Citazione:
Quote:
Francesco Giavazzi
Basta trascorrere una giornata con alcuni investitori internazionali — quelli che possiedono metà del nostro debito pubblico — per capire quanto sia irreale questa campagna elettorale. Sette anni fa, quando entrammo nell'euro, i conti pubblici, al netto degli interessi sul debito, erano in attivo per una cifra pari al 6% del Pil. Con un tale avanzo, anche senza crescita e con tassi di interesse reali al 5%, il debito pubblico sarebbe rimasto stabile. Questo è il vero motivo per cui fummo ammessi nell'Unione monetaria. Oggi quell'avanzo di bilancio è scomparso. I mercati prevedono che nel giro di qualche mese la Banca centrale europea porterà i tassi al 3,5%. Per noi questo significa un aumento dei tassi reali ancor più elevato che nel resto d'Europa: per recuperare i 15 punti di competitività che abbiamo perduto nei confronti della Germania, prezzi e salari dovranno infatti crescere meno che altrove, quindi i nostri tassi reali saranno più elevati. Solo il Portogallo ha di fronte a sé anni altrettanto difficili, ma con un debito che è la metà del nostro.
Qualche settimana fa Otmar Issing, membro anziano del Consiglio direttivo della Bce, ha invitato gli investitori a riconoscere che i titoli in euro non sono tutti uguali: non è razionale che un titolo finlandese — il Paese con i conti pubblici più sani d'Europa — renda poco più di un titolo italiano. Un'osservazione cui i mercati hanno prestato grande attenzione. E' evidente che ai nostri conti pubblici serve una terapia d'urto. Berlusconi ha sprecato un'opportunità unica: con la nuova legge elettorale nessun primo ministro avrà più una maggioranza altrettanto ampia in Parlamento. E invece, per non dispiacere a nessuno, per mantenere il consenso, ha lasciato che la spesa pubblica corresse. Cinque anni fa di ogni 100 euro prodotti dagli italiani, lo Stato (senza contare spesa sociale, investimenti e interessi) ne sottraeva 19; oggi sono 20,5. Le amministrazioni pubbliche cioè, al netto dei trasferimenti alle famiglie e delle spese per infrastrutture, spendono un punto e mezzo di Pil più che cinque anni fa.
Come mai? Costano di più i dipendenti pubblici: dal 10,5 all'11% del Pil, cioè 7 miliardi di euro in più. Sono aumentati gli amministrativi delle Asl, non i medici e gli infermieri. Anziché gli stipendi dei giovani ricercatori si sono lasciati correre quelli dei professori anziani (a 60 anni un docente italiano guadagna più che nell'80% delle università Usa, Roberto Perotti, la voce.info). E non si è fatto nulla per togliere le briglie all' economia. Si sono privatizzati i tabacchi di Stato, ma si è consentito che attorno alle aziende locali di luce e gas nascesse un nuovo capitalismo pubblico. Si sono difesi a spada tratta gli Ordini professionali («Io penso che il sistema degli Ordini regolati per legge sia molto meglio delle libere associazioni di professionisti del mondo anglosassone», Berlusconi, maggio 2004). Con la Cassa depositi e prestiti si è ricreata l'Iri.
Si è consentito all'Eni di mantenere il possesso della rete di distribuzione del gas che costa alle imprese il 35% più della media europea. Si sono firmate convenzioni indecenti con le varie società autostradali e i pedaggi incidono sul costo di viaggio quanto l'imposta sulla benzina. Mentre in Borsa il Mib30 saliva, ad esempio nel 2004, del 16%, concessionarie e aziende locali quotate (Acea a Roma, Acsm a Como, etc) salivano tra il 50 e il 75%, non credo solo perché straordinariamente efficienti (vedi Carlo Scarpa e Giorgio Ragazzi su lavoce.info). Anno dopo anno si sono premiate le cellule morte di questo Paese, anziché battersi per la concorrenza che è l'ossigeno di chi in Italia è ancora disposto a rimboccarsi le maniche.