La proprietà della Juventus
Un esempio lampante in questo senso è l'atteggiamento tenuto in tutta la
vicenda dalla proprietà della Juventus. Usiamo il termine "proprietà"
non a caso e nemmeno per pura polemica. Ci pare evidente, infatti, che i
dirigenti bianconeri entrati in carica dopo il "dimissionamento" della
"triade" Moggi-Giraudo-Bettega non abbiano affatto ricevuto, a
differenza di questi ultimi, un mandato "in bianco", ma piuttosto
seguano in ogni loro passo delle precise direttive stabilite da una
proprietà che pare nuovamente intenzionata a vivere la società molto da
vicino. Diversi sono stati infatti, fin dalle prime battute dello
scandalo, gli interventi dialettici e personali della famiglia e degli
esponenti della società controllante la Juventus. In questo contesto,
ciò che sconcerta è che di fronte al rischio di azzeramento della
società - molto probabile con la retrocessione in serie C -
l'atteggiamento societario sia rimasto, in sostanza, gravemente passivo.
Intendiamoci, nessuno nega il diritto di un imprenditore di disfarsi di
una propria società. E, a questo proposito, giova ricordare che
l'attuale presidente bianconero Cobolli Gigli è un manager che negli
ultimi anni si è "specializzato" nella cessione sul mercato di società
del gruppo FIAT/IFIL. Il fatto è che non s'è mai visto un imprenditore
che vende buttando a mare denaro proprio: piuttosto imprenditori che
cercano di vendere, e al meglio! Ecco, quindi, che ci dobbiamo
domandare: perchè mai la Juventus, intesa appunto come società, nel
momenti del pericolo non ha difeso i propri interessi, come hanno invece
ovviamente tentato di fare le altre società coinvolte nello scndalo? E
se questa domanda appare troppo vaga e generale, allora la possiamo
tradurre in un'altra molto più concreta: per quale motivo la società
bianconera ha di fatto "dimissionato" Moggi e Giraudo - vale a dire il
gruppo dirigente con il quale aveva vinto tutto quello che si poteva
vincere negli ultimi dodici anni - prima ancora di verificare la
fondatezza delle accuse che venivano rivolte ai suoi uomini? Tentiamo (e
soltanto tentiamo) di dare una risposta. E' un articolo di Marco Lo
Conte comparso su Il Sole 24 Ore del 2 settembre 2006 - e passato, per
la verità, quasi inosservato - a offrirci una traccia inquietante. Il
giornalista suppone che "ad agevolare o, quanto meno, a non ostacolare
la divulgazione delle intercettazioni telefoniche, alla base
dell'inchiesta sportiva, possa essere stato il tentativo della
cosiddetta triade (Bettega, Giraudo, Moggi) di prendere il controllo
della Juventus." Dunque, l'ipotesi che in questo articolo si prende in
seria considerazione è che la triade stesse preparando una scalata
azionaria alla società e che, allo scoppiare dello scandalo
intercettazioni, quest'ultima si sia difesa "approfittando", in qualche
misura, dell'onda mediatica che andava montando contro i dirigenti e la
stessa squadra. Ma, innanzitutto, come si sarebbe realizzata questa
scalata? Lasciamo la parola a Lo Conte: "Sommando il 3,6% di azioni
possedute, secondo gli ultimi dati Consob disponibili, dall'ex
amministratore delegato Antonio Giraudo a quelle disponibili sul mercato
(il flottante è pari al 28,9%), cui magari aggiungere il 7,5% facente
capo a Lafico, la finanziari libica azionista di Fiat da trent'anni.
Tanto da avvicinarsi alla soglia fatidica del 30% che rende obbligatoria
l'Opa e spingere così Ifil (che detiene il 60% del pacchetto azionario
Juventus) a cedere il timone della società alla triade con Andrea
Agnelli alla presidenza." Ora, se tutto questo fosse ben più di una
semplice ipotesi, si profilerebbe una conclusione davvero paradossale. E
cioè che proprio adottando quell'atteggiamento in apparenza ondivago e
rinunciatario, proprio smantellando in un baleno i vertici societari e
la squadra, proprio adottando in sede processuale una tattica
incomprensibilmente "suicida" (vedi l'episodio Zaccone), la proprietà
Juventus, contro ogni apparenza, avrebbe mirato a difendere strenuamente
i propri interessi. E se è così, allora, dovremmo concludere che è
lontano dalla aule di giustizia e dal clamore dei giornali, che si
sarebbe combattuta la "vera" battaglia. una battglia non processuale e,
di fatto, mai assurta agli onori delle cronache. Una battaglia in cui -
qui sì - la proprietà bianconera si sarebbe mostrata assolutamente
determinata a salvare se stessa. La strategia? Sacrificare quattrini e
blasone per conservare, di fatto, il controllo della Juventus.
A dare corpo a questa ipotesi del Sole 24 Ore possiamo fornire qualche
spunto aggiuntivo. Occorre innanzitutto tenere presente che la società
Juventus venne quotata alla Borsa di Milano nel dicembre 2001. Il prezzo
di collocamento fu pari a 3,70 euro per azione. I capitali raccolti in
parte finanziarono un aumento di capitale sociale (oltre 60 milioni di
euro), mentre quasi 75 milioni di euro furono incassati da IFI (una
delle cosiddette "casseforti" della famiglia Agnelli) in qualità di
offerente di azioni proprie (più una minima parte in capo ad Antonio
Giraudo). E' interessante notare che, proprio nei due mesi precedenti
l'emergere dello scandalo di Calciopoli, si registra un notevole aumento
dei volumi di scambio delle azioni della Juventus: volumi superiori di
ben dieci volte rispetto alla media dei quattordici mesi precedenti, con
un prezzo quasi raddoppiato (salito fino a 2,46 euro, mentre a gennaio
2006 quotavano poco più di 1,30 euro). E questa circostanza ha portato
alcuni osservatori finanziari a ipotizzare che nelle settimane
antecedenti l'esplosione dello scandalo fosse in corso un vero e proprio
"rastrellamento" di azioni Juventus. Qui arriviamo al punto. Cosa
avrebbe comportato, infatti, l'eventuale rastrellamento di cospicui
quantitativi di azioni? L'articolo 106 comma 1 del Testo Unico della
Finanza (TUF), che regola la cosiddetta "offerta pubblica d'acquisto
totalitaria", parla chiaro: "chiunque a seguito di acquisto a titolo
oneroso venga a detenere una quota di capitale rappresentato da azioni
ordinarie in misura superiore al 30%, è obbligato a promuovere
un'offerta pubblica d'acquisto sulla totalità delle azioni." E, come
osserva, Maura Castiglioni in un articolo dedicato all'OPA obbligatoria
reperibile sul sito
www.magistra.it: "E' chiaro che l'ingresso di
soggetti con percentuale azionaria superiore al 30% può determinare una
notevole influenza, se non un vero e proprio mutamento della gestione
sociale, facendo venir meno la fiducia o comunque il gradimento
dell'investitore." Ecco dunque quale sarebbe stato il risultato di
questa "OPA ostile", come si usa dire nel egrgo finanziario: IFIL
probabilmente non avrebbe consegnato le azioni agli "scalatori" ma si
sarebbe ritrovata, per così dire, il nemico in casa, magari disposto ad
investire grandi somme nella squadra ma ostacolato dalla vecchia e
storica proprietà, con le conseguenza che possiamo immaginare in termini
di reazioni di tifosi e opinione pubblica. Aggiungiamo altre tessere al
mosaico che ci si sta profilando sotto gli occhi. Rileviamo, ad esempio,
che nei primi giorni di agosto 2006, e cioè a scandalo e processo ormai
conclusi, gli scambi azionari del titolo Juventus hanno avuto un'altra
impennata impressionante di volumi di scambio: oltre 120 milioni di
euro, rispetto ad una media giornaliera di 400.000 euro (dato riferito
al periodo 2-18 gennaio 2007). Simili valori autorizzano a pensare che
in quel periodo - e cioè al termine di questa supposta "battaglia" per
il controllo della società - fosse davvero in corso un'operazione di
ridefinizione dell'assetto azionario. E, in questo caso, del tutto
coerente con questo scenario suonerebbe la comunicazione ufficiale
obbligatoria fatta da Antonio Giraudo il 21 agosto 2006, bella quale si
conferma che la partecipazione azionaria dell'ex amministratore delegato
della Juventus è scesa sotto il 2%. Ma l'ottica con cui stiamo guardando
le vicende azionarie della Juventus getterebbe una luce anche su alcune
stranezze che si possono riscontrare nella chiusura del bilancio
bianconero al 30 giugno 2006. Questo bilancio presenta infatti più di un
motivo d'interesse. I dati riportano ricavi record (251 milioni di
euro), ma anche la più elevata perdita finale mai registrata: 36,48
milioni. Va detto, in proposito, che il bilancio presentava 48,09
milioni di riserve, utilizzate dalla nuova gestione per la copertura
della perdita (si veda pagina 22 del bilancio trimestrale al 30
settembre 2006). E fino a qui sarebbe tutto normale. Se non fosse che la
perdita viene presentata senza evidenziare che le vendite di giocatori
avevano generato plusvalenze per 36 milioni, che però sono state
imputate alla gestione successiva. Le vendite che hanno generato
minusvalenze, invece, sono rimaste nel bilancio di competenza.
Ripetiamo: le plusvalenze di 36 milioni verranno registrate nel bilancio
di Cobolli Gigli, mentre le minusvalenze di 12 milioni (derivanti dalle
cessioni dei giocatori Vieira e Thuram) sono state attribuite al
bilancio di Giraudo. Eppure sarebbe bastato imputare quelle plusvalenze
al bilancio in corso per portarlo in sostanziale pareggio, con il
considerevole vantaggio, peraltro, di conservare alla società le riserve
accantonate. Per quale motivo questo non è stato fatto? Dove sta il
senso di chiudere in perdita e "bruciare" 48 milioni di riserve? L'unica
ipotesi che pare sostenibile è quella che una chiusura in attivo
avrebbe portato a una ulteriore assegnazione di azioni ad Antonio
Giraudo. Magari proprio la quota necessaria per raggiungere il fatidico
30% che, come abbiamo visto, avrebbe reso obbligatoria l'OPA. Certo,
questa rimane una semplice ipotesi. Sta di fatto che, a conti fatti, i
48 milioni di riserve fatti evaporare in questo modo dalle casse della
società rappresentano un costo molto inferiore a quanto la proprietà
avrebbe dovuto spendere sul mercato - e di tasca propria - per
difendersi da una scalata azionaria. Per concludere, torniamo al
processo e gettiamo sul tavolo, in ordine sparso, altri interrogativi.
Siamo anche disposti ad accettare l'idea che, in presenza di una
condanna giusta e definitiva, la proprietà bianconera si sarebbe trovata
nella necessità di pensare a un ridimensionamento tanto sul piano
societario quanto su quello sportivo. Ma allora, perchè la Juventus ha
venduto molti dei suoi giocatori più importanti prima di conoscere le
sentenze? In un simile contesto, considerato l'atteggiamento ondivago
del presidente Cobolli Gigli - prima remissivo, poi battagliero, infine
ancora poco incisivo - è davvero difficile trattenersi dal supporre
l'esistenza di strategie non strettamente processuali. ma, se così
fosse, dovremmo anche domandarci: perchè Luca Cordero di Montezemolo -
che non ha speso una parola sulla vicenda Juventus, e in generale su
Calciopoli - è stato ringraziato pubblicamente dal ministro Melandri
dopo il ritiro del ricorso al TAR? Curioso, del resto, anche il
disimpegno dell'avvocato "difensore" della Juventus Cesare Zaccone,
famoso per la sua "richiesta" di serie B, o meglio così dipinto dai
mezzi di informazione, mentre, come si è visto, la ricostruzione
dell'episodio fatta dal giudice in sentenza restituisce una realtà
piuttosto diversa. Va rilevato che, alla fine del processo, Zaccone non
è mai intervenuto su alcun organo di stampa per difendere il proprio
operato o anche soltanto per commentare la vicenda. Proprio per questo,
colpisce non poco quanto da lui affermato a margine dell'Assemblea degli
azionisti Juventus, il 26 ottobre 2006: "Lo rifarei. Non ho avuto alcuna
indicazione dalla società di quello che avrebbe dovuto essere il mio
comportamento. Ma nelle 7.500 pagine delle intercettazioni i dati erano
drammatici, da serie C." Per tutto quanto si è visto nei capitoli
precedenti, quello che si ricava da questa dichiarazione è,
innanzitutto, che Zaccone in realtà non deve aver letto quelle settemila
pagine, limitandosi forse ai titoloni di qualche quotidiano. Ma, ironia
a parte, le domande che suscitano queste parole sono ben altre. Che
necessità aveva Zaccone di farci sapere che non aveva ricevuto "alcuna
indicazione" dalla Juventus? Di più: che avvocato è uno che afferma di
non ricevere indicazioni dal proprio cliente? E perchè questo avvocato
rilascia queste ammissioni solo tre giorni dopo l'ultima uscita di Piero
Sandulli in cui, come abbiamo già ricordato, il presidente della Corte
d'Appello Federale ammetteva che "non c'erano prove" a carico della
società bianconera? E, soprattutto, proprio il giorno prima dell'arbitrato?