    A terra stavano gli ufficiali Altri automezzi si stavano caricando. Da tutta la piazza veniva un clamore assordante>>.
    Certo un giovane di oggi scuotera' il capo incredulo e sgomento davanti all'immagine di quei coetanei d'allora che partono per il fronte <<stravolti dalla gioia>>. Ma l'acerbo cronista di quella giornata non ha aggiunto una parola in piu' a quella che era la realta'.
    E' preciso nella mia memoriail ricordo di quella partenza in un'atmosfera di allegria, di fine di un'attesa, di coronamento dai motivi che ci avevano spinto a lasciare le nostre case, a mettere in giuoco le nostre vite, per andare al combattimento.
    E cosi' incidere in qualche moso sulla storia? sulle sorti di quel conflitto? Nella speranza di trarre, con quella partecipazione, vantaggi per il nostro paese dalla eventuale vittoria tedesca?
    <<Noi non crediamo nella vittoria, anche se sognamo il miracolo>> scriveva Adriano Bolzoni. Ed e' cosi'. Anche se in momenti di esaltazione c'era chi si aggrappava alla chimera delle armi segrete che avrebbero capovolto le sorti dello scontro, oscuramente sapevamo che gli esiti di quella guerra erano segnati e che comunque noi, come nazione, ne eravamo fuori.
    <<Io non voglio tornare al fronte per vincere la guerra>> scrive uin un romanzo autobiografico, un'altro ragazzo di Salo', Mario Gandini, giovane sottotenete d'artiglieria, che , reduce dal fronte russo, dopo mesi di incertezze e interogativi, decide di riprendere le armi, e si presenta a un centro di arruolamento.
    <<Voglio tornare al fronte per perderla. Soltanto che la volgio perdere a modo mio.>>
    Anche questo romanzo, La caduta di Varsavia, pubblicato da Longanesi nel 1964, come tutte le altre testimonianze repubblichine che andiamo via via recuperando, e' stato naturalmente ignorato dalla storiografia ufficiale. In esso e' narrata la vicenda dell'autore e di un suo commilitone che, giovani ufficiali, classe 1921, partiti allo scoppio della guerra e inviati in Russia, sono sopravvisuti a quella tragedia che aveva inghiottito il corpo di spedizione italiano, e tornati in patria, nella primavera del'44 si arruolarono nella X.ma Mas per andare a <<perdere>> quella guerra, <<a modo loro>> che e' lo stesso degli altri autori citati. Quello che si evince dalle poche righe dove e' descritto l'arrivo di quei due sottotenenti di artiglieria, che portano all'asola della giacca il nastrino della <<croce di ghiaccio>>, al comando della X.ma Mas a La Spezia dove, dopo lunghe ediscussioni e riflessioni, hanno deciso di presentarsi per chiedere di essere arruolati.
    <<La caserma era sul mare, e grosse lettere nere correvano sopra i muri rossi del cortile:
    "La guerra continua. L'Italia mantiene la parola data, gelosa custode delle sue millenarie tradizioni. Maresciallo d'Italia Pietro Badoglio, Marchese del Sabotino, Duca di Addis Abeba".
    Sul pennone, accanto alla batteria lanciasiluri, sventolava una grande bandiera tricolore con un buco al posto della stemma sabaudo>>.

    Il modo che Gandini e il suo collega scelgono per andare a <<perdere quella guerra>> e' allora quello cui inevitabilmente conducono <<le millenarie tradizioni>> di cui l'Italia <<e' gelosa custode>>, come ha proclamato il 25 luglio a nome del re e della nazione l'uomo che ha sostituito Mussolini alla guida dello stato, le quali impongono, senza scampo, ereditando le responsabilita' di un passato di cui si e' stati direttamente corresponsabili e compartecipi, <<di mantenere la parola data>>.
    Se dopo quarantacinque giorni da quella solenne proclamazione il re e il suo maresciallo si rendono spergiuri e non solo decidono di non mantenere fede alla parola data, ma passano a quello che e' stato fino a oggi il nemico, atto per il quale il tenente Gandini ricorda di aver visto fucilare, mesi addietro, un suo artigliere, <<perche' voleva passae dall'altra parte>>, a lui, giovane sottotenente di complemento, e ai suoi commilitoni non resta altro che strappare lo scudo sabaudo dalla bandiera nazionale e farsi carico personalmente di quelle <<millenarie tradizioni>> e mantenre fede a quella parola.
    Questa volonta' di combattimento, al di la' dei possibili esiti, questo imperativo di mantenere fede ai patti si sommano in una parola che non spetta al lessico della politica, degli interessi, del successo. E' quella che rende meno amara la sconfitta di Francesco I di Valois sul campo di Pavia in cui egli stesso, il re di Francia, cade prigioniero degli imperiali:
    <<Tutto e' perduto fuorche' l'onore>>.
    In Donne e mitra Enrico De Boccard immagina l'incontro per trattare una tregua d'armi, tra due ufficiali che si trovano su sponde opposte, uno comandante di una formazione partigiana, l'altro di una unita' dell'esercito di Salo'.
    Quando sono l'uno di fronte all'altro per parlamentare si rendono conto di essersi conosciuti prima dell'8 settembre per aver servito e combattuto nello stesso reparto.
    Quella data ha diviso i loro destini, li ha posti ora uno contro l'altro.
    Prima di salutarsi e tornare ognuno dalla sua parte, quello che e' diventato capo partigiano cerca di convincere l'ex commilitone a disertare e unirsi alla sua formazione:
    "Il comandante partigiano lo guardo' negli occhi: <<Proprio non ti andrebbe di venire con noi. Noi combattiamo per la Liberta'>>
    I partigiani erano tutti in crocchio intorno ai due, le nere bocche dei mitra punteta verso terra, i fazzoletti rossi intorno alo collo.
    <<No - rispose N** - non mi va. Noi combattiamo per questo>>. E indico' la striscia sulla sua manica sinistra."
    Su quella striscia di fettuccia, nera per il lutto della patria, i paracadutisti della RSI vi avevano ricamato in oro la scritta: << PER L'ONORE >>.

    [...]
    Presidi e interi reparti militari che si arresero, consegnarono le armi dopo regolari trattative con i CLN, in totale spregio ai patti stipulati, vennero passati per le armi dopo inenarrabilisevizie. Gente fu prelevata a forza dalle prigioni e scomparve nel nulla, per una rassomiglianza, un'accusa senza alcun fondamento. Il generale Teruzzi, venne fucilato tre volte: tre innocenti, per il semplice fatto di portare una barba simile alla sua furono trucidati, implorando pieta' e proclamando la loro reale identita'. Lui mori' nel suo letto molti anni dopo. Giorgio Bocca ha dato una cifra approssimativa tra i dodici e i qundicimila uccisi. NO, il suo cuore partigiano lo ha spinto a indulgere, diminuire le proporzioni del massacro, edulcorando ulteriormente con l'espressione eufemistica: <<soluzione rivoluzionaria>.
    In realta' si tratto' di molti di piu'. Gia' <<L'Opinione>> del lugio 1945 riportava la notizia di ventimila <<fascisti o presunti tali>> eliminati, tra i quali 3.000 donne. Nel 1951 il giornalista Ferruccio Lanfranchi, testimone dei fatti, secondo i suoi calcoli, su <<Il Tempo>> avanzava l'ipotesi di 50/60.000 uccisi.
    E Silvio Betoldi nel settembre 1990 sul <<Corriere della Sera>> riferiva che in un colloquio con Ferruccio Parri, poco prima della sua morte, questi, che era stato comandante dei volontari della Liberta', gli aveva confidato che si era trattato di <<piu' di trentamila morti>>.
    E infatti di <<piu' di trentamila>> si tratto'. Come risulta dai dati forniti nel 1994, dopo anni di ricerche, di analisi di elenchi nominativi e di testimonianze, dal gruppo di lavoro all'uopo costituito dall'Istituto Storico della RSI. Escludendo gli uccisi nella Venezia Giulia ad opera dei partigiani titini (23.000) e' stato stabilito che, fra militari e civili, gli eliminati dal 25 aprile al 31 maggio 1945, furono 42.000!.
    [...]
    Non posso chiudere questo scritto senza ricordare il sacrificio di 43 miei giovani camerati, molti dei quali conoscevo personalmente, e i cui volti adolescenti sono ancora qui davanti ai miei occhi, fucilati il 28 aprile 1945 da una banda di partigiani comunisti a Rovetta, un paesino posto sotto il passo della Presolana, in provincia di Bergamo.
    La loro fine mi fu raccontata dalla madre di uno di essi, Alvaro Porcarelli, in un pomeriggio di tanti anni fa in un nudo appartamento all'ultimo piano di un palazzone che guardava sul piazzale del Colosseo a Roma. Era l'imbrunire di un giorno di autunno e il sole che tramontava dietro i ruderi del Palatino filtrava i suoi raggi lunghi attraverso i vetri coperti di polvere di una finestra davanti alla quale ci eravamo seduti.
    Tutta la casa mostrava i segni manifesti dell'incuria e dell'abbandono. La madre di quel compagno d'arme, una donna sui cinquant'ann, gia' vedova, era rimasta completamente sola, essendo stati i suoi due <<ragazzi, che da quella stessa finestra avevano assistito a tante sfilate e parate militari>>, uccisi ambedue in quei giorni di sangue. Uno fucilato in quell'eccidio a Rovetta e l'altro <<impiccato con il filo spinato>>, come con la sua voce mormoro', in una localita' della Langhe.
    Quei miei giovani commilitoni, comandati da un sottotenente di ventitue anni, molti dei quali convalescenti da ferite e malattie, rimasti isolati di presidio al passo della Presolana, avuta la notizia della fine della RSI e della morte di Mussolini, su pressioni del parroco e di altri maggiorenti del paese si erano arresi al locale CLN e avevano consegnato le armi, come disposto nei bandi affissi dalle nuove autorita'.
    Il giorno successivo, una formazione partigiana comunista era scesa in paese dai monti e, impostasi icon le armi al CLN aveva rotto i patti e deciso di fucilare tutti quei militi.
    Furono portati davanti al muro del cimitero, fu fatta loro scavare la fossa e vennero fucilati cinque per volta. Ognuna di quelle cinquine, cadendo sotto le raffiche, gridava: <<Viva L'Italia>>.
    Un'altra cinquina veniva prelevata dal gruppo li in attesa, la facevano schierare davanti ai corpi ancora scalcianti di quelli gia' abbattuti, e nuovamente quando partiva la salva quei <<figli di ******a>> gridavano il nome della madre: <<Viva l'Italia>>.
    Per otto volte, come le donne del paese, che chiuse nelle loro case, terrorizzate tendevano le orecchie a quegli spari e a quelle grida, raccontando alle madri di quei martiri, quando alcuni anni dopo si recarono lassu' a riesumare i resti dei figli, per otto volte, sotto quei monti, nel silenzio agghiacciato di quel giorno, sentirono le voci di quei ragazzi gridare:
    << Viva l'Italia >>.


    I FUCILATI DI FIRENZE


    I ragazzi seduti sui gradini di S. Maria Novella, la piccola folla di curiosi raccolta intorno all’obelisco, l’ufficiale partigiano a cavalcioni dello sgabello ai piedi della scalinata della chiesa, coi gomiti appoggiati sul tavolino di ferro preso a qualche caffè della piazza,la squadra di giovani partigiani della divisione comunista “ Potente “, armati di mitra e allineati sul sagrato davanti ai cadaveri distesi alla rinfusa l’uno sull’altro, parevano dipinti da Masaccio nell’intonaco dell’aria grigia. Illuminati a picco dalla luce di gesso sporco che cadeva dal cielo nuvoloso, tutti tacevano, immoti, il viso rivolto tutti dalla stessa parte. Un filo di sangue colava giù per gli scalini di marmo.
    I fascisti seduti sulla gradinata della chiesa erano ragazzi di quindici o sedici anni, dai capelli liberi sulla fronte alta, gli occhi neri e vivi nel lungo volto pallido. Il più giovane, vestito di una maglia nera e di un paio di calzoni corti, che gli lasciavano nude le gambe dagli stinchi magri, era quasi un bambino.
    C’era anche una ragazza fra loro: giovanissima, nera d’occhi, e dai capelli, sciolti sulle spalle, di quel biondo scuro che s’incontra spesso in Toscana fra le donne del popolo, sedeva col viso riverso, mirando le nuvole d’estate sui tetti di Firenze lustri di pioggia, quel cielo pesante e gessoso, e qua e là screpolato, simile ai cieli del Masaccio negli affreschi del Carmine.
    Quando avemmo udito gli spari, eravamo a metà via della Scala, presso gli Orti Oricellari. Sboccati sulla piazza, eravamo andati a fermarci ai piedi della gradinata di Santa Maria Novella, alle spalle dell’ufficiale partigiano seduto davanti al tavolino di ferro.
    Al cigolio dei freni delle due jeep, l’ufficiale non si mosse, non si voltò. Ma dopo un istante tese il dito verso uno di quei ragazzi, e disse:
    - Tocca a te. Come ti chiami?
    - Oggi tocca a me - disse il ragazzo alzandosi - ma un giorno o laltro toccherà a lei.
    - Come ti chiami ?
    - Mi chiamo come mi pare...
    - O che gli rispondi a fare a quel muso di bischero, gli disse un suo compagno seduto accanto a lui.
    - Gli rispondo per insegnargli l'educazione, a quel coso - rispose il ragazzo, asciugandosi col dorso della mano la fronte madida di sudore. Era pallido, e gli tremavano le labbra. Ma rideva, con aria spavalda guardando fisso l'ufficiale partigiano.
    A un tratto i ragazzi presero a parlar fra loro ridendo.
    Parlavano con l'accento popolano di San Frediano, di Santa Croce, di Palazzolo.
    L’ufficiale partigiano alzò la testa e disse:
    - Fa presto. Non mi far perdere tempo. Tocca a te.
    - Se gli è per non farle perdere tempo - disse il ragazzo con voce di scherno - mi sbrigo subito –
    E scavalcati i compagni andò a mettersi davanti ai partigiani armati di mitra, accanto al mucchio di cadaveri, proprio in mezzo alla pozza di sangue che si allargava sul pavimento di marmo del sagrato.
    - Bada di non sporcarti le scarpe ! - gli gridò uno dei suoi compagni, e tutti si misero a ridere.
    - Jack e io saltammo giù dalla jeep.
    - Stop! - urlò Jack.
    - Ma in quell’istante il ragazzo gridò: - Viva Mussolini ! - e cadde crivellato di colpi .
    Anche quest'anno commemoro il 25 Aprile come fine di una guerra civile e l'inizio di un periodo di violenza e morte per tanti che erano scampati ad una guerra feroce e fratricida.

  2. #2
    TeoN
    ospite

    Predefinito Re: 25 Aprile.

    domani per prima cosa ti denuncio per apologia ho deciso.

    Per seconda : Onore ai caduti.

  3. #3
    Banned L'avatar di sarib
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    Predefinito Re: 25 Aprile.

    Lol ma ogni 25 aprile vi si apre un file nel cervello che vi dice di venire a postare ste Storielle qui su backstage?
    Cmq è bello vedere dopo 60 anni certa gente rosicare ancora perchè ha perso la guerra

  4. #4
    Banned L'avatar di simux
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    Predefinito Re: 25 Aprile.

    troppo lungo

  5. #5
    Banned L'avatar di Pasta X
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    Predefinito Re: 25 Aprile.

    esiste apologia del comunismo ?
    no perchè senno' ho una lunga lista di segnalazioni
    Ah con 3 ergastoli si beccano i domiciliari adesso ?
    fico...

  6. #6
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    Predefinito Re: 25 Aprile.

    E Berlusconi fa la solita figura di *****. Ma perché non se ne va dall'Italia se tanto non gli piace neanche celebrare le ricorrenze storiche di un Paese di cui è stato capo? Cos'è un deficiente? Sì, esatto.

  7. #7
    Shogun Assoluto L'avatar di skywolf
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    Predefinito Re: 25 Aprile.

    ma che ooooh!

  8. #8
    Banned L'avatar di sarib
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    Predefinito Re: 25 Aprile.

    Citazione Originariamente Scritto da DarkAlien Visualizza Messaggio
    E Berlusconi fa la solita figura di *****. Ma perché non se ne va dall'Italia se tanto non gli piace neanche celebrare le ricorrenze storiche di un Paese di cui è stato capo? Cos'è un deficiente? Sì, esatto.
    Se figurati se uno che fa la pacchia con il **** al coperto se ne va in un altra Nazione dove rischia di farsi arrestare. MA che fai scherzi?

  9. #9
    Vitor
    ospite

    Predefinito Re: 25 Aprile.

    buon 25 aprile a tutti, soprattutto ad alcuni


  10. #10
    Veterano del Backstage L'avatar di Karat45
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    Predefinito Re: 25 Aprile.

    Sto topic sta già andando molto male. Lo lascio aperto perché Teon ci tiene. Stasera vediamo se è migliorato.

  11. #11
    Chiwaz
    ospite

    Predefinito Re: 25 Aprile.

    Io sono stato svegliato da dei versi gracchiati in un megafono giù in strada.

    Mi sono alzato e ho visto il soliti 15/20 manifestanti con striscione e bandiere rosse che passano tutti gli anni.
    Una domanda per chi si intende di araldica : cosa indicano le bandiere nere bordate di rosso, oppure rosse e nere divise per la diagonale ?

  12. #12
    Chiwaz
    ospite

    Predefinito Re: 25 Aprile.

    Citazione Originariamente Scritto da DarkAlien Visualizza Messaggio
    E Berlusconi fa la solita figura di *****. Ma perché non se ne va dall'Italia se tanto non gli piace neanche celebrare le ricorrenze storiche di un Paese di cui è stato capo? Cos'è un deficiente? Sì, esatto.
    Ciccio, se non sei capace di discutere civilmente, vai a giocare a biglie in cortile.

  13. #13
    Emack
    ospite

    Predefinito Re: 25 Aprile.

    Citazione Originariamente Scritto da Chiwaz Visualizza Messaggio
    Una domanda per chi si intende di araldica : cosa indicano le bandiere nere bordate di rosso, oppure rosse e nere divise per la diagonale ?
    Saran tifosi del Milan.

  14. #14
    Il Nonno L'avatar di cetra
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    Predefinito Re: 25 Aprile.

    A parte Berlusconi, mi potete dire per quale motivo la Moratti non potrebbe secondo alcuni andare in manifestazione?


    Detto questo, avete anche rotto con questi pistolotti di anno in anno.
    E' stata la fine della guerra civile e l'inizio della libertà: che poi ci siano stati errori è capibile.
    Che poi questo non vuol dire giustificarli o approvarli, inteso.
    Ma vista la situazione non si può non capirli.

  15. #15
    Moderatore spudorato L'avatar di Sarpedon
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    Predefinito Re: 25 Aprile.

    Citazione Originariamente Scritto da Chiwaz Visualizza Messaggio
    Una domanda per chi si intende di araldica : cosa indicano le bandiere nere bordate di rosso, oppure rosse e nere divise per la diagonale ?
    Si tratta della prima bandiera del movimento anarchico, risalente alla seconda metà dell'800 e antecedente a quella con la A inscritta nel cerchio, chen risale al 1910. La bandiera rossa e nera divisa in diagonale venne usata per la prima volta da un gruppo di anarchici italiani: la banda del Matese nel 1977 e da un gruppo di anarchici messicani nel 1979.

  16. #16
    Chiwaz
    ospite

    Predefinito Re: 25 Aprile.

    Uh signùur

  17. #17
    Automatic Jack
    ospite

    Predefinito Re: 25 Aprile.

    Citazione Originariamente Scritto da Karat45 Visualizza Messaggio
    Lo lascio aperto perché Teon ci tiene.
    Maledetto collaborazionista. Verrai passato per le armi, altrochè





    Almeno Giorgio è andato a rendere omaggio ai soldati della Divisione Acqui, un minimo sindacale, quantomeno.

  18. #18
    Automatic Jack
    ospite

    Predefinito Re: 25 Aprile.

    Citazione Originariamente Scritto da cetra Visualizza Messaggio
    A parte Berlusconi, mi potete dire per quale motivo la Moratti non potrebbe secondo alcuni andare in manifestazione?


    Detto questo, avete anche rotto con questi pistolotti di anno in anno.
    E' stata la fine della guerra civile e l'inizio della libertà: che poi ci siano stati errori è capibile.
    Che poi questo non vuol dire giustificarli o approvarli, inteso.
    Ma vista la situazione non si può non capirli.
    I classici compagni che sbagliano


    bah, al di là di tutto, continuo a pensare che sia morta troppa gente per poter dire che il 25 aprile è un giorno di "festa". E' un po' come applaudire ai funerali, certo è pittoresco, ma checcazzo significa?

  19. #19
    La Borga L'avatar di Tyreal
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    Predefinito Re: 25 Aprile.

    Citazione Originariamente Scritto da Sarpedon Visualizza Messaggio
    Si tratta della prima bandiera del movimento anarchico, risalente alla seconda metà dell'800 e antecedente a quella con la A inscritta nel cerchio, chen risale al 1910. La bandiera rossa e nera divisa in diagonale venne usata per la prima volta da un gruppo di anarchici italiani: la banda del Matese nel 1977 e da un gruppo di anarchici messicani nel 1979.
    Perché gli anarchici hanno una bandiera? Non è un controsenso?

  20. #20
    Banned L'avatar di sarib
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    Predefinito Re: 25 Aprile.

    Oramai tutto ha perso senso è scopo ma il 25 aprile viene festeggiato per non dimenticare.
    Per non dimenticare quello che hanno fatto certe bestie vestite di nero, purtroppo pero' la gente ricorda quello che gli fa piu' comodo.
    42000 fascisti ammazzati il 25 aprile ... e i milioni di morti durante il regime nessuno li conta?

  21. #21
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    Predefinito Re: 25 Aprile.

    Citazione Originariamente Scritto da sarib Visualizza Messaggio
    Oramai tutto ha perso senso è scopo ma il 25 aprile viene festeggiato per non dimenticare.
    Per non dimenticare quello che hanno fatto certe bestie vestite di nero, purtroppo pero' la gente ricorda quello che gli fa piu' comodo.
    42000 fascisti ammazzati il 25 aprile ... e i milioni di morti durante il regime nessuno li conta?
    Se il tuo apporto alla discussione deve essere l'ignoranza, ti prego di non intervenire ulteriormente.

    Grazie.

  22. #22
    Banned L'avatar di sarib
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    Predefinito Re: 25 Aprile.

    Perchè il tuo apporto alla discussione invece quale è l'idiozia?
    Ti guarda quanto so ignorante:

    La strage di Niccioleta
    dal libro "La Maremma contro il nazifascismo"
    I Minatori della Maremma di Luciano Bianciardi e Carlo Cassola
    "Le case di Niccioleta sono sparse su una collinetta posta a fianco alla strada che da Massa Marittima conduce a Castelnuovo Val di Cecina. Nel 1944 le carte topografiche non registravano il nome di questo villaggio sorto da pochi anni intorno alla miniera di pirite. Niccioleta allora era abitata da centocinquanta famiglie di minatori, oltre che dal personale direttivo della miniera.
    Quest'ultimo conduceva vita a parte, com'è d'obbligo in ogni villaggio minerario della "Montecatini". Il vice direttore ing. Boeklin, il segretario dott. Larato e l'addetto alle ricerche geofisiche ing.Ferrari passavano per filotedeschi. I primi due in particolare erano in cordiali rapporti col comando tedesco di gendarmeria di stanza a Pian di Mucini, a quattro chilometri da Niccioleta. Quanto al direttore, l'ing. Mori Ubaldini, era stato uno squadrista e un fervente fascista; ma dopo il 25 luglio aveva cambiato atteggiamento e dopo l'8 settembre si era messo in contatto col movimento partigiano della zona.
    Nella massa operaia i fascisti costituivano invece un'esigua minoranza. I repubblicani erano in tutto sedici. Con questi sedici individui e con le loro famiglie la popolazione evitava di aver rapporti di sorta.
    Consci del loro isolamento, i fascisti si tenevano strettamente collegati tra loro. Avevano l'abitudine di riunirsi ogni sera in casa del siciliano Pasquale Calabrò, o di suo cognato Aurelio Nucciotti, o della guardia giurata Luigi Turrini. Calabrò, Nucciotti, Torrini si assentavano poi spesso dal lavoro per recarsi dai fascisti di Massa o dai tedeschi di Pian di Mucini; Nucciotti prese anche parte a dei rastrellamenti antipartigiani nella zona, ma ebbe cura di non farlo saper in paese. Tutti tenevano armi in casa, e in occasione del 1° maggio coadiuvavano i carabinieri nel servizio d'ordine.
    A parte la sortita del 1° maggio, i fascisti di Niccioleta svolgevano la loro attività in sordina. In apparenza, avrebbero potuto anche essere giudicati inoffensivi. Invece andavano maturando il proposito di «vendicarsi» dei compaesani. Vendicarsi di che? Il 25 luglio il paese aveva festeggiato la caduta del fascismo, ma loro non erano stati toccati. Niccioleta, lo abbiamo detto, era un villaggio sorto da pochi anni, si era popolato con gente piovuta un po' da tutte le parti, anche da lontane regioni come la Sicilia e il Veneto; era quindi un paese tranquillo, senza tradizioni di odi tra famiglie e di vendette tra fazioni politiche. Vedremo che anche dal 9 al 12 giugno 1944, quando il paese fu in mano dei partigiani e del CLN, i fascisti non subirono molestie serie. E tuttavia Calabrò. Nucciotti, Torrini, Maggi e compagni odiavano i compaesani: li odiavano perché si sentivano circondati dalla diffidenza, dal silenzio e dal disprezzo.
    Un giorno una donna ebbe l'ingenuità di chiedere a Calabrò cosa ne pensasse della situazione. «Io delle chiacchiere ne faccio poche» rispose Calabrò «quando verrà il tempo farò dei fatti». E la moglie dello stesso Calabrò, a dei ragazzi sorpresi a cantare un inno sovversivo: «Cantate, cantate» disse verrà un giorno che piangerete voi e le vostre famiglie». Nucciotti una volta ebbe a dire a voce alta, in modo da farsi sentire da chi passava: «Vorrebbero forse far piangere la mia famiglia? Stanno freschi! Vedrai che io, a tempo debito, ne farò piangere diverse delle famiglie». E la moglie, di rincalzo: «Alla Niccioleta, all'infuori di cinque case, bisognerebbe dar fuoco a tutto!».
    Ai primi di giugno, la ritirata tedesca era in pieno corso sulle strade della Maremma; il fascismo repubblichino era in sfacelo. Il presidio fascista di Massa tagliò la corda la notte del 9. Quello stesso giorno una squadra di partigiani era entrata in Niccioleta. Disarmati i carabinieri, che vennero invitati ad allontanarsi, i partigiani accompagnati da elementi del luogo fecero il giro delle case dei fascisti, sequestrando anche a loro le armi. Agli uomini fu ingiunto di non uscire di casa. Misure assai blande. per la verità, tanto più che i fascisti, le donne soprattutto, tennero anche in quell'occasione un contegno arrogante e provocatorio. La moglie di Torrini, a cui i partigiani avevano sequestrato una rivoltella e tre manganelli, si affacciò alla finestra gridando: «Sarete tutti contenti ora; e pensare che fanno il male per se' e per le proprie famiglie». E la moglie di Maggi, a un tale che per bonomia si opponeva a che i partigiani facessero un allegro falò della camicia nera e degli altri stracci fascisti del marito: «Lascia che li brucino» disse «tanto tra pochi giorni bruceranno anche loro».
    Ne' si trattava, ormai, di vane minacce. All'arrivo dei partigiani, tre dei fascisti, e precisamente Calabrò, Nucciotti e Maggi, si erano dati alla fuga attraverso i campi. Calabrò era corso a Massa dai fascisti, Nucciotti e Maggi erano andati a informare i tedeschi di Pian di Mucini.
    Probabilmente i fascisti di Massa, indaffarati nei preparativi della partenza, non diedero ascolto a Calabrò. A Pian di Mucini i tedeschi si misero invece in stato d'allarme. Erano in pochi e non potevano pensare a rappresaglie. Ma il giorno dopo giunse un battaglione italo-tedesco di SS a Castelnuovo Val di Cecina; con quello il comando di Pian di Mucini prese subito contatto.
    Maggi non tornò più a Niccioleta. Voleva approfittare dell'occasione per sbarazzarsi della moglie e andare a convivere con un'altra donna. Il 10 fu visto partire da Pian di Mucini su un camion tedesco diretto a Nord.
    Invece Calabrò e Nucciotti ricomparvero a Niccioleta il 12. La gente non ci fece troppo caso. Ormai si pensava che i fascisti non fossero più in condizioni di nuocere.
    Fin dal giorno 10, il CLN aveva istituito un servizio armato di avvistamento e di vigilanza, col pieno consenso del direttore della miniera. Si sapeva che i tedeschi lasciavano indietro gruppi di guastatori, con l'incarico di distruggere gli impianti industriali; e i minatori di Niccioleta erano decisi a salvare la miniera. Purtroppo questo sistema di sicurezza non funzionò, quando all'alba del 13 le SS comparvero a piedi sotto Niccioleta. Le sentinelle (una delle quali era per l'appunto il figlio del direttore Mori Ubaldini) non poterono far altro che darsi alla fuga. A loro volta i membri del comitato, che sedevano in permanenza nella caserma dei carabinieri, ebbero appena il tempo di nascondere le armi nel rifugio antiaereo. Vi nascosero anche gli elenchi dei turni di guardia, mentre avrebbero fatto bene a distruggerli.
    Il paese si risvegliò bruscamente al rumore degli spari, delle voci rauche dei tedeschi (tedeschi erano il comandante, un tenente, e i sottufficiali; mentre i militi erano tutti italiani). Gli uomini furono fatti uscire dalle case, alle donne e ai ragazzi venne invece ingiunto di non uscire, e anzi di sprangare le finestre. Centocinquanta minatori si trovarono così ammassati nello spiazzo davanti al dopolavoro, e poi dentro il rifugio antiaereo. Naturalmente ai fascisti venne riservato un diverso trattamento; e se qualcuno fu dapprima incolonnato con gli altri, si provvide poi a liberarlo. Calabrò, Nucciotti, Bellini si erano subito uniti ai militi e li accompagnavano in giro. Gli elenchi delle guardie armate furono rinvenuti nel rifugio antiaereo insieme alle armi. Anche i dirigenti della miniera vennero prelevati e messi a disposizione del tenente tedesco.
    L'ingegnere Boeklin ebbe il compito di fare l'interprete. Ultimato il rastrellamento, il tenente si installò nella caserma dei carabinieri e procedette all'interrogatorio di alcuni minatori, che gli erano stati indicati come i capi del movimento antifascista.
    Alle dieci Sargentoni Ettore coi figli Ado e Mizzardo, Bruno Barabissi, Antimo Ghigi e Rinaldo Baffetti furono fucilati in una fossa che gira intorno all'edificio dello spaccio aziendale. Una donna che abitava li davanti poté vedere la scena: «Vidi per primi Baffetti e Barabissi uscire dalla sede del dopolavoro a braccetto e avviarsi nello stretto corridoio che porta dietro al forno, seguiti da un milite armato. Appena essi furono dietro il forno sentii sparare dei colpi. La seconda coppia fu il Sargentoni Ettore e Ado sempre a braccetto e seguiti da un altro milite, e entrati nel recinto udii altri colpi; per ultimi vidi venire Sargentoni Alizzardo e Ghigi con la stessa scena degli altri. Prima di arrivare dietro il forno, nello stretto corridoio il Sargentoni Alizzardo cadde a terra battendo la testa in uno spigolo. Il milite che lo accompagnava lo alzò prendendolo per un braccio e lo colpì alla testa col calcio del moschetto, spingendolo poi dietro il forno. Sul muro dietro il forno, vi era una mitragliatrice coperta con delle frasche e intorno ad essa dei militi, accanto vi era una damigiana di vino e durante tutto il tempo i militi riempivano un fiasco di vino e bevevano».
    A mezzogiorno si permise alle donne di portare da mangiare agli uomini, che si trovavano sempre nell'interno del rifugio.
    Fu solo verso sera che il tenente tedesco prese una decisione: i minatori furono fatti uscire dal rifugio e avviati a piedi verso Castelnuovo.
    Dopo alcuni chilometri arrivarono dei camion, e con quelli i prigionieri vennero portati a Castelnuovo e rinchiusi nella sala del cinematografo. Anche i dirigenti della miniera e i fascisti (questi ultimi con le famiglie e le masserizie) furono condotti a Castelnuovo e alloggiati nella caserma dei carabinieri.
    Durante l'intera giornata del 14, per le strade di Castelnuovo si ripeté il sinistro viavai del giorno prima. Come a Niccioleta, anche a Castelnuovo i fascisti accompagnavano le pattuglie dei militi, che facevano la spola tra il comando tedesco e il cinematografo dove erano rinchiusi i minatori. Sembra che il tenente aspettasse il comandante del battaglione, il quale non era in sede; ma poi finì con l'agire di propria iniziativa. I minatori furono divisi in tre gruppi. Il primo, composto di 79 uomini, era destinato allo sterminio. Il secondo, di 21, alla deportazione in Germania. Il terzo, di 50, comprendeva gli uomini più anziani, che avrebbero dovuto essere rilasciati.
    I 79 erano stati scelti in base ai nomi contenuti negli elenchi delle guardie armate. Quando non si era trovato il figlio, era stato incluso tra i condannati a morte il padre, e viceversa. I fascisti ebbero però la facoltà di rimaneggiare la lista, includendo o togliendo chi loro parve meglio.
    In particolare Calabrò, che i tedeschi chiamavano «il vecchio fascista», fu autorizzato dal tenente a liberare sei uomini. Egli ne liberò due, e così i 79 divennero 77. Poi finse di volerne liberare un terzo e chiamò fuori dalle file Eugenio Cicaloni. Cicaloni si fece avanti e Calabrò disse al tenente: «Questo avere sputato in faccia a mia moglie e a mia figlia». Il tenente con uno spintone lo rispedì in fila.
    Al tramonto, i 77 furono condotti in una specie di dolina, in prossimità della centrale elettrica e a gruppi di quindici falciati con le mitragliatrici. Le mitragliatrici erano manovrate dai militi italiani. Nella caserma dei carabinieri, udendo la sparatoria, la moglie del fascista Soppelsa
    non resse e si mise a piangere. Nucciotti la vide e disse: «Io non faccio una lacrima, questa volta l'hanno preso in c... loro!».
    Subito dopo la strage, il tenente tornò nella sala del cinematografo, dov'era rimasto solo il gruppo degli anziani, perché i giovani erano già stati fatti partire verso il Nord. Il tenente tenne loro il seguente discorso:
    «Noi siamo stati avvertiti da persone di Niccioleta e da militari che a Niccioleta la vita era diventata impossibile a causa del movimento dei partigiani. Noi siamo intervenuti e abbiamo preso i provvedimenti necessari per stroncare questo movimento. Voi siete liberi e potete tornare a Niccioleta; però vi avvertiamo che qualora si ripetesse un fatto simile, noi interverremo di nuovo, sia fra una settimana che fra sei mesi, e vi faremo fare a tutti la fine che hanno fatto i vostri compagni».
    Ottantatré furono dunque le vittime di questa orribile strage. La giustizia, messasi in moto dopo la Liberazione del Nord, ha raggiunto i criminali solo in minima parte. I fascisti di Niccioleta erano tutti solidalmente responsabili della strage. Erano stati infatti loro, nei contatti coi fascisti di Massa e coi tedeschi di Pian di Mucini, a creare al paese la fama di «covo» partigiano e comunista, e a richiedere insistentemente una spedizione punitiva in grande stile. Può sembrare inspiegabile un odio tanto smisurato contro gente che in fin dei conti non aveva fatto loro nulla. Ma i fascisti da tanti anni erano abituati a comandare, a essere rispettati, a figurare fra le autorità, e non potevano pensare che tutto questo dovesse finire. Il solo fatto di esser messi in disparte dopo il 25 luglio sembrava loro un'offesa intollerabile.
    Le donne, lo abbiamo visto, avevano gareggiato con gli uomini nel chiedere lo sterminio del paese, che aveva il solo torto di essere antifascista. Un milite anzi ebbe a dire che il paese «era stato rovinato dalla lingua di una donna». Sembra alludesse a una lettera che la moglie di Torrini aveva fatto recapitare alle SS di Castelnuovo. Parecchi dei fascisti avevano poi collaborato zelantemente con le SS il 13 a Niccioleta e il 14 a Castelnuovo. Un vecchio di 80 anni, il Bellini, suocero di Calabrò e di Nucciotti, si era fatto premura di compilare una lista di 56 «comunisti» e di consegnarla ai tedeschi al loro arrivo a Niccioleta.
    Il fascista Soppelsa, veneto, dopo aver lavorato con la Todt e aver fatto parte della polizia ausiliaria, ai primi di giugno era tornato a Niccioleta con una motocicletta rubata. La motocicletta gli venne requisita dal CLN. Il giovane Aurelio Cappelletti se ne servì per recarsi a Boccheggiano a prelevare le paghe degli operai. Soppelsa lo vide dalla finestra e gli gridò: «Posa la motocicletta, altrimenti me la pagherai». Cappelletti non faceva parte della guardia armata; pure fu tra i 77 fucilati.
    La Corte di Assise di Pisa con sentenza pronunciata il 12 novembre 1949 ritenne provata la colpevolezza dei soli Calabrò e Nucciotti, condannandoli a 30 anni. La sentenza è stata riconfermata il 10 luglio 1951 dalla Corte di Appello di Firenze.
    Per quanto riguarda gli esecutori materiali del rastrellamento e della strage, i tedeschi non sono stati nemmeno chiamati in causa. I militi italiani erano alcune diecine, ma è stato possibile individuare con sicurezza soltanto uno di loro: Aurelio Picchianti, di Porto Santo Stefano. Alcune donne lessero il nome inciso con la baionetta sulla cinghia del moschetto.
    Inoltre il Picchianti per spavalderia disse chi era e di dove era a Giovanni Gai, il primo ad essere rastrellato in paese. «A te queste cose le posso dire» aggiunse «tanto non potrai ripeterle, perché alle dieci sarai fucilato». Il Gai, smontato allora di sentinella, era stato preso armato, e Picchianti aveva ragione di ritenere che i tedeschi io avrebbero fucilato subito. Accadde invece che il Gai, approfittando di un momento di distrazione dello stesso Picchianti, a cui era stato lasciato in custodia, riuscì a darsi alla fuga. Al processo egli è stato un testimone schiacciante contro Picchianti, che ha avuto anche lui 30 anni."

  23. #23
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    Predefinito Re: 25 Aprile.

    Citazione Originariamente Scritto da Chiwaz Visualizza Messaggio
    Ciccio, se non sei capace di discutere civilmente, vai a giocare a biglie in cortile.
    Questa è un'offesa bella e buona. Io ho solo fatto notare che un ex Capo del Governo è contrario ad una festa Nazionale. Mi sembra vergognoso.

    E siccome sei moderatore e non ti posso segnalare, me ne vado e non a giocare a biglie nel cortile ma a fare ben altro.

  24. #24
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    Predefinito Re: 25 Aprile.

    Citazione Originariamente Scritto da sarib Visualizza Messaggio
    Oramai tutto ha perso senso è scopo ma il 25 aprile viene festeggiato per non dimenticare.
    Per non dimenticare quello che hanno fatto certe bestie vestite di nero, purtroppo pero' la gente ricorda quello che gli fa piu' comodo.
    42000 fascisti ammazzati il 25 aprile ... e i milioni di morti durante il regime nessuno li conta?
    i fucilati durante il regime furono qualche centinaio, qualche migliaio se vogliamo contare i deportati, la frase giusta, quella che si usa quando si parla dell'undici settembre, è: "meno delle stragi del sabato sera in un anno"

  25. #25
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    Predefinito Re: 25 Aprile.

    Citazione Originariamente Scritto da Automatic Jack Visualizza Messaggio
    I classici compagni che sbagliano


    bah, al di là di tutto, continuo a pensare che sia morta troppa gente per poter dire che il 25 aprile è un giorno di "festa". E' un po' come applaudire ai funerali, certo è pittoresco, ma checcazzo significa?
    Tutte le festività sono segnate da gente morta, per una causa o per l'altra.

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