È un tepore gentile quello che ti sveglia, Gordon. La luce del sole ritaglia netta le ombre in una mattina bella come non ne vedevi da tempo. Dagli alberi giungono mille cinguettii diversi, nel sottobosco odi il frusciare degli scoiattoli, e poco lontano la voce allegra della cascata. È il tuo piccolo Eden ricostruito, un pezzo di Paradiso ritagliato subito fuori da quel mondo che ti ha così profondamente ferito.
Quell’uomo, quello che ha ucciso i tuoi, pare essere morto, ormai. Ma tanti come lui si aggirano per la Francia. Sodomiti. Assassini. Depravati, folli, invasati. Il Re non sembra intervenire, o forse neppure lui può fare nulla. Ma vendicherai i tuoi genitori. Glielo devi. Lo devi a quel medaglione che porti sempre con te e che ti sembra bruciare sul petto.
La mattina trascorre tranquilla, i pensieri allontanati da alcune ore di allenamento, dall’aria pulita dei boschi, da un tuffo sotto la cascata. È quasi ora di pranzo quando inizi alcuni esercizi brandendo la tua spada.
Poi senti un rumore sopra di te, come qualcosa che fenda rapido l’aria. Guardi il cielo. Cala dall’alto un falco, sbatte le ali per fermarsi, si appoggia sulla terra davanti alla tua caverna. Ti avvicini a lui con calma, la spada ancora in mano, ma l’animale sembra non avere paura, né fare nulla per attaccarti. Resta immobile. Sei incerto per un istante sul da farsi, poi noti che ha qualcosa legato a una zampa. Sembra un foglio di carta, un biglietto, un messaggio, forse. Cosa può essere?, nessuno sa che abiti qui. Nessuno ormai più ti conosce. Ti avvicini, circospetto. Fissi le cime degli alberi, come se d’un tratto ti aspettassi di vederti scagliare addosso una freccia.
Ma nulla.
Il falco ti attende, imperturbabile. Gli prendi la zampa, sfili il messaggio. Mentre lo spieghi, il falco riprende il volo, e sparisce nella luce abbagliante del sole. Lo guardi un istante, poi i tuoi occhi cadono su quelle poche righe di una calligrafia sconosciuta. Fatichi a leggere, è tanto che non sei costretto a farlo.
“La sir… la sign… la signoria…”
È inutile. Tutto inutile. Potrei andare avanti a cercare quelle bestie per anni. Cosa mi potrà mai raccontare questa gente, cosa? Nulla, che non siano voci, sentito dire. Leggende, forse.
Vagare per le foreste, per il verde così buio di queste terre, attraversare colori che non conosco, così diversi da casa mia. Ricordi che si susseguono. Il piacere degli anni ormai così lontani, volti di donne che si confondono nella nebbia delle memorie. Il sapore dolce e pastoso della mia spavalderia, lo splendore della mia spada che brillava nel sole, trafiggendo avversari, e mille cuori di donna.
Il dolore di quelle notti grigie, sferzate dal rosso del sangue, dal bianco troppo intenso delle frustate, dalla confusione, dall’inebetimento.
Mille ricordi e mille colori, mille sensazioni. Mille anime che si agitano in me. Ciò che sono stato. Ciò che sono ora. Ciò che mi guida. Una ricerca infinita, interminata, interminabile. Cosa mi può dire questa gente? Hanno paura dell’anima nera che vaga nelle loro foreste. Hanno paura degli spiriti dei morti. Hanno paura di ululati lontani, di un’ombra troppo grande, dello sguardo severo di Dio. Hanno paura di tutto, e per me è come se non avessero paura di niente.
Si aggirano per queste terre, quegli esseri che mi hanno ridotto quello che sono.
Si aggirano forse per le strade spoglie di questo villaggio, troppo piccolo anche per avere una ronda notturna, troppo piccolo anche per avere dei derelitti agli angoli della strada.
Si aggirano… cos’è quel rumore? Una carrozza? A tarda sera, qui? Le persone dabbene dormono, ormai. Solo io resto sveglio, stremato ma folle nella mia cerca. Viene in qua. Rallenta. Cosa..?
Scende un uomo, bardato in un ricco vestito di broccato, i capelli scuri (ma tutto è scuro, tutto è buio in questa notte senza stelle, solo il rosso incerto di qualche fiaccola me lo mostra) che gli cadono sulle spalle, il sorriso aperto e cortese, troppo cortese. Troppo affettato per uno come me, dagli abiti luridi e strappati. Tanto cortese da dare i brividi.
- Buonasera, messer Tanos. Reco con me un messaggio di grande importanza. Spero vorrà accettarlo di buon grado.
Quel sorriso. Mi porge una lettera, poco più di un foglio ripiegato. E senza attendere oltre sale in carrozza e il cocchiere la fa ripartire. Cosa..? Una visione, forse?
Solo quel foglio mi convince di non aver avuto una visione, di non essermi ormai perduto. Poche parole, in una lingua che non parlo da tanto. E altri ricordi, ancora. Il Banco, donne, mio padre…
“La Signoria…”
Aggirarsi di notte, nell’ombra, per non farsi scoprire. Poche fiaccole tremanti come unica illuminazione. Colpire, quando si deve, nell’ombra, non visti, non uditi. Mimetizzarsi, come un camaleonte. Silenziosi, come la sabbia che scorre in una clessidra. E quando la clessidra si svuota, colpire. Vendetta. Dovere. Senza aspettarsi di essere compresi. Non qui, non in questo luogo. Non in questa terra. Non in mezzo a chi nei secoli ha ucciso la mia gente, senza pietà, con la falsa scusa di un Dio lontano. Un Dio che permetteva le sofferenze di centinaia e migliaia di miei simili, di miei avi. Di me, nei secoli dei secoli. Porto in me le sofferenze e le ferite di ognuno di loro. E le restituirò, sono qui per questo. Porto in me la rabbia di generazioni. Ucciderò, come in passato ho ucciso, come hanno ucciso i miei compagni. Quelli che lo sono ora, quelli che mi hanno preceduto, quelli che lo saranno. Ho ucciso io Corrado di Monferrato. Lo stesso freddo desiderio di vendetta e libertà di quell’Assassino mi anima, è come se io fossi lui. Io sono lui, anche se lui è nato tre secoli prima di me. Anche se lui ha colpito più di duecento anni fa, quando gli avi dei miei avi calcavano la mia terra. Io sono lui. Io ucciderò, ancora. Per questo sono in mezzo a questi bastardi che mi chiamano Infedele, che mi odiano, da cui devo nascondermi. Ma il loro odio è solo paura mal dissimulata. Pessimi mentitori, così diversi da me, mi temono perché sono il monito costante dei loro errori, il ricordo continuo che dovranno pagare.
Apri la porta della povera casa in cui hai trovato rifugio, Wael, e resti in ascolto. Nessun rumore particolare, ma è come se qualcosa non fosse al suo posto, se qualcuno fosse passato da qui. O come se ci fosse ancora. Le stanze sono poche e minuscole, le esplori in fretta, tutto è normale. Eppure.
Eppure.
Quella sensazione continua a aleggiare. La tua mano scivola leggera e rapida sulla sciabola, la tua fedele, spietata compagna. Senti un rumore, un leggero cigolio. Scatti verso la porta – non te l’eri chiusa dietro, che disattenzione stupida – che si muove lentissima. Nessuno. Né qui, né fuori in strada. Nessuno. Resti in ascolto senza respirare. Rientri. Ti chiudi dietro la porta. Poi, per terra, lo vedi. Un foglio, piegato in due. Scritto a mano. Lo prendi in silenzio, controllando lo spazio attorno a te con occhiate nervose.
“La s… la signor… la signoria vostra è…”
La luce si rifrange sui tetti di Pisa, colpisce la torre ed esplode di bianco, sciogliendosi leggera sul vociare della gente che si accalca operosa per le strade. Che giornata meravigliosa, ti sembra di volare, Eloise! E sembri volare in mezzo alla gente, in mezzo agli sguardi degli uomini cui ormai sei abituata, quegli sguardi così stupefatti da quella bellezza scura che passa così vicino a loro. Non ascolti i commenti, ormai, neanche quelli volgari dei più umili garzoni, se non con un sorriso nascosto dietro ai tuoi sublimi occhi di giada.
Sublimi, come sublime quell’opera che hai visto in mattinata, quell’opera di cui tanto si parla e che ancora non eri andata a visitare, quell’orologio dipinto da Mastro Paolo, nel duomo di Firenze. I Medici stanno realizzando un capolavoro, con quella città, la sua bellezza rimarrà nei secoli a ricordo del genio degli uomini, già lo sai, e quell’orologio bellissimo non è che l’ennesimo gioiello. Sulla via del ritorno ti sei fatta lasciare dal cocchiere in paese, volevi godere sul volto l’aria di questa bella giornata di sole, la prima dall’inizio dell’anno, non volevi tornare subito a casa.
Ci arrivi ora, e appena Martino, il tuo servo più fidato, ti apre, senti del vociare nella sala. Vi entri subito, con passo sicuro, e i tuoi occhi incrociano quelli della tua nutrice, che sta parlando con uno sconosciuto. Lo fissi, fissi i suoi capelli scuri, i suoi occhi neri come la notte più scura. Un’espressione a un tempo altera e interrogativa ti vela lo sguardo.
- Quest’uomo è qui per consegnar…
- Signora – dice l’individuo interrompendo la nutrice e facendo un piccolo inchino – come spiegavo alla sua governante, è mio dovere consegnarle questa lettera. Spero accetterà di buon grado. Se permette, la lascio alla sua giornata. I miei omaggi.
Un breve inchino, poi s’incammina verso la porta. Si ferma un attimo passandoti accanto.
- Quasi dimenticavo: spero abbia apprezzato il nuovo orologio, nella sua visita di questa mattina. Trovo che messer Paolo Uccello abbia superato ogni aspettativa. Non è d'accordo?
Un altro cenno del capo, poi ti supera. La nutrice ti porge la lettera, ancora chiusa.
Ancora sovrappensiero, ne fissi il sigillo in ceralacca, una grande G piuttosto sobria. Apri la lettera, e leggi le poche righe di un foglio di una carta bellissima.
"La signoria vostra…"
La signoria vostra… la Signoria Vostra…