La strada luccicava di riflessi, la pioggia batteva sul cappuccio, gli alberi si contorcevano come colpiti da dei invisibili.
L'inverno se ne era andato, lasciando il posto a una primavera bagnata.
La Zona, sempre colpa della Zona. Sperare in un giorno di sole era inutile. Su quella terra che l'umanità aveva intelligentemente messo sotto il tappeto, le nuvole non andavano mai, quando smettevano di cadere in pezzi bianchi, incominciavano un lungo pianto fatto di tante lacrime e lunghi sospiri.
Sarebbe bastato come segno di malaugurio a chiunque, ma invece la Zona, giorno dopo giorno, continuava a popolarsi di quella fetta di genere umano che non si commuove davanti al pianto.
Iniziavano a diventare un popolo, e come ogni popolo che si rispetti iniziarono con il darsi un nome.
Stalkers.
E Sergej? Semplicemente aveva mollato. Senza vergogna si era detto che qualunque cosa lo aspettasse fuori da lì era meglio di ciò che aveva visto. In effetti non gli era bastato molto. Sentiva sempre più storie raccapriccianti e assurde, fatte di sangue e ossa, di paura e pianto. A lui ne era bastato poco di sangue. Quello che aveva macchiato di rosso il suo bianco mantello. Quello che aveva visto cadere dalle arterie direttamente dentro le fauci della bestia. Quello che aveva ucciso un suo amico.
Camminava, credendo che ormai fosse l'unica cosa di cui fosse capace, in una sola direzione, che prima o poi lo avrebbe portato fuori.
La strada era lunga e ancora bagnata quando arrivò nei pressi di una fattoria, circondata da un grande appezzamento di terreno oramai incolto, ricoperto di erbacce. Il sole, per quanto invisibile, dava l'idea di voler andare a nanna, e così Sergej decise che forse poteva essere una buona sistemazione per la notte. Si avvicinò con cautela verso il cancello d'ingresso, dove la carcassa di metallo di un camion lo aspettava al varco, come un cane di guardia.
Era difficile sentire qualcosa, perché lo sgocciolio della pioggia appena finita continuava, sul legno delle travi, sul metallo, sui mattoni. E ognuno di quei rumori poteva essere un piede che si avvicinava con passi furtivi, pronto a ucciderlo per depredarlo.
Stalker. Continuava a pensare a quel nome mentre entrava nell'edificio. Vuol dire “colui che si muove furtivamente, senza fare rumore”. Era interessante, perché era proprio il silenzio, che inzuppava le pareti e le foreste, quello che più era terrorizzante nella Zona.
E che gli Stalker avevano accettato, metabolizzato e utilizzato. Era come un adattamento naturale.
Il posto era tranquillo e Sergej si sentì abbastanza sicuro per trovare un bel posto al secondo piano dove rannicchiarsi dentro una coperta e accendere un piccolo fuoco discreto. Buono giusto a scaldare la sua zuppa in scatola dell'esercito. Con lo stomaco pieno riuscì a prendere sonno abbracciando il suo AK-74, il suo peluche per quella notte.
La luce era familiare, camminava ancora lungo quel bianco ingannevole, vedeva il rosso accecarlo, aggredirlo. Come un bambino si rifugiava in un angolo mentre il mondo diventava scuro, colorato di un rosso profondo, e un urlo, un agghiacciante rantolo gli diceva che quel mondo lo stava cercando. Ancora...
...Ancora la luce, questa volta meno familiare, lo fece svegliare. Resistette all'istinto di urlare, rimase immobile nel buio finché un secondo lampo non lo destò del tutto. Si mise le mani sul volto.
Quei sogni erano oramai una sua sicurezza, un suo punto fermo, erano la prova che la sua mente era ancora attaccata alla sua umanità e che ancora riusciva a discernere ciò che era da ciò che la Zona gli faceva credere di essere.
Si girò su un fianco e chiuse gli occhi quando in mezzo al rumore della pioggia sentì un rumore che inizialmente sembrò solo sospetto.
Si mise seduto e imbracciò il fucile, potevano essere stalker di passaggio, sarebbe bastato rimanere fermo e vigile e in qualche minuto se ne sarebbero andati.
Ma dopo qualche minuto il rumore tornò, più distinto di prima, forse aiutato dal vento che saliva. Era una voce, interrotta da sospiri, che finivano in pianto sommesso, leggero, ma intenso. Era la voce di un'anima piegata dal terrore. Un'anima giovane, un ragazzino forse, pensò Sergej, a giudicare dal tono.
Le membra si irrigidirono, non era ciò che aveva sentito a turbarlo, non più di quello che veniva dopo. Una domanda.
Cosa fare?
Rimanere lì fermo e aspettare l'alba per sgattaiolare via con abbastanza autoconvinzione da dirsi che non era stato nulla... oppure...
la decisione arrivò in un lampo, come un arco riflesso, come se il sistema limbico avesse perso il controllo di tutto il cervello di Sergej. Si alzò, senza mai lasciare il fucile, e procedette a passi cauti verso il punto da dove proveniva il rumore.
Ad ogni passo, ad ogni centimetro quadrato di terra che calpestava con lo scarpone, pregava che quel rumore cessasse, che fosse solo un cigolio del vento, o che la sua mente continuasse a fargli scherzi, e che adesso si sarebbe svegliato di nuovo dentro la sua coperta. Mentre ad ogni passo il rumore era sempre più chiaro, un pianto straziante per quanto delicato, che lo stava uccidendo.
Gli ultimi metri li fece correndo, come se volesse girare quell'angolo, aprire quella porta e mettere fine a quello che stava facendo male a lui almeno quanto al suo proprietario.
Sfondò quasi la porta con il suo corpo, cadendo a terra, quando entrò nella stanza che in un lampo si fece profondamente silenziosa, come lo era il resto della Zona.
Sentiva solo il suono di se stesso che si alzava da terra e fissava il vuoto, perso nella confusione, nell'indecisione più completa. Per un attimo pensò con umorismo a tutta la situazione. Era talmente svitato da entrare nel bel mezzo della notte il stanze a caso solo per un rumore accennato?
No.
Non era svitato.
Il suono da fondo della stanza glielo aveva confermato.
Senti quasi quando il suo sistema ortosimpatico entrò in azione.
La sua bocca divenne asciutta, in suo stomaco perse mobilità, il suo respiro fu all'improvviso molto più abbondante e i suoi occhi iniziarono a dilatare le pupille come un gatto che guarda nel buio.
Vide, non riuscì a distinguere, ma vide con sicurezza qualcosa che si preparava all'attacco. Era piccolo, acquattato nell'ombra.
Sentì l'urlo squarciali i timpani, e una forza sovrumana lanciarlo oltre la porta, sui cespugli, in mezzo alla pioggia battente. Poi i passi che si seguivano veloci prima che uscisse alla luce dei lampi. A quel punto Sergej aveva già iniziato a sparare.
I colpi andarono a segno, sentì un altro urlo dargliene prova. Ma non cadeva, continuava a sparare, fino a finire un caricatore, e a metterne un altro nel fucile, ma quella cosa maledetta non cadeva. Continuava ad avanzare finché non arrivò a circa 3 metri da Sergej, che aveva quasi finito i colpi, e con un altro urlo disarmò Sergej, senza neanche toccarlo. L'AK-74 semplicemente si stacco dalle mani di Sergej come se avesse volontà propria, prima di cadere lontano, troppo lontano perché lo si potesse raggiungere.
La cosa si avvicinò ancora e con un gesto del braccio scaraventò Sergej contro una colonna di mattoni, rompendogli qualche costa.
Il dolore era lancinante, ma il panico aveva riempito Sergej dalla testa ai piedi. Si guardava intorno, non sapeva cosa fare, guardava di nuovo quella cosa che avanzava lentamente, come gustandosi il momento.
Il respiro divenne velocissimo e il cuore gli arrivò in gola.
Pensò di morire.
E poi un lampo, non luminoso. Un lampo dentro la sua testa, un flusso di consapevolezza che lo colpi senza scuoterlo.
In quel lampo aveva perso Sergej, che piangeva in quell'angolo del rosso profondo. Era rimasto solo un'animale, una scimmia costretta all'angolo, con la bava alla bocca e il coltello in una mano, come se di sua volontà fosse uscito dal fodero.
Lanciando un urlo verso la cosa, gli si lanciò contro. Ogni muscolo contratto nell'atto di piombare su quello che ai suoi occhi non era che un pezzo di carne.
Per un momento, mentre gli era quasi addosso, gli sembrò di vedere due cose in quegli occhi disumani. Sorpresa, e per un'attimo, paura.
La lama scintillò nel buio, e tornò a essere illuminata dai lampi mentre si tingeva di rosso.
Il sangue schizzo sul viso, inzuppò i capelli, i vestiti di Sergej, mentre la carne veniva smembrata da una forza che neanche lui riusciva a capire. Ruggì come un gorilla capobranco mentre fracassava la testa di quell'essere contro una pietra, mentre il sangue scendeva dai polsi fino ai gomiti e bagnava l'erba, mischiandosi con l'acqua.
Dopo Sergej tornò in possesso del proprio corpo e cadde sfinito di fianco al corpo a brandelli.
Mentre la pioggia lavava con minuzia il sangue dal suo viso, capì che la Zona non lo avrebbe lasciato andare così facilmente.