La realtà nei videogiochi non esiste. Le differenze fra il fuori e il dentro lo schermo sono incolmabili e nessuna rappresentazione, seppur accuratissima, riuscirà mai a portare i due mondi su di uno stesso piano. Eppure è dai tempi del primo videogioco realizzato (una simulazione di scacchi) che si parla di maggiore o minore realismo. Il desiderio di creare simulacri della realtà non ci abbandona e ci costringe a discutere ogni dettaglio di una rappresentazione in base al fatto di riuscire o meno a riconoscerlo come plausibile. Probabilmente è un desiderio innato di esorcizzare i pericoli costringendoli in una dimensione più accettabile e, nello stesso tempo, fruibile senza correre alcun rischio. Forse è una volontà di “partecipazione” agli eventi che riconosciamo come “destabilizzanti” a spingerci nei mondi finzionali dove ci è concesso quello che fuori non possiamo fare… siamo alla ricerca del ristabilimento, della ricostituzione, della sanatura. Vogliamo poterli “comprendere” senza avvertire una mancanza, vogliamo poterli ridurre in elementi facilmente decostruibili e digeribili. Il divertimento che proviamo consiste nel potere che sentiamo di poter esercitare sulla realtà “finta” che vogliamo però considerare vera. Lo scempio del corpo / gioco è vissuto come potenzialmente vero e come fonte di soddisfazione anale. Il nemico annientato è l’affermazione del nostro status divino nei confronti del mondo virtuale, l’unico mondo dove ci è concesso questo potere “superiore” che è poi quello che giornalmente viene esercitato su di noi causandoci quella frustrazione che va sfogata in qualche modo. In Soldier of Fortune 2, ad esempio, ci divertiamo non solo ad eliminare gli avversari: il gusto maggiore si prova facendone scempio. Esercitiamo la nostra volontà di potenza inespressa sul corpo inerte di un nemico morto. Gli strappiamo con gusto gambe, braccia e gli facciamo esplodere la testa senza chiederci nemmeno perché è divertente o meno. Lo facciamo e basta e non abbiamo una spiegazione plausibile da dare nemmeno a noi stessi. L’unica cosa che sappiamo è di non volerci sentire in colpa se accusati e, soprattutto, se viene accusato il nostro “passatempo”. I videogiochi permettono una veicolazione delle emozioni superiore a quella che permette qualsiasi altro media. Ci consente, nel nostro intimo videogiocare, di esprimere in modo sociale, ma nello stesso tempo individuale, tutta quell’umanità (intesa nel suo senso più ampio) repressa che ci portiamo dentro. La esprimiamo, però, in una forma non libera e nemmeno fertile. È come schizzare sperma su di un muro mentre qualcuno ci ha fatto masturbare a comando, un onanismo mentale che ci porta a chiudere il nostro sguardo sempre più verso il muro senza accorgerci della folla alle nostre spalle.
La realtà nei videogiochi non esiste. Esiste un “effetto realtà” che la simula e la fa “immaginare”… esiste un rifarsi all’esperienza individuale di chi fruisce che lo porta ad evocare nella sua mente quella che si suppone essere realtà. La verità è che in un videogioco non è certo più realistica una macchina riprodotta in ogni minimo dettaglio (sia estetico che dinamico), piuttosto che uno strano veicolo volante capace di fare piroette in aria e attrezzato con missili che escono dal cofano, o non è certo più realistica la possibilità di portare poche armi, piuttosto che trasportarne cento. Pretendendo dei paletti di verosimiglianza imponiamo anche un dominio che trasfigura il possibile e lo rende definito e statico. La stasi è il fine: la tranquillità di un’architettura armonica e dispensatrice di ordine che incanti e raccolga le membra stanche di una vita che mostra in continuazione il suo volto caotico.