Mauro Bottarelli
Economia e Finanza
giovedì 29 ottobre 2015
Ormai, nel mondo post-crisi e post-Qe, la regola è una sola: combattere l'indebitamento con nuovo debito, calciare avanti il barattolo in attesa di un miracolo. Vale ovunque, tutti gli Stati sono terrorizzati dall'idea di fare default, si guarda allo spread come a un segnalatore di vita o morte e si prosegue sulla strada del leverage come se questa fosse la soluzione e non il male da estirpare. Anzi, a pensarci bene forse uno Stato che potrebbe rompere questo circolo vizioso c'è: la Russia, la cui storia ci insegna che non tutti i default sono mortali e, soprattutto, che non bisogna averne paura.
Prima di un excursus storico, vediamo un attimo a cosa sta portando l'attivismo di Mosca. Di fatto, ha raggiunto un ruolo di leadership in Medio Oriente, forte dell'asse con Siria e Iran e adesso anche Iraq (tanto che gli Usa cominciano a parlare di truppe terrestri nel Paese proprio per evitare l'egemonia del Cremlino), ma sta anche cambiando gli equilibri del comparto energetico, da un lato per il suo rapporto privilegiato con la Cina e dall'altro grazie al suo ruolo di destabilizzatore in seno all'Opec, in chiave anti-saudita e pro-Teheran. Insomma, mai come oggi Mosca è un player internazionale di primo livello.
Il problema è un altro, ovvero la crisi economica interna, con la crescita a -5%, la recessione ormai sul tavolo e il prezzo basso del petrolio che certo non aiuta, se non nel rubare quote di mercato nell'export strategico verso Pechino. Guerra e recessione, un'accoppiata già vista, anche se in termini differenti. Negli anni Novanta, infatti, la prima guerra di Cecenia aveva fiaccato i russi non solo psicologicamente ma anche economicamente: i costi del conflitto perso, infatti, andarono ad aggravare un già pesante deficit di budget e lo sciagurato cambio fisso del rublo verso le altre monete dei partner commerciali aveva portato la situazione al limite. Ad aggravare il tutto, proprio come oggi, arrivarono la crisi finanziaria asiatica e il crollo del prezzo del petrolio.
L'Occidente, Fmi e Banca mondiale in testa, sottostimarono però la situazione, dicendosi certi che Mosca non avrebbe fatto default e avrebbe seguito l'esempio di altri grandi Paesi indebitati, ovvero sottoporsi alle forche caudine delle ristrutturazioni e dei salvataggi. Così non fu e il 17 agosto del 1998 la cosiddetta "influenza russa" contagiò i mercati, tanto che Mosca annunciò una moratoria dei pagamenti verso i creditori esteri e svalutò il rublo del 33%: pochi mesi e la riammissione della moneta russa alla libera fluttuazione si sostanziò in un'altra svalutazione del 120%, portando a una crisi bancaria in piena regola, con tanto di fallimenti e a una fiammata inflazionistica. Cominciò l'era dei cosiddetti oligarchi, ovvero un vero e proprio assalto alla diligenza pubblica per sbranarne a costo di saldo i pezzi più appetibili, ovvero le risorse energetiche e minerarie.
È da questo caos che emerge la figura di Vladimir Putin, l'uomo forte che stroncò la rivolta cecena, riducendo il Paese a un posacenere (non cedendo nemmeno di fronte ad atti drammatici come la prese di ostaggi al teatro Dubrovka da parte delle "vedove nere", stroncate con il gas fatto passare dalle condutture di aerazione) e riportò gli oligarchi sotto il controllo statale, incarcerazioni e deportazioni in Siberia compresi. Ma, al di là di eventi e comportamenti che solo la storia potrà giudicare, Vladimir Putin ebbe un'enorme intuizione in quel momento di caos: puntare tutto sul settore energetico, scelta che quando il ciclo delle commodities riportò in alto i prezzi permise all'economia russa un vero e proprio boom, il cui merito fu iscritto proprio all'ex spia del Kgb.
Oggi, come detto prima, la Russia è ancora una volta in crisi economica, fiaccata da un lato dai mancati introiti dell'export petrolifero e dall'altro dalle sanzioni occidentali per la guerra di Crimea, con in più un notevole carico di debito estero denominato in dollari che, se per caso la Fed decidesse di alzare i tassi anche solo di un quarto di punto entro fine anno, diverrebbe ancora più insostenibile, sia per il governo che per molte aziende strategiche, Gazprom in testa, come ci mostra il primo grafico a fondo pagina. E se, forte dei successi militari e delle rinnovate alleanze, Vladimir Putin fosse tentato di proseguire ancora una volta la strada del 1998-1999, facendo default sul debito estero? Il 2016 sarà l'anno del deja vù? Ponendo in atto le sanzioni economiche - oltre che spendendo molti soldi per l'operazione in Ucraina e i prestiti a Kiev del Fmi - i Paesi occidentali sembrano infatti non essersi posti due domande fondamentali.
Primo, chi detiene la maggior parte del debito che diverrebbe inesigibile in caso di default russo? L'Occidente con i suoi governi e le sue banche, non certo la Cina o l'Iran. Quindi, la seconda domanda: al netto di questo, cosa importerebbe a Mosca delle relazioni con l'Occidente in caso di default? Nulla. Ed ecco arrivare conseguente la terza e ultima domanda? Cosa significherebbe per l'Occidente, ovvero per i creditori di Mosca, un default russo? Un disastro. Pensate che portare Mosca davanti a Corti di giustizia internazionali come fanno gli hedge funds con i Paesi del terzo mondo che non pagano coupon e interessi sul debito sia una buona idea? Ripensateci, non questa Russia.
Ora guardate il secondo grafico, ci mostra la comparazione del prezzo del petrolio con il credit default swap russo a 10 anni. A oggi, l'ipotesi di un default di Mosca non è affatto prezzata dal valore dei cds: tanto per capirci, durante l'ultimo crollo del prezzo del petrolio avvenuto tra la fine del 2008 e l'inizio del 2009, il cds russo salì del 600% a oltre il 7% e anche all'inizio di quest'anno, quando il prezzo del greggio era più alto di adesso, il cds era più caro del 100%, ma da allora è sceso del 3%. Un assurdo, seguendo una normale pratica di risk analisys, ma è così: per il mercato, nonostante oggi il petrolio sia di nuovo a minimi record e senza prospettive di rapida risalita, il rischio di default russo non compare negli schermi delle sale trading.
Insomma, l'Occidente è convinto che Putin non userà quell'azzardo come arma difensiva, altrimenti non si spiegherebbe perché il cds sia a livelli più bassi di quanto non fosse a inizio anno, stante la criticità rappresentata dall'export di petrolio per l'economia russa. Non sarà che Putin ha fatto la sua scelta, ovvero puntare tutto sul comparto energetico ma soprattutto sull'alleanza strategica con la Cina e i mercati emergenti in generale, dimostrando all'Occidente che non solo le sue sanzioni sono inutili ma anche controproducenti, come i dati economici della Germania stanno certificando?
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Io non mi sento di escluderlo del tutto, soprattutto in un anno, il 2016, che vedrà l'America concentrata sulle elezioni presidenziali, quindi un periodo di transizione politica molto delicato che potrebbe vedere i riflessi e la guardia abbassata di fronte ad atti eclatanti come un default, anche solo selettivo, sul debito estero di Mosca. Guardato da questa angolazione, il contratto pluriennale di fornitura di gas alla Cina da 400 miliardi di dollari siglato lo scorso anno assume una luce e un significato strategico differente: insomma, se Putin dovesse capire che i benefici di un default fossero maggiori delle conseguenze per la Russia, allora penso che non esiterebbe a farlo, visto anche il comportamento dell'Occidente nei suoi confronti sulla questione ucraina.
E attenzione, perché a pagare il conto più salato non solo di una moratoria verso i creditori ma anche di un congelamento delle relazioni economiche con Mosca non sarebbero certo gli Usa ma l'Ue, la stessa entità di burocrati che ha seguito pedissequamente gli ordini di Washington senza pensare minimamente alle sue conseguenze e ai propri interessi strategici. Spero solo che a Bruxelles, anche solo una persona, stia pensando alla possibilità di questa prospettiva e non si faccia trovare del tutto impreparato. Lo spero davvero.