1. I«CULETTI» CONTRO LE «MERINGHE». DETTA così, in un mondo a misura di macho come quello del calcio – basti pensare al caso Cassano-Cecchi Paone e a tutti i suoi sconfortanti particolari – non sembra una sfida epica. E invece è quella tra le due squadre più forti e più ricche del mondo: Futbol Club Barcelona e Real Madrid Club de Fútbol. Barcellona e Real per tutti gli italiani. Se meringhe (merengues) è intuitivo, visto il colore bianco dei dolci e delle maglie del Real, più interessante è la genesi di culé, il soprannome dei tifosi catalani. Fra molte ipotesi, la più accreditata data 1909-22, quando il Barça giocava al campo di Calle de la Industria, dove il pubblico era diviso tra la tribuna a due piani e le due curve. Quando la capienza iniziò ad essere insufficiente, molti tifosi iniziarono a sedersi sul muro di cinta dello stadio. Chi passava dall’esterno vedeva sporgere i sederi e, così, la gente rifilò quel soprannome ai tifosi del Barça. Genesi molto popolare per una società che, nel suo futuro, diventerà un modello di stile e eleganza.
2. Più interessante è il motto del Barcellona, che spiega molto se non tutto: més que un club, più che una società calcistica. Rende l’idea di una multinazionale dove il calcio è il motore principale di moltissime iniziative. La sponsorizzazione dell’Unicef, voluta dall’ex presidente Joan Laporta, ne è stata un esempio. Il Barça non ricavava soldi dall’accordo, anzi li versava all’Unicef, ma il ritorno di immagine è stato clamoroso. Il successore di Laporta, Sandro Rosell, ha portato sulla maglia lo sponsor Qatar Foundation (150 milioni di euro in 5 anni, è il logo istituzionale di un’organizzazione no profit per la difesa dei bambini), suscitando comunque grandi polemiche e un commento sarcastico di Laporta, che ha visto lo sponsor Unicef «scivolare in basso sulla maglia», all’altezza dei calzoncini. Més que un club, poi, è scritto in catalano e non in castigliano (sarebbe: más que un club), particolare chiaro della trasformazione del Barcellona in una vera e propria bandiera catalana, opposta al centralismo di Madrid. Una storia antica, ma che nell’èra dei social media e della globalizzazione è esplosa in tutta la sua forza.
L’indipendentismo catalano non ha molti punti in comune con quello sperimentato in Italia con la Lega Nord. Non è un fenomeno conservatore, non ha connotati xenofobi, è patrimonio anche di una classe acculturata, giovane e europeista. Barcellona è storicamente e politicamente la città antagonista di Madrid. La differenziano il mare e la cultura mediterranea. Più che un bilinguismo, in molte parti della Catalogna (vedi Girona) c’è stato un ritorno quasi totale all’idioma locale. Durante la dittatura di Francisco Franco, il Barcellona è stato più di un simbolo: è stato il catalizzatore del sentimento catalano quando l’uso della lingua era proibito. Le vittorie calcistiche erano festeggiate come battaglie vinte.
Il Real Madrid è sempre stato, in Spagna ma anche in Europa, un club ricchissimo, potentissimo, presente nella stanza dei bottoni. Ha cercato e comprato i migliori giocatori, fin dai tempi in cui Ricardo Zamora, lo storico portiere della Nazionale, passò proprio dal Barcellona al Real. La rivoluzione culturale del Barcellona è invece arrivata negli anni Settanta, con la guida tecnica di Rinus Michels, l’inventore del primo Ajax (Coppa dei Campioni 1970, 4 scudetti olandesi, 3 Coppe d’Olanda). Michels, a Barcellona, ha allenato dal 1971 al 1974 e dal 1976 al 1978, vincendo tutto sommato poco (una Liga e una Copa del Rey) ma tracciando la strada del gioco «all’olandese» e impiantando la tradizione della formazione di giocatori all’interno delle squadre giovanili. I suoi eredi sono stati Johann Cruijff, Frankie Rijkaard e soprattutto Pep Guardiola, sotto la cui guida il Barcellona è diventato la squadra degli Imbattibili, oscurando in quanto a stile di gioco anche il cosiddetto Real Madrid dei galácticos.
Cultura del lavoro, rispetto delle regole, importanza della vittoria ma soprattutto di come si ottiene la vittoria. Il Barcellona ha trovato il modo calcistico di rappresentare in pieno le virtù che i catalani sentono parte del loro dna. Con un pizzico di pessimismo tipico della storia e della cultura locale. Basti pensare che la festa nazionale è la Diada Nacional de Catalunya (o semplicemente Diada), che si celebra l’11 settembre e che commemora la caduta di Barcellona nelle mani delle truppe borboniche di Filippo V di Spagna, durante la guerra di successione spagnola, l’11 settembre 1714, dopo 14 mesi di assedio. Conseguentemente, nel 1716, vennero abolite le istituzioni catalane, come ad esempio la Generalitat de Catalunya, a seguito dei decreti di Nueva Planta.
Celebrazione di una sconfitta, eroica ma pur sempre una sconfitta, come se fosse più importante di una vittoria senza onore.
3. Il contraltare del Barça è, da sempre, il Real Madrid. La squadra della capitale, città dell’interno, senza mare, multiculturale, centro moderno di una movida ancor più intensa che a Barcellona. Il Real come squadra del governo e del potere. La più amata, quella con più tifosi in tutte le regioni della Spagna, ma anche la più odiata. Calcisticamente legata a grandi presidenti: in primis lo storico Santiago Bernabéu, dal 1943 al 1978, cui oggi è dedicato lo stadio, e il modernissimo Florentino Pérez, colui che costruì la squadra dei galácticos dal 2000 al 2006 e che è ritornato al comando nel 2009. Grandi presidenti e grandi giocatori, comperati con investimenti sempre superiori a quelli che venivano fatti per la guida tecnica e/o per lo sviluppo del settore giovanile. Del Real Madrid si ricordano più i campioni (Amancio, Di Stefano, Puskás, Zidane, Raúl, Cristiano Ronaldo) che gli allenatori che li hanno guidati. Se il Barcellona è diventato il simbolo di un gioco di squadra, il Real Madrid è sempre stato e probabilmente sempre sarà il simbolo della giocata di un grandissimo campione.
Come il barcelonista si specchia nella sua squadra, così anche il madrileno. Gode della sua tradizione, si sente parte della storia della Grande Spagna e vede la sua squadra di club come la vera Nazionale del paese, al contrario dei simboli del separatismo: Barcellona e Athletic Bilbao. Non a caso le uniche tre squadre spagnole che, dalla creazione della Primera Division, nel 1929, non sono mai retrocesse.
Il palmarès del Real Madrid è più ricco di quello del Barcellona: 32 titoli nazionali vinti, 18 Coppe di Spagna (Copa del Rey), 8 Supercoppe di Spagna, ma soprattutto 9 Coppe dei Campioni, 3 Coppe Intercontinentali, 2 Coppe Uefa e una Supercoppa Europea. È sul terreno europeo che il Real Madrid, fino all’avvento dell’èra Guardiola, ha marcato la sua superiorità sui rivali. Quanto alla denominazione Real, non è «originale» del 1902. È arrivata per concessione del re Alfonso XIII, nel 1920, insieme alla corona applicata sullo stemma. Il primo cambio di simbolo data 1908, quando le lettere MCF (Madrid Club de Fútbol) furono stilizzate e inserite in un cerchio. Con la dissoluzione della monarchia, nel 1931, ogni simbolo reale fu eliminato. Dal nome fu tolta la denominazione Real e la corona fu levata dallo stemma, mentre fu aggiunta una banda trasversale violetta, a rappresentare la Castiglia. Nel 1941, due anni dopo la conclusione della guerra civile, fu ripristinata la corona reale nello stemma e il club tornò a chiamarsi Real Madrid Club de Fútbol. Ma ancor più che la squadra del re, soprattutto dai catalani, il Real è sempre stato identificato come la squadra di Francisco Franco e dei franchisti. Il Real Madrid, in tempi di autarchia e isolamento, fu per Franco un potente veicolo internazionale. Non per questo, nella sanguinosa guerra civile spagnola, mancarono episodi cruenti ai danni di dirigenti della squadra. Il presidente Rafael Sánchez Guerra (in carica dal 1935 al 1936) fu imprigionato e torturato perché repubblicano. Riuscì poi a fuggire a Parigi, dove divenne uno dei principali membri del governo repubblicano in esilio. Le milizie arrestarono e uccisero anche un vicepresidente e un tesoriere e fecero scomparire un sostituto presidente.
4. Real Madrid-Barcellona è diventata così qualcosa di più di una semplice partita di calcio. La rivalità divenne ancora più feroce dopo la semifinale di Coppa del Re del 1943. L’andata finì 3-0 per il Barcellona, in casa, ma il ritorno vide vincere il Real Madrid per 11-1. Secondo molti sui giocatori catalani furono fatte pressioni e intimidazioni. Negli anni Cinquanta la disputa per l’ingaggio di Alfredo Di Stefano, naturalmente finito al Real Madrid, gettò altra benzina sul fuoco. E in tempi recenti, il 23 novembre 2002, in occasione di una gara di campionato al Camp Nou, il «traditore» Luis Figo, passato dal Barça al Real Madrid per 60 milioni di euro, si vide lanciare dagli spalti una testa di maiale – entrata chissà come nello stadio – mentre stava per battere un calcio d’angolo.
L’indipendentismo catalano, di cui il Barcellona è un simbolo, impregna la vita dell’ex presidente Joan Laporta, avvocato e poi politico, che ha costruito l’epopea di Pep Guardiola, l’allenatore che tra il 2008 e il 2012 ha vinto 3 campionati, 2 Coppe del Re di Spagna, 3 Supercoppe spagnole ma soprattutto 2 Champions League (più due semifinali), 2 Supercoppe europee e 2 Coppe Intercontinentali. Laporta ha dichiarato di «sognare una nazione catalana organizzata come uno Stato a sé stante» ed è entrato in politica a metà degli anni Novanta, come membro del Partit per la Independència (1996-99), creato da Pilar Rahola e Àngel Colom. Il partito non ottenne successo, ma Laporta non si è dato per vinto ed è entrato prima nelle file del CiU (Convergència i Unió) e poi in quelle dell’Erc (Esquerra Republicana de Catalunya). Ha infine fondato Democràcia Catalana, che si è presentata alle elezioni del parlamento catalano del 2010 unita a Solidaritat Catalana per la Independència (Si). Nelle primarie di Si (4 settembre 2010), Laporta è stato eletto capolista per la circoscrizione di Barcellona e ha ottenuto un posto nel parlamento catalano. Nel dicembre 2011, intervistato dal giornale La Cámara, ha dichiarato: «L’indipendenza è indispensabile per la Catalogna perché riguarda tutte le persone che vivono e lavorano nella nostra comunità e perché è l’unica via per uscire dalla crisi economica, democratica e culturale nella quale, per disgrazia, siamo precipitati».
La sua posizione sul dualismo Barcellona/Madrid ma anche Catalogna/Spagna è sempre stata chiarissima. I recenti campionati Europei 2012, in Polonia e Ucraina, l’hanno, se possibile, rafforzata: «Ho tifato Spagna perché c’erano tanti giocatori del Barcellona e la loro felicità è anche la mia. Però la mia vera Nazionale è quella catalana che, purtroppo, non gioca gli Europei».
Trascinato in una sfida a chi è più catalano e più antimadridista, il successore di Laporta, Sandro Rosell, è voluto intervenire anche lui sull’argomento, trovando una chiave interpretativa molto astuta: la rivalità dentro la rivalità. Non solo Barça contro Real, ma anche Messi contro Cristiano Ronaldo nell’ottica della conquista del prossimo Pallone d’oro: «Cristiano Ronaldo non è il miglior giocatore al mondo, è il dodicesimo. I primi undici sono i titolari del Barcellona». Non contento, Rosell ha attaccato anche José Mourinho, l’allenatore del Real, che in occasione dell’ultima Supercoppa di Spagna aveva avuto un’accesa discussione con Tito Vilanova, all’epoca assistente e adesso erede di Pep Guardiola sulla panchina blaugrana: «Non accetterei mai un allenatore che vuole vincere a tutti i costi, senza tenere in conto il modo in cui si vince. E chiederei scusa se il mio tecnico mettesse il dito nell’occhio di un altro». Sì, in Barça-Real è successo anche questo. «Quanto al Pallone d’Oro, fuori dalla Spagna tutti lo darebbero a Messi. Ma qui…». Vecchio discorso: il Real Madrid sempre dalla parte dei potenti, delle istituzioni, dei mass media.
5. La guerra tra le due grandi rivali non si limita al campo. Stiamo parlando (fonte Deloitte, Football Money League 2012, con dati che si riferiscono alla stagione 2010-11) dei due club che fatturano di più al mondo. Il Real Madrid primo, con 475,9 milioni di euro, il Barcellona secondo con 450 milioni. Staccato il Manchester United, terzo, con 367 milioni. La prima squadra italiana è il Milan, al settimo posto, con 235,1 milioni. Fino a una decina di anni fa, il fatturato dei grandi club italiani era allo stesso livello di quelli spagnoli, poi è rimasto drammaticamente indietro. Nonostante questo, sia il Barça sia il Real sono pesantemente in passivo. Campagne acquisti faraoniche e stipendi sempre più alti mandano in rosso i bilanci. Con fatturati simili, però, non è un problema trovare aperture di credito.
Come e più che in campo, la competizione economica è piena di colpi bassi e priva di vere regole. Ne chiese conto l’europarlamentare catalano Pere Esteve, il 2 settembre 2002, con un’interrogazione presentata all’Unione Europea. Nel mirino il Real Madrid che, da società con 277 milioni di euro di debiti (praticamente sull’orlo del fallimento), si ritrovò in cassa 480 milioni grazie al cambio di destinazione del suo centro sportivo, reso edificabile dal Comune di Madrid e venduto per la costruzione di 224 mila metri quadri di uffici. La modifica del piano regolatore, insomma, permise la creazione della squadra deigalácticos, con gli acquisti di Zidane, Ronaldo, Beckham, Roberto Carlos, del «traditore» Figo… Per Esteve, il favore «pilotato» dall’allora premier Aznar (grande tifoso del Real, mentre Zapatero lo è del Barcellona) violava il trattato dell’Unione Europea che proibisce «gli aiuti degli Stati o dei Fondi statali sotto qualsiasi forma, tali da falsare o minacciare la concorrenza favorendo determinate imprese». Florentino Pérez, per la precisione, è uno dei più importanti costruttori edili spagnoli. L’allora commissario europeo Mario Monti rispose così: «Il Comune e la Comunità di Madrid hanno modificato l’accordo urbanistico in un modo che sembra conferire un vantaggio, ma non implicare un trasferimento di risorse statali». In poche parole, una furbata. Ma inattaccabile. E non l’unica. La Spagna ha assistito i suoi club calcistici dal punto di vista finanziario in almeno due occasioni (1985: prelievo del 2,5% dalla Quiniela, l’equivalente del Totocalcio; 1995: contributo per l’ammodernamento degli stadi attraverso un prelievo del 7,5% della Quiniela). In totale: 168 milioni di euro.
Non contento della risposta, Esteve ripresentò l’interrogazione. Così: «Il giorno 7 maggio 2001, il presidente della Comunità autonoma di Madrid, il sindaco di Madrid e il presidente del Real Madrid hanno sottoscritto un accordo per lo sviluppo urbanistico dell’area situata tra il Paseo de la Castellana, l’Avenida de Monforte de Lemos e le Calles di Pedro Rico e Arzobispo Morcillo, distretto di Fuencarral-El Pardo, ai sensi del quale le parti in causa si impegnano e si obbligano ad effettuare tutti i passi necessari per modificare la qualifica urbanistica dei circa 120 ettari di terreno in cui si trova attualmente la Città sportiva del Real Madrid, cosicché 30 mila metri quadrati di terreno, considerati precedentemente impianti sportivi privati, vengono trasformati in terziario generico, ossia la qualifica di industrie, stabilimenti commerciali, hotel. Sul terreno si prevede la costruzione di quattro torri, ciascuna di 54 piani, la cui vendita e/o utilizzo permetterà al Real Madrid di beneficiare di una fonte di entrate atipiche che non solo assorbiranno il forte debito della squadra ma la porranno finanziariamente dinanzi alle sue concorrenti. Poiché il calcio europeo costituisce un mercato unico, ai sensi della normativa comunitaria, bisogna considerare che una situazione di favoritismo nei confronti di una squadra spagnola non si ripercuoterebbe solo su altre squadre spagnole, ma anche su altre squadre dei paesi dell’Ue, visto che tutte attingono allo stesso mercato di beni e servizi sia per quanto riguarda il materiale sportivo che le prestazioni professionali di calciatori e allenatori. Deve esser chiaro che non stiamo discutendo l’esistenza di squadre di calcio più o meno ricche: si tratta di stabilire se le condizioni di trasmissione o vendita delle proprietà immobiliari in questione partono da uno speciale favore politico e amministrativo, a detrimento delle norme che disciplinano la libera concorrenza. In questo caso è stato possibile mascherare giuridicamente un aiuto di Stato sotto le apparenze di un’operazione urbanistica».
Anche questa seconda volta, però, la risposta di Mario Monti deluse le speranze di Esteve e, con lui, del Barcellona: «La Commissione constata che la riqualificazione del terreno in questione non sembra implicare trasferimenti diretti o indiretti di risorse né da parte della città di Madrid né da parte della Comunità autonoma di Madrid. Il fatto che la riqualificazione conferisca un vantaggio al Real Madrid non basta di per sé a conferirle un carattere di aiuto di Stato ai sensi dell’articolo 87 del trattato Ce».