Sono lusingato, ma non sono di quella parrocchia
Insomma, da qualche settimana per la palestra avevo cambiato orario. Per anni ero vissuto nella bambagia e ci andavo alle otto di mattina, insieme all’uomo delle pulizie e a quel disgraziato di istruttore sciancato che aveva il primo turno. A volte arrivavo prima di loro e mi toccava aspettare fuori al freddo, nella nebbia. Avrebbero fatto prima a lasciare le chiavi a me. In fondo era bello andarci presto. Ero fortunato e me ne rendevo conto. Non trovavi nessuno, avevi l’intera palestra a disposizione e potevi fare i tuoi porci comodi. Un’oretta e mezza di movimento ed eri già lindo, pinto e tonico. Pronto per affrontare la giornata.
Ma il lavoro incalzava, gli impegni pure. Era il momento di crescere e di assumersi le proprie responsabilità, ed andarci in pausa pranzo. Come del resto fanno quasi tutti i poveracci costretti a lavorare per vivere e con una famiglia a cui pensare. Io la famiglia ancora non l’avevo, ma il lavoro sì. Quello era arrivato mio malgrado. Un tempo le iniziazioni all’età adulta si celebravano partecipando alla prima battuta di caccia, con un tatuaggio rituale o con la danza attorno al fuoco. O magari andando in guerra. Oggi capisci che sei diventato grande quando all’una, invece di mangiare, prendi la borsa e le scarpe e ti vai ad infilare in uno stanzone rigurgitante musica dance, vapore e miasmi di sudore.
Mi si aprì un mondo nuovo. Innanzitutto non avrei mai immaginato che in un salone così piccolo ci entrasse così tanta gente. Ancora un po’ e per usare un attrezzo dovevi prendere il tagliando come alle poste. E che fauna variegata… Su ognuna di quelle persone ci si sarebbe potuto scrivere un trattato di sociologia. C’era il dopato, il vecchio sportivo, il professionista annoiato, la giovane mamma che dopo la gravidanza non si sentiva più attraente, la ragazzetta delle superiori in perizoma e hot pants, la vecchietta che tutti i giorni si macinava trenta chilometri di cyclette… E tanti altri.
Tra i vari mi colpì un ragazzo sui trentacinque anni, piuttosto taciturno; abbastanza atletico, attirò la mia attenzione più per i capelli alla Brian May che altro. Anche se a onor del vero va detto che non poteva permetterseli, perché già gli si intravedeva un principio di piazzetta. Dopo esserci incrociati per due/tre volte consecutive iniziammo a salutarci. In quella palestra in materia di saluto vigevano regole non scritte ma in fondo rispettate da tutti: una di queste prevedeva che tra avventori ci si accorgesse della presenza altrui con cortesia, ma rigorosamente a monosillabi o con un cenno del capo. Poi tutti giù a faticare, c’era poco tempo per tricche e ballacche. Già uno spende soldi per iscriversi, ci manca solo che poi si metta a perdere tempo parlando di stronzate con gente che a malapena conosce. Diverso il comportamento tra chi si conosce già e porta avanti un rapporto nato “nel mondo là fuori”. In questo caso si conversa liberamente, rigorosamente a voce altissima e di qualsiasi argomento, anche quelli più inopportuni. Spesso la fatica annebbia le menti, porta a perdere il contatto della realtà e i forzati del cardio mettono involontariamente in piazza i panni sporchi. “Mia figlia quindicenne ha perso la verginità con un senegalese di vent’anni più grande di lei, che ne pensi?”. Oppure: “No, oggi niente cyclette che ho le emorroidi grosse come meloni”.
Ma torniamo a Brian May. Quel giorno arrivai al solito orario, entrai nello spogliatoio (socchiudendo gli occhi come al solito, tra culi pelosi all’aria e cazzi volanti c’era poco da stare allegri) e notai che era seduto in un angolo ad allacciarsi le scarpe. Lo salutai nel solito modo, come è giusto, e cominciai a cambiarmi. Mi fissava sinistramente. Non ci feci più di tanto caso, ma mi ricordai che era già successo diverse volte. “Mah, vai a sapere che problemi può avere per la testa in questo momento”, pensai. Feci il mio solito allenamento. Di solito l’efficacia e la durata del mio allenamento sono direttamente proporzionali al numero di fondoschiena femminili presenti in sala. Le cyclette sono rivolte verso i tapis-roulant: basta mettersi in sella, far partire i pedali e poi lasciarsi cullare dalla fantasia. Occhio perché può diventare pericoloso, mi raccontarono che un vecchietto ci rimase secco. Fu la signora delle pulizie ad accorgersi che era morto, all’orario di chiusura. Aveva le gambe che ancora mulinavano e un’erezione di granito.
Arranco per un paio d’ore buone, e torno mesto e inzuppato di sudore negli spogliatoi. C’è un silenzio glaciale, i rubinetti e le docce gocciolano. Il pavimento è bagnato e scivoloso. C’è sporcizia ovunque, e un caldo terribile. Le panche sono tutte vuote. Tutte tranne l’ultima là in fondo, nell’unico angolo cieco della telecamera di sorveglianza, dove ho messo la mia roba. C’è il mio zaino, e di fianco LUI. E’ seduto e chino, con i gomiti appoggiati alle cosce. “Perché si è spostato lì?”, mi chiedo. “C’è tutto lo spogliatoio libero… E poi quando siamo arrivati lui era dalla parte opposta”. Vabbeh, cavolacci suoi. Muovo qualche passo nella sua direzione, alza lo sguardo e mi saluta col solito cenno. Ricambio. Provo anche un leggero imbarazzo. Vorrei prendere le mie cose e spostarle di qualche metro, ma perdo l’attimo buono. E poi mi sembra scortese fare una cosa del genere, mica ha la lebbra! Mi passa subito ogni voglia di farmi la doccia, l’idea stessa di spogliarmi mi spaventa un pochino. E poi abito a mezzo chilometro, posso benissimo farla a casa e tornare in tempo al lavoro se accelero il passo. “Ok, vada per la doccia a casa”. Mi infilo i jeans sopra la tuta, rigorosamente rivolto al muro. Sento l’inquietante e inquieto suo respiro dietro di me. Mi giro e mi siedo per infilarmi le scarpe, e alzo lo sguardo. E’ lì in piedi, a due metri da me, che mi fissa. Ha i pantaloni slacciati e l’uccello in mano. Non si sta propriamente masturbando, ma si ravana tirandolo dentro e fuori dai boxer, mettendoci anche una certa energia. A metà tra il “visto che roba?” e “mi sto semplicemente aggiustando l’armamentario e ti scruto virilmente con aria di sfida”. Mi devo togliere il dubbio. Mi esce solo un ambiguo “hai finito?”. Per qualche secondo mi fissa con aria interrogativa. Mi rendo conto che la domanda può sembrare un attimino equivoca, sul tono di “hai finito col massaggio? Se ti va possiamo iniziare…”. Aggiungo frettolosamente “hai finito, per oggi? Con la palestra, intendo…”. Si rilassa un attimo e rinfodera la pistola, mi sa che ha capito che non sono interessato. “Ma dio, guarda, non me ne parlare… Oggi è stata una tale giornata… E ancora non è finita”. Ma Cristo, ha la voce di Jonathan del Grande Fratello! Ora che ci penso è la prima volta che lo sento parlare… Ora è tutto chiaro, il cerchio si chiude. Butto il discorso sul fatto che la palestra è troppo affollata, che non ci sono più le mezze stagioni e che si stava meglio quando si stava peggio. La spia del pericolo si è spenta, i miei sensi di ragno non pizzicano più. Finisco di vestirmi alla bell’e meglio, saluto e filo via. Ancora una volta il mondo è salvo, ma per quanto?