Risultati da 1 a 10 di 10

Discussione: Iconografia storica

  1. #1
    Emack
    ospite

    Predefinito Iconografia storica

    Comincio con alcune immagini legate all'AvantGarde Bolscevica ed al Bolscevismo stesso.


    Boris Kustodiev, Il Bolscevico, 1920.
    Olio su tela, 101x141 cm. Galleria Tretyakov , Mosca



    Aleksandr Rodchenko, Una parte di Mosca, 1927.


    Poster dedicato alla Guerra Civile, 1919.


    Lenin con Trotskij e Kamenev (questi ultimi due sulla destra), in un discorso, fatto il 5 Maggio 1920, ai soldati in partenza per la Polonia.


    La medesima immagine, ritoccata negli Anni Trenta: Trotskij e Kamenev sono spariti.

    Ho alcune stampe molto interessanti: l'unico problema è che ho lo scanner che non funziona (grave cataclisma per uno pseudograficozzo).
    Abbiate pazienza.

  2. #2
    Emack
    ospite

    Predefinito Re: Iconografia storica

    Una scorsa ad alcuni manifesti politici italiani del secondo novecento.










  3. #3
    Emack
    ospite

    Predefinito Re: Iconografia storica

    El Che.


  4. #4
    Emack
    ospite

    Predefinito Re: Iconografia storica

    Gli albori della massificazione dei consumi.


    Manifesto di Giovanbattista Carpanetto per le auto Fiat, 1899.


    Manifesto di Massias per le bicliclette Gladiator, 1905. Parigi, Musée Des Arts Décoratifs.


    Manifesto di Leonetto Cappiello per i GrandiMagazzini Mele, 1904.


    Manifesto per le macchine fotografiche Kodak, 1888.


    Il primo manifesto per Coca-Cola, 1886.




  5. #5
    Emack
    ospite

    Predefinito Re: Iconografia storica


    Manifesto anti-bolscevico statunitense.

  6. #6
    Emack
    ospite

    Predefinito Re: Iconografia storica

    Elogio agli uomini del NYFD, in occasione dell'attentato al WTC, 11 settembre 2001, NYC (USA).




    Thomas E. Franklin, The Records, 2001.






  7. #7
    Emack
    ospite

    Predefinito Re: Iconografia storica

    Lo storico ponte di Mostar (Bosnia).

    Inizio Novecento.


    1992.


    Novembre 1993.


    Lavori di ricostruzione.





    Paolo Rumiz: Mostar e il ponte che non unisce più
    Tratto da “la Repubblica”, 2 novembre 2003


    Quando crollò, il 9 novembre del 1993, la valle della Neretva si riempì di silenzio. I cannoni tacquero, muti davanti al ponte vecchio che non c’era più. Il rimbombo si spense, poi tacquero pure i cecchini. Quelli dei bosniaci, che l’avevano costruito quattro secoli prima. E quelli dei croati, che l’avevano tirato giù a colpi di granate. L’intera Mostar si fermò. Tutti, intorno, capirono che qualcosa di terribile era accaduto. Una lacerazione nella comunità, una ferita non rimediabile. Non era caduto solo un ponte, ma un simbolo grandioso di unione fra Oriente e Occidente. Senza di esso, la Bosnia stessa perdeva la ragione di esistere. Fu allora, nella luce del tramonto, che si vide una cosa inattesa. La parabola invisibile del vecchio ponte ottomano, la sua linea perfetta a schiena d’asino, sopravviveva al crollo del manufatto in pietra. Rifiutava di cadere. Stava lì, sospesa fra i due tronconi aggrappati alle rocce bianche. La ferocia materiale dell’abbattimento rivelava tutta la forza della leggenda perduta. Quella per cui l’uomo giusto, secondo i turchi, raggiunge l’Altrove (l’altro mondo, o semplicemente l’Altro) passando su una passerella più sottile di un capello e più affilata di un rasoio. Un arco celeste, purissimo. Il ponte di Mostar era questo, un atto di fede. Un monumento alla supremazia dell’invisibile. Ma lo Stari Most era anche una grande opera collettiva. Non fu, come avviene con l’ingegneria d’oggi, l’esecuzione di un disegno fatto da una mente sola. L’architetto turco Hajruddin, che lo fece, fu solo il coordinatore di un gruppo di tagliatori di pietre bosniaci che lavorarono empiricamente, correggendo le soluzioni adottate in corso d’opera e mescolando procedure orientali e occidentali, venete e ottomane. Nulla fu calato dall’alto o deciso dall’inizio. Tutto nacque dal cantiere e nel cantiere, espresso dalla collettività locale. Il suo coinvolgimento nella costruzione fu tale e durò così a lungo che la cittadina prese il nome dal ponte. Mostar, da Stari Most, cioè ponte vecchio. Come l’alto grande ponte bosniaco, quello sulla Drina, anche lo Stari Most era uno straordinario sensore di eventi. Per sapere storie, bastava sedersi ai suoi bordi e aspettare. Il borbottio del bazar le faceva arrivare. Sul ponte sapevi le cose in anticipo. Un vecchio venditore di souvenir, in un magnifico tramonto di settembre, nel 1991, mi disse con una dolcezza che mi gelò: "Questa è la nostra ultima estate di pace". Nulla lasciava presagire che il macello in Croazia avrebbe infettato la Bosnia. Ma lui aveva visto lontano. Sapeva, e accettava il destino della sua gente. Era quel simbolo, e non il manufatto, che si era voluto colpire. La pietra non interessava ai generali croati. Il ponte, difatti, non aveva alcun interessa strategico. Non serviva a portare armi e uomini in prima linea. Esisteva, semplicemente. Era il luogo della nostalgia, il segno dell’appartenenza e dell’alleanza tra mondi che si volevano a tutti i costi separare. Molti ricordano, in quei mesi, quanta ostilità incontrò in alcune gerarchie cattoliche croate, l’idea che il Papa potesse andare in visita a Sarajevo a rinnovare l’antico segno di alleanza con l’Islam, e dire che l’Europa senza Bisanzio-Istanbul era monca. Europa dunque non solo Occidente, ma ponte essa stessa tra le terre del tramonto e quelle dell’alba. Chissà. Se i Balcani si fossero chiamati "Balkanistan", forse avremmo capito un po' di più. Oggi ci accorgeremmo che era impossibile intendere Kabul e Bagdad per il semplice fatto che non avevamo capito la Bosnia, grande avanguardia di Bisanzio nel cuore dell’Europa. Oggi si parla dell’11 settembre. Fu quella, si dice, l’ora zero del conflitto di civiltà. Ma chi vide l’abbattimento del ponte, otto anni prima, s’accorge che talvolta la storia deraglia alla chetichella, senza riflettori. Se satura di significato, anche una passerella che cade può essere un Grande Inizio esattamente come il crollo terrificante di una Torre di Babele. A pensarci bene, molto era già scritto allora, in quella sera in cui una Luna fredda, enorme, sorse dai monti dell’Erzegovina. La guerra dei Balcani non era affatto l’ultima guerra del Novecento. Era la prima guerra del terzo millennio. Esprimeva già il potenziale distruttivo delle tempeste a venire. C’era in essa l’impotenza dell’Europa di fronte alle crisi internazionali che la riguardavano. C’era la debolezza dell’Onu e c’era già, tutta, la solitudine americana nel suo ruolo di poliziotto del mondo. Vedevi anche, con largo anticipo, l’inutilità delle guerre stellari e delle bombe intelligenti di fronte a conflitti rasoterra dove i clan conservavano il controllo del territorio e le popolazioni vantavano capitali di orgoglio e sopportazione capaci di sballare ogni nostra previsione strategica. La guerra in Bosnia, scatenata col pretesto di reprimere un fondamentalismo islamico che ancora non esisteva, lungo dal prevenire il terrorismo, lo svegliava dal suo torpore, lo chiamava in vita. Lo si vide con la strage di Srebrenica, quando novemila maschi musulmani furono passati per le armi in due giorni soli, nell’indifferenza del mondo. Dopo quell’abominio non vi fu alcun attentato, nulla. Ma il mostro si svegliò, mujaheddin e mercenari suicidi accorsero da Oriente. E l’Europa cominciò a fare cortocircuito con la Palestina. A Mostar si vide, poi, la bugia della guerra etnica e religiosa, raccontata come tale anche dai media occidentali, e poi condannata a svelare miseramente i suoi contenuti affaristici. Si vide l’archetipo dello scontro tra città e campagna nell’era della globalizzazione. Si vide, allo stesso modo, quanto rapidamente i conflitti proclamati in nome dell’identità, anziché proteggere le comunità locali, le sfiancavano, aprendo le porte alla colonizzazione multinazionale dei territori. Apparve anche la complessità culturale dell’Oriente, una complessità divenuta incomprensibile e intollerabile a questo nostro mondo del consumo che banalizza, semplifica e ragiona solo per grandi flussi e grandi reti. E difatti fu lì, dopo Mostar, con l’invio delle fortezze volanti sulla Serbia, che anche l’Occidente cominciò a bombardare i ponti e ad abbattere simboli, svelando la sua incapacità di governare i territori e condannandosi alla non soluzione delle crisi internazionali. Non si percepì che in Bosnia cominciava - come si sarebbe visto di lì a poco da Israele all’Hindukush - un mondo dove l’orrore e l’incanto, la mansuetudine e la ferocia diventavano inscindibili, due facce della stessa medaglia. Come il ponte sulla Drina, altro capolavoro turco in Europa, dove il Nobel Ivo Andric descrive meticolosamente sia l’abominio di un impalamento sia la dolcezza di una storia d’amore. Mostar era la porta di un mondo altro, dove il tempo entrava in dimensioni carovaniere. Lì iniziava una ricerca della lentezza - il sorseggiare del caffè, le trattative al mercato, le preghiere - che spiazzava noi divorati dalla fretta. Lì cominciavano i popoli magari privi di tutto ma padroni del loro tempo, risorsa sempre più introvabile nello stressato Occidente. "Il tempo è dalla nostra parte", dicevano tranquilli gli albanesi kosovari sotto i lacrimogeni del serbo Milosevic. Avevano ragione. La loro lentezza ha sgominato l’adrenalina della polizia jugoslava. Oggi quella terra è sempre più loro. E Milosevic è in galera all’Aja. Così gli americani: avranno anche vinto la loro Blitz Krieg a Baghdad, ma i tempi lunghi degli iracheni li mandano fuori di testa. Ripensando a quel crollo col senno di poi, vedi che il conflitto di civiltà nacque allora, e non fu uno scontro fra cristianesimo e Islam. Non fu nemmeno una resa dei conti fra democrazia dell’Ovest e assolutismo dell’Est, moscovita o ottomano che fosse. Fu l’aggressione della modernità contro un mondo che si ostinava a credere nell’invisibile, la rabbia di una civiltà senza più miti e senza più fede contro un Oriente che condensava troppi simboli. Per chi crede nei numeri c’è anche un’inversione di date. La storia non cominciò l’11/9, ma il 9/11. Una data, la seconda, che ha suonato due volte nel cielo d’Europa. Prima che a Mostar nel '93, a Berlino nell’89, con la caduta del Muro. L’evento che sembrò liberare i popoli e poi liberò il demone della guerra. Oggi il ponte è ricostruito. L’hanno inaugurato pochi mesi fa. I ragazzi di Mostar hanno fatto festa tuffandosi dalle rocce nelle pozze verdi della Neretva, come facevano da secoli. Ma l’anima del ponte non c’è più. Abbiamo un bel manufatto, espresso dai benevoli finanziatori della Banca Mondiale, da potenze straniere per le quali la Bosnia - come oggi l’Iraq - è un mercato dove ritagliarsi uno spazio di ricostruzione. Come spiega Gilles Péqueux, che ne avviò i lavori prima di dimettersi in polemica con sponsor (i quali a suo dire non garantivano l’etica del progetto), il ponte nuovo non è più quello di allora. Esso non nasce dall’opera e dalla fede della collettività locale ma da una squadra di tagliapietre turchi, preferiti a quelli locali per ragioni di costi. Non nasce dalla riconciliazione (la città è ancora sconciamente divisa) ma vuole calarla dall’alto su un lutto non ancora elaborato. Così oggi si rischia un innesto incompatibile, a forte rischio di crisi di rigetto. "La sola cosa che interessava ai finanziatori era l’inaugurazione - lamenta l’architetto francese succeduto al turco Hajruddin - l’idea era quella di fare più in fretta possibile e poi andare via". Il ponte di oggi non è più un figlio di Mostar. Non nasce più dall’incontro dei due mondi.

  8. #8
    Emack
    ospite

    Predefinito Re: Iconografia storica


    Mount Ararat, 5137 m (16,854 ft.) as seen from the town of Dogubayazit. Photo by Richard Carey.


    Francobollo emesso nel 1921 nella Repubblica Socialista Armena.

    "Lei sta osservando il grande paradosso armeno", mi dice Jivan Tabibian. Affacciati a una finestra del palazzo del Ministero degli Esteri a Erevan, guardiamo le nubi sfilare davanti alla vetta innevata dell'Ararat, alta 5137 metri. All'improvviso, l'ex ambasciatore Tabibian ha abbandonato ciò di cui si stava occupando per contemplare, in silenzio, il monete. A Erevan, è impossibile non lasciarsi distrarre dall'Ararat.
    [...]

    L'ampia fronte innevata dell'Ararat si protende in maniera quasi minacciosa, con una potenza allucinatoria. Il suo nome deriva da quello di una divinità dell'Età del bronzo, Ara, il cui culto talismanico di morte e rinascita rispecchiava le trasformazioni stagionali dell'Ararat, desolato in inverno e ricco di nuova vita in primavera. Il Piccolo Ararat, al contrario, sembra la rappresentazione della montagna ideale, un cono vulcanico di forma perfetta.

    E' impossibile contemplare a lungo i due Ararat senza abbandonarsi a qualche profonda riflessione filosofica, e gli armeni li contemplano sin dalla nascita della civiltà.

    Secondo il filosofo che è in Jivan Tabibian, l'identità del suo popolo è legata in modo inscindibile all'esperienza della perdita, al fatto di aver più volte dovuto abbandonare, nei loro spostamenti, luoghi ricchi di significato simbolico nel territorio di altri.
    [...]

    "Il paradosso rappresentato da quella montagna", continua Tabibian, "riguarda il nostro senso del territorio", un concetto che sta alla base di quasi ogni identità nazionale. "Noi non siamo legati ai luoghi" - sarebbe impossibile, date le incessanti perenigrazioni del popolo armeno - "ma essi sono profondamente presenti nelle nostre coscienze".
    National Geographic Vol. 13 N. 3, Marzo 2004, pg. 86.

  9. #9
    Emack
    ospite

    Predefinito Re: Iconografia storica

    Litografie degli anni Venti nella Germania della Repubblica di Weimar, di Karl Holtz. Berlino, Historiches Museum der Stadt.










  10. #10
    La Borga L'avatar di Jimmy
    Data Registrazione
    29-03-03
    Località
    Urbe
    Messaggi
    11,587

    Predefinito Re: Iconografia storica

    Discussione uppata.

Permessi di Scrittura

  • Tu non puoi inviare nuove discussioni
  • Tu non puoi inviare risposte
  • Tu non puoi inviare allegati
  • Tu non puoi modificare i tuoi messaggi
  • Il codice BB è Attivato
  • Le faccine sono Attivato
  • Il codice [IMG] è Attivato
  • Il codice HTML è Disattivato