Chi prepara il saccheggio
Sull’ormai leggendario incontro a bordo del «Britannia», il mitico panfilo reale inglese, si è scritto anche troppo, non di rado con esagerazioni da cattiva letteratura fantasy. Eppure, la storia merita di essere ripensata. Siamo nel giugno del 1992: mentre sta per aprirsi una profonda crisi politica, mentre sta per concretizzarsi in modo devastante la minaccia giudiziaria, mentre si sta sgretolando il potere del ceto politico allora al governo, un pugno di politici, di banchieri, di finanzieri, di boiardi di stato, si raduna con importantissimi interlocutori stranieri al largo tra Civitavecchia e l’Argentario, per parlare di privatizzazioni. L’esito della storia è noto: ferma restando la buona fede di tutti i partecipanti, ferma restando la difficoltà obiettiva di quella fase politica, sta di fatto che nei semestri successivi prende corpo quella che tanti (
uno per tutti, Francesco Cossiga) hanno giustamente descritto non come una privatizzazione, ma come una svendita di buona parte del patrimonio industriale pubblico italiano. Chi scrive, com’è noto, è un liberista e un privatizzatore: ma le svendite sono svendite, e da allora l’Italia è rimasta priva di alcuni gioielli di famiglia.
Ecco, senza esagerare in paralleli sempre avventurosi, e tenendo presente che la storia non si ripete mai in modo totalmente sovrapponibile rispetto al passato, non vorrei che qualcuno, dentro e fuori i confini italiani (e in genere c’è soprattutto da preoccuparsi di chi sta dentro), e magari perfino qualche insospettabile «new entry» rispetto ai protagonisti della crociera di diciott’anni fa, accarezzasse il sogno di un remake di quel film. Alcuni ingredienti non mancano: l’aggressione giudiziaria in corso contro una maggioranza, le fibrillazioni politiche nella coalizione di governo, la speranza di «scossoni» che aprano nuovi cicli politici, e infine il fatto non irrilevante che nella «pancia» dei nostri residui giganti pubblici (Eni, Enel, Finmeccanica, ecc...) ci siano ancora valori immensi.
C’è un solo ostacolo rispetto a questo disegno: si chiama Silvio Berlusconi. La sua forza personale, il consenso enorme di cui gode, la sua centralità politica, la sua capacità - piaccia o non piaccia - di essere fino in fondo uomo dell’Occidente ma anche tessitore di nuove interlocuzioni internazionali, fanno di lui un ostacolo rispetto a chiunque voglia farsi o rifarsi un’immagine liberale, al prezzo di consentire ai soliti noti (italiani e non) di fare la spesa a prezzi scontati nel supermarket Italia.
Quando si sente parlare di «governi tecnici», è bene tenere a mente che in palio non c’è solo la legge elettorale, ma anche qualcosa di molto più consistente: la salvaguardia di un patrimonio immenso. Lo ripeto: chi scrive è e resta strafavorevole a un percorso di privatizzazioni e liberalizzazioni. Ma queste ultime non possono e non devono assumere, una volta di più, il carattere di un’umiliante svendita. È bene che gli italiani lo sappiano: ogni giorno di permanenza di Silvio Berlusconi a Palazzo Chigi è, al tempo stesso, un giorno di rispetto della volontà popolare manifestata in tutte le tornate elettorali dal 2008 ad oggi, e anche un giorno di autonomia del Paese rispetto agli ambienti e ai circoli che, soprattutto entro i confini nazionali, vorrebbero un’Italia più piccola, più debole, col proverbiale cappello in mano.
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