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    Banned L'avatar di Caesar86
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    Predefinito La scuola giapponese vista da Terzani

    Ciao a tutti i Nipponofili.
    Vi posto una lunga ma (IMHO) molto interessante dissertazione di Tiziano Terzani sulla scuola Giapponese dei primi anni 90, che i suoi due figli peraltro frequentarono.
    Si tratta di due capitoli di "In Asia", della Tea.



    LA SCUOLA: PICCOLE FOCHE AMMAESTRATE.


    - Tokyo, febbraio 1990.

    Il gran segreto dei giapponesi è nelle loro fabbriche. La radice del loro successo economico è tutta lì, nella precisione, nell'efficienza con cui producono le cose. La fabbrica giapponese di più grande successo è quella che produce i giapponesi stessi: la scuola.
    Ogni anno, dalle automatizzate catene di montaggio del sistema scolastico, escono ventotto milioni di ragazzi e ragazze. Come tutti i prodotti giapponesi, questi giovani sono di ottima qualità e di grande affidamento. Allo stesso tempo però sono standardizzati, senza individualità, come tutte le cose fatte in serie.
    I bambini giapponesi frequentano per nove anni la scuola d'obbligo. Il 94 per cento arriva fino alle scuole medie superiori, il 36 per cento s'iscrive all'università. I risultati di questa fabbrica sono impressionanti. Nonostante le enormi difficoltà della lingua - vanno, per esempio, imparati tre diversi sistemi di scrittura -, tutti i giapponesi finiscono per saper leggere e scrivere. A far di conto sono ugualmente bravissimi: nei concorsi internazionali di matematica gli studenti giapponesi si piazzano regolarmente primi. Anche nella musica riescono bene. Fra i partecipanti ammessi al concorso Chopin di Varsavia almeno un quarto è giapponese. Quasi nessuno però riesce a entrare in finale. «E' impossibile distinguere l'uno dall'altro», ha spiegato poco tempo fa uno dei giudici. «Suonano tutti allo stesso modo.»
    In Giappone, la strada più sicura per avere successo è quella della scuola ed è così che ogni giapponese, fin da piccolissimo, viene messo sotto torchio perché studi. Un terzo dei giapponesi viene costretto dalle famiglie ad andare a scuola all'età di tre anni, la metà a cinque. «A vent'anni un giapponese è disciplinato, docile e rispettoso dell'autorità», dice lo scrittore Shuichi Kato. «La scuola è efficientissima: riesce a trasformare piccoli esseri umani in tante foche ammaestrate.»
    Secondo alcuni esperti questo sistema scolastico, che sforna a getto continuo giapponesi diligenti e non ribelli, sarebbe alla base della stabilità del Paese; il «miracolo economico» del dopoguerra avrebbe le sue radici nel «miracolo dell'educazione». Secondo altri, invece, il tallone d'Achille del colosso Giappone sarebbe proprio in questo tipo di scuola che alleva gente incapace di affrontare i problemi del futuro. «Se non la finiamo al più presto con questa produzione in massa di robot di seconda categoria, il Giappone nel prossimo secolo si sfascerà», mi dice Naohiro Amaya, ex vice ministro del MITI, il ministero per il Commercio Internazionale e l'Industria, e oggi uno dei dirigenti del colosso pubblicitario Dentsu. «Abbiamo sempre più bisogno di giovani creativi, dotati di fantasia, ma le nostre scuole continuano a darci esattamente il contrario.»
    Sebbene nel Giappone stesso gli svantaggi dell'attuale sistema scolastico vengano discussi e suscitino crescenti preoccupazioni, molti stranieri continuano a stravedere per questo sistema e alcuni propongono persino d'importarne certi aspetti nei nostri Paesi. Un recente studio americano, per esempio, definisce la scuola giapponese «altamente efficace e democratica». «La considerano democratica perché a ogni bambino viene propinato lo stesso tipo di educazione. In realtà questa forma di egualitarismo è una nuova forma di totalitarismo», sostiene Steven Platzer, un pedagogo dell'università di Chicago, ora all'università di Tokyo.
    L'impressione che si ha degli studenti giapponesi è quella di una massa rigidamente controllata e continuamente sotto pressione. A vederli uscire al mattino dalle stazioni della metropolitana, tutti nelle loro uniformi scure, i più piccoli con la cartella sulle spalle, e mettersi poi rigidamente in fila, sugli attenti nei cortili delle scuole, si pensa più a soldatini che a scolari.
    Ogni scuola ha la sua uniforme. Tutte derivano dallo stesso modello prussiano che il Giappone adottò nel secolo scorso, quando improvvisamente il Paese, per modernizzarsi, decise di copiare tutto quel che poteva dall'Occidente: una gonna blu scura a pieghe con camicia alla marinara per le ragazze; pantaloni neri con giacca abbottonata fino al collo per i maschi. I berretti son quelli che erano di moda nella Germania di Bismarck.
    Ogni scuola ha i suoi regolamenti. L'osservanza è d'obbligo. Ogni dettaglio è precisato: dalla lunghezza delle gonne alla misura delle cartelle, al colore dei calzini. I maschi devono portare i capelli a spazzola e nasconderli nel berretto; le femmine non possono né tingerseli né farsi la permanente. Se una ragazza ha riccioli naturali o i suoi capelli sono di una tonalità diversa da quella corvina della maggioranza dei giapponesi, è necessario che abbia sempre con sé un apposito certificato per spiegare la sua «anormalità». Una scuola, per esempio, ha stabilito che le scarpe da ginnastica degli studenti devono avere dodici buchi per le stringhe, un'altra che le ragazze possono portare solo mutandine bianche. La madre di un ragazzo di Tokyo, che durante una gita scolastica a Nara, a 370 chilometri dalla capitale, era stato scoperto con un paio di pantaloni un po' più stretti di quanto stabilito, ha dovuto raggiungerlo al più presto per portargliene un paio di taglio regolamentare e impedire così che venisse punito.
    I modi con cui gli studenti pagano per i loro atti d'indisciplina variano da scuola a scuola, ma spesso le punizioni sono fisiche, comportano una qualche forma di violenza. Il caso di un professore che è andato a casa di una sua allieva per suggerirle di suicidarsi con un coltello da cucina, dopo che era stata scoperta a fumare, è certo eccezionale, ma i giornali riferiscono in continuazione episodi di violenza che avvengono nelle scuole. Secondo una recente inchiesta del ministero della Pubblica Istruzione, uno studente su tre nelle scuole medie ha subito una qualche punizione fisica. Di questi il 70 per cento ha riportato ferite. Un professore di liceo ha scritto indignato al quotidiano "Asahi" per raccontare di aver visto nella sua scuola «ragazzi cui è stata rapata la testa, altri presi a schiaffi o rinchiusi di forza negli armadietti degli spogliatoi».
    Almeno cinque ragazzi negli ultimi due anni sono morti in seguito alle violenze subite a scuola, ma nonostante le proteste di alcuni genitori, l'uso di punizioni fisiche, di per sé illegale, viene generalmente accettato. «I genitori sono stati a loro volta picchiati quand'erano ragazzi e pensano che un maestro che picchia sia seriamente impegnato nel suo lavoro», spiega Kenichi Nagai, fondatore di un gruppo civico per la protezione dei diritti dell'infanzia.
    In Giappone il conformismo è considerato una grande virtù e la pressione a sottomettersi, a non disturbare «l'armonia sociale» con atteggiamenti individualistici comincia prestissimo.
    «Le affido mio figlio perché ne faccia un buon membro della società, uno che non dia noia agli altri», è la formula più comune usata dalle madri giapponesi quando portano per la prima volta i loro bambini all'asilo.
    E' all'asilo che il «montaggio» di un buon giapponese comincia. Fermo, con le mani sulle ginocchia unite, la schiena dritta, il piccolo giapponese si abitua a occupare poco spazio e a controllare i propri movimenti. Subito impara a rispettare i regolamenti. Molti asili non solo esigono che tutti i bambini si portino la stessa merenda, ma impongono anche che sia sistemata secondo un modello preciso nell'apposito contenitore e che i bambini la mangino in una precisa sequenza.
    A scuola il bambino non viene abituato a pensare con la propria testa, ma addestrato a dire la cosa giusta al momento giusto. Per ogni domanda esiste una risposta e quella va imparata a memoria. «Che cosa succede quando la neve si scioglie?» chiede la maestra, e la classe, in coro, deve rispondere: «Diventa acqua!» Se a uno viene da dire: «Arriva la primavera!» è redarguito. Con quello sfoggio di fantasia si è messo fuori del gruppo e questo è mal visto. «Il chiodo che sporge va preso a martellate», dice un vecchio proverbio giapponese. E' un principio ancora validissimo. Chi esce dai ranghi, chi la pensa a modo suo, chi crede di poter fare da sé, è un «indesiderabile». L'essere semplicemente «diverso» dal gruppo è una colpa, l'essere escluso dal gruppo è la peggiore punizione. Pochi mesi fa, un quattordicenne di Shimabara si è tolto la vita perché, a causa di una piccola infrazione ai regolamenti della scuola, temeva di essere escluso dalla squadra di baseball.
    Il contenuto stesso dell'educazione non lascia alcuna scelta all'individuo. Il ministero della Pubblica Istruzione decide quel che deve essere insegnato. I libri di testo passano una severissima censura e lo studente giapponese, che può leggersi a volontà i fumetti sadomasochisti che inondano il mercato, non riuscirà a trovare, fra i libri che gli passano per le mani a scuola, uno che gli dia una versione obiettiva, per esempio, della seconda guerra mondiale, uno che usi la parola «invasione» per l'avanzata giapponese in Cina e nel Sud-Est asiatico, uno che parli delle atrocità commesse dall'esercito imperiale giapponese in quei Paesi. Generazione dopo generazione crescono così senza avere la minima idea della recente storia del loro Paese e delle relazioni che questo ha avuto con il resto dell'Asia, dove il Giappone è ancora visto con notevole sospetto. «Fintanto che i cittadini non insisteranno sul loro diritto all'informazione, il Giappone non sarà una società realmente democratica», dice il professor Teruhisa Horio, decano della facoltà di Pedagogia all'università di Tokyo e uno dei più duri critici del sistema scolastico di questo Paese. «Per ora è lo Stato a decidere che cosa i cittadini devono pensare.»
    E lo Stato sembra avere un'idea molto chiara di come i cittadini devono essere e del «giapponese modello» che la scuola deve produrre. Il «modello» è stato descritto con grande precisione in un libretto di 54 pagine, dalla copertina gialla, che ogni preside tiene oggi nel proprio cassetto. E' intitolato "L'immagine del giapponese desiderato". Pubblicato dal ministero della Pubblica Istruzione nel 1964, il libretto definisce la funzione e gli obiettivi del sistema scolastico. «Per il futuro benessere dello Stato e della società, il Giappone ha bisogno di un nuovo tipo d'uomo», si legge nel libretto. «Un uomo che abbia coscienza della propria unicità di giapponese, un uomo che trovi soddisfazione nella completa dedizione al lavoro.»
    L'idea fu brillante. Erano gli anni in cui il Giappone, ancora povero, era scosso da violenti conflitti sociali, in cui la sinistra aveva ancora abbastanza forza da contestare ai conservatori il diritto di governare e in cui la grande industria giapponese progettava il suo grande balzo in avanti per catapultare il Paese, come si diceva allora, «nell'era della massima crescita economica». Si trattava di far dimenticare alla gente la politica, di mettere dinanzi al naso di ognuno la carota del benessere. Si trattava soprattutto di popolare le fabbriche, i cantieri, gli uffici del Paese con dei giapponesi che fossero da un lato ben preparati, dall'altro leali e obbedienti. Alla scuola fu affidato l'importantissimo compito di produrre questo tipo di cittadini che il professor Horio chiama «gli schiavi dell'industria».
    Quel compito non è mai stato ridefinito e "L'immagine del giapponese desiderato", nel frattempo alla sua ventesima edizione, è ancora una sorta di Bibbia per gli educatori di qui.


    SERVI FEDELI DELLO STATO E DELL'INDUSTRIA.


    - Tokyo, febbraio 1990.

    Due giapponesi che s'incontrano per la prima volta devono immediatamente stabilire la rispettiva posizione sociale... se non altro per sapere quanto profondamente debbano inchinarsi l'uno davanti all'altro. Siccome in questo Paese uno non è quel che è, ma è il ruolo che ha, l'ossessivo scambio dei biglietti da visita, che descrivono con grande precisione il rango del loro portatore, serve a togliere i giapponesi dall'insopportabile imbarazzo di non sapere dove stanno rispetto al loro interlocutore.
    Nella società giapponese tutto è classificato e ogni individuo ha un suo rango. A determinare questo rango è soprattutto la scuola. A seconda della scuola che si è frequentata, si può aspirare a un ruolo più o meno alto nella società. La classifica di questi ruoli è nota a tutti: un funzionario del ministero delle Finanze, per esempio, vale di più di uno del MITI (il ministero per il Commercio Internazionale e l'Industria), uno del MITI vale di più di uno al ministero degli Esteri. Allo stesso modo essere operaio, impiegato o dirigente di uno dei sei grandi gruppi industriali del Paese vale socialmente di più che rivestire la stessa posizione in un'azienda di grado inferiore.
    Il fatto è che per ottenere un impiego di primo rango, per esempio al ministero delle Finanze o in una delle sei grandi industrie, bisogna essere stati in un'università di primo rango, ma per andare in una tale università bisogna essere stati in un liceo di primo rango, per andare in un liceo di primo rango bisogna... eccetera, così fino all'asilo. Siccome gli asili di primo rango sono ovviamente pochi, la scelta degli «eletti» avviene con un esame di ammissione. Per prepararsi a quel fatidico primo appuntamento col destino, migliaia di giapponesini, già infilati nelle loro brave uniformi, trottano così dai loro primi maestri quando hanno appena tre anni. «La battaglia più decisiva della nostra vita la combattiamo da bambini», dice Miho Kometani, una giornalista televisiva. «Chi la perde si gioca il futuro.»
    Superato l'esame dell'asilo, c'è poi quello per una buona scuola elementare, poi quello per una buona scuola media, e così via fino all'importantissimo esame di ammissione a una buona università. La migliore di tutte è quella di Tokyo, conosciuta come "Todai". La stagione di questi esami, che tengono le famiglie di tutto il Paese col fiato sospeso, è proprio ora e i templi del Giappone in questi giorni sono avvolti in dense nuvole d'incenso. Sugli altari si accumulano le tavolette votive, di legno, su cui migliaia e migliaia di giovani rivolgono al Cielo un'unica richiesta: «Fammi passare».
    Gli esami sono praticamente tutti uguali. Si tratta di riempire questionari. Accanto a ogni domanda ci sono varie risposte. Una sola è quella giusta. Bisogna indicarla con una croce. Alcuni computer eseguono i controlli e automaticamente stabiliscono le graduatorie. Nel giro di due giorni i risultati vengono pubblicati. Tutto avviene senza un colloquio, senza un'interrogazione, senza un contatto personale. Tutto resta anonimo, la personalità dello studente non gioca alcun ruolo.
    Siccome il fine dell'andare a scuola non è tanto quello di ottenere un'educazione, ma di passare agli esami, negli ultimi trent'anni in Giappone, accanto al regolare sistema scolastico se n'è sviluppato uno parallelo che, a pagamento, si occupa esclusivamente di preparare gli studenti agli esami. Questo sistema delle scuole di ripetizione si chiama "juku" ed è oggi una delle più fiorenti e redditizie industrie private del Paese.
    Ci sono 36000 scuole di questo tipo. Alcune sono diventate grosse aziende le cui azioni sono quotate in Borsa, altre sono tecnologicamente così avanzate che si servono di un satellite per trasmettere le lezioni dei loro migliori professori nelle varie filiali che hanno nel Paese. Quanto ai consumatori, non hanno scelta. Bombardati dalla pubblicità e convinti che nessuno studente è in grado di passare un esame senza andare a uno "juku", i genitori fanno enormi sacrifici per mandare i figli a ripetizione, spesso non in una, ma in due o tre scuole diverse.
    Come tutto in Giappone, anche le scuole di ripetizione hanno un loro rango a seconda del numero di studenti che riescono a far passare agli esami e così, per entrare in una scuola di ripetizione di primo rango, c'è bisogno di un esame di ammissione. Ci sono, per questo, "juku" che preparano agli esami di ammissione ad altri juku. Una follia, per giunta costosissima. Mantenere un figlio dall'asilo all'università costa oggi in media 22 milioni di yen (220 milioni di lire) se va alla scuola pubblica, 58 milioni di yen se va alla scuola privata. Questo equivale a un quarto di ciò che un operaio guadagna in un'intera vita.
    A vederli tornare da scuola stanchi, sempre con due cartelle, una per la scuola dell'obbligo, l'altra per la scuola di ripetizione, a vederli addormentarsi di botto appena seduti nella metropolitana, gli studenti giapponesi sono l'immagine dell'infelicità. Per molti la giornata comincia alle sei del mattino e dura, tra scuola, ripetizioni e spostamenti, fino alle nove di sera. Per alcuni dura anche più a lungo. Alcuni nuovi "juku" reclamizzano corsi serali che iniziano alle 10.30 di sera, quando gli altri "juku" chiudono, e vanno avanti fino all'1.30 del mattino.
    Questi giovani giapponesi, costantemente sotto torchio, hanno poco tempo per tutto quello che i giovani di altri Paesi fanno normalmente. Hanno poco tempo per fare sport, il che spiega perché il Giappone vince così poche medaglie alle Olimpiadi. Hanno poco tempo per giocare, per svagarsi o semplicemente per farsi degli amici. Il quotidiano "Asahi" in un recente editoriale intitolato: «Lasciamo ai giovani la loro gioventù!» scrive: «Stiamo allevando figli che sono geni degli esami, ma che, come esseri umani, sono deboli, egocentrici e immaturi». L'associazione delle università private, in un recente studio dedicato al sistema scolastico, conclude che i giovani giapponesi di oggi vengono come «lobotomizzati» dalla scuola.
    Le pochissime ore che restano loro libere i giovani giapponesi le passano davanti ai videogiochi. Fra i ragazzi, al momento ne è di moda uno che si chiama "L'amante a due dimensioni". Sullo schermo compare una ragazza che sorride e si spoglia man mano che il giocatore guadagna punti. «Invece di farsi un'amica vera, i ragazzi hanno solo il tempo di darsi appuntamento con una macchina», dice Tamoto Sengoku, un esperto di pedagogia.
    Le frustrazioni causate dall'incessante pressione della scuola esplodono in episodi di violenza e criminalità. Nel 1988 sono stati arrestati in Giappone 189000 giovani fra i 14 e i 19 anni, i più accusati di atti di "ijime", come qui si chiama il fenomeno diffusissimo d'individuare il «debole», il «diverso» di un gruppo e tormentarlo, fargli violenza. Lo "ijime" e la pressione degli esami sono anche la causa di molti suicidi. Dei 22795 giapponesi che nel 1988 si sono tolti la vita, 1635 erano studenti.
    La storia di Yoko Uehara, una tredicenne di Nagano, è tipica. La ragazza, continuamente presa in giro e tormentata dalle sue compagne, chiede aiuto al maestro. Quello ordina alla classe di spiegare in un tema quali siano i difetti di Yoko e perché la emarginano. Le ragazze scrivono che Yoko somiglia a un polipo. Il maestro fa leggere a Yoko i temi delle compagne. Qualche giorno dopo, a casa sua, la ragazza s'impicca.
    Molti intellettuali sono preoccupati da questo tipo di «nuovi giapponesi» prodotti dalla scuola. «Riusciamo a fare ottime automobili, ma non buoni esseri umani», dice Shizuè Kato, una donna di 92 anni che è stata deputato del Partito socialista e una delle prime femministe del Giappone. «Il nostro sistema scolastico è diventato aberrante e la miglior cosa da fare è abolirlo.»
    Non avverrà. I nuovi insegnanti, ormai cresciuti in questo sistema, diversamente dai loro predecessori non vi si oppongono più. Fino ad alcuni anni fa il sindacato degli insegnanti, il Nikkyoso, costituiva uno dei poli di opposizione al sistema scolastico. Ora il sindacato si è spaccato e la maggioranza dei suoi 600000 iscritti ha aderito al nuovo, molto più moderato, raggruppamento.
    Una volta entrato all'università, il giovane giapponese può mettersi l'animo in pace. Nessuno gli chiede più di studiare. All'industria e allo Stato, che poi lo assumeranno, la preparazione universitaria non interessa. «I giovani laureati devono essere vasi vuoti in cui versare la cultura aziendale», dice un professore dell'università Meiji. Dall'università che si è frequentata dipende quasi automaticamente il posto di lavoro: i laureati in legge dell'università di Tokyo, per esempio, finiscono per lo più nei ministeri (metà dei primi ministri del dopoguerra vengono da "Todai"), quelli dell'università di Waseda passano alla grande industria, quelli dell'università di Keio al giornalismo e nella media industria. I laureati delle università di secondo rango vanno a raggiungere la massa dei "sarari-man".
    La produzione in massa da parte della scuola di giovani che docilmente si adattano al ruolo che verrà loro assegnato nel sistema sociale ed economico del Giappone non avviene certo per caso. «Fa parte della nostra tradizione che i cittadini non vengano considerati come esseri umani, ma come schiavi», dice Yoshikazu Sakamoto, professore all'università Meiji di Tokyo.
    Questa tradizione ha poco più di cento anni. Alla metà dell'Ottocento, l'educazione fu considerata l'arma più potente per salvare il Paese dalla colonizzazione. A cominciare dal 1868, con uno sforzo colossale, fu instaurato in tutto il territorio nazionale un sistema scolastico moderno, di tipo occidentale. Lo scopo era semplice e chiaro: «Formare servi dello Stato virtuosi, fedeli e obbedienti», come dichiarò l'allora ministro della Pubblica Istruzione. Fu grazie a questo sistema scolastico che il Giappone riuscì a mettersi al passo coi tempi e a mantenere la sua indipendenza. Fu questo stesso sistema che più tardi portò il Giappone al militarismo e alla guerra.
    Nel 1945, quando gli americani vennero, da vincitori, a occupare il Giappone, una delle misure che presero fu di riformare questo sistema scolastico che era stato la catena di trasmissione dell'ideologia nazionalista e totalitaria. Le riforme per la democratizzazione della scuola non durarono però a lungo. Nel 1952, appena gli americani se ne furono andati, elementi della vecchia guardia politica ripresero in mano le sorti del Paese e, convinti che la «democratizzazione» voluta da Washington indebolisse il carattere nazionale giapponese e creasse inutili conflitti sociali, lentamente rimisero in piedi il vecchio sistema scolastico. Presto nelle scuole, invece che dei diritti dei cittadini, si tornò a parlare del «sentimento di fedeltà» che questi devono nutrire verso lo Stato. «Nel giro di pochi anni la scuola tornò a produrre servi dello Stato e dell'industria», dice il professor Teruhisa Horio, preside della facoltà di Pedagogia all'università di Tokyo.
    La restaurazione del sistema scolastico dell'anteguerra è ancora in corso. Recentemente alle scuole è stata di nuovo imposta la cerimonia dell'alzabandiera, il canto dell'inno nazionale (un anatema per il vecchio sindacato degli insegnanti) e un nuovo curriculum che torna a sottolineare il ruolo storico degli eroi militari del Paese. Questa restaurazione, diretta dal ministero della Pubblica Istruzione, che viene regolarmente occupato dagli uomini della destra del Partito liberal-democratico, procede di pari passo con la restaurazione del sistema imperiale e dello shintoismo come religione di Stato. C'è chi vede in questi sviluppi un pericolo strisciante. «Il Giappone ha grosse ambizioni nel mondo del ventunesimo secolo», dice il professor Horio. «Non sarà certo la mansueta gioventù di oggi a metterle in discussione o a frenarle.»


    Qualcuno forse obbietterà sulla eccessiva criticità degli articoli.
    Vi è da dire, in realtà, che Terzani, da uomo molto spirituale e futuro mezzo santone, mal si adattò alla vita che condusse per alcuni anni in Giappone agli inizi dei 90.
    A parte la sua semidepressione, nata dalla disillusione sull'utopia Maoista (era stato da poco cacciato dalla Cina come "indesiderabile"), Terzani, amante della natura, della tradizione, dell'anticapitalismo, vedeva nelle metropoli giapponesi quasi il quinto grado dell'alienazione dell'uomo moderno.
    Comunque vi è da dire che tutte le sue analisi, per quanto negative, sono sempre (IMHO)ampliamente riflettute e ponderate, e per questo, sempre a mio parere, impeccabili.
    Ditemi che ne pensate.
    Ultima modifica di Caesar86; 02-11-08 alle 11:54:58

  2. #2
    Animatore distratto L'avatar di Nanatsusaya
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    Predefinito Re: La scuola giapponese vista da Terzani

    Per ora ho letto solo la prima parte sulla scuola.
    Sicuramente tutt'ora le regole sono motlo ferree e sicuramente e' ancora molto forte la pressione psicologica che i giovani giapponesi subiscono per lo studio, ma credo che oggi giorno i giovani stiano ricercando visibilmente una loro identita' e liberta' di espressione e che abbiano molta piu liberta' di farlo.
    Basta vedere appunto tutte le mode estreme nate da qui a 10 anni fa': ganguro, lolita, cosplayer e via dicendo, nate sicuramente como sfogo a una societa' cmq opprimente.
    Ultimamente hanno iniziato anche a tuatuarsi molto, cosa che pensavo assolutamente rara in giappone
    Poi va' detto che quel sistema scolastico ha creato il problema dell'Ijime, il bullismo, che non e' dare fuoco ai capelli di qualcuno (come ci insegna studio aperto) ma consiste in cose ben piu' atroci e pesanti
    Per attutire questo problema credo che ora le scuole giapponesi e in generale la vita, siano diventate piu' "morbide"
    Anche per quel che riguarda la musica, ho visto decine di ragazzi con bassi e chitarre in spalla e credo che nel giro di qualche anno il Giappone sara' pieno di gruppi con qualcosa da dire
    E poi, non mi pare proprio che ai giapponesi manchi la fantasia...
    certo, per molte cose sono standardizzati, anime, manga, videogiochi, devono rispettare certi canoni e sono suddivisi in categorie codificate, ma in generale la vena artistica e la fantasia di un singolo autore riesce a imporsi sulla massa d'altronde mica tutti possono creare capolavori
    Ultima modifica di Nanatsusaya; 02-11-08 alle 12:18:13


    この 怨み 地獄 へ 流します。

  3. #3
    tigerwoods
    ospite

    Predefinito Re: La scuola giapponese vista da Terzani

    Come al solito gli estremismi non sono mai belli, e Terzani si vede che vuol enfatizzare solo la parte negativa del sistema scolastico.
    Almeno, per quanto ne so, mi pare che il sistema scolastico giapponese funzioni, Terzani avrebbe fatto meglio a guardare prima a casa sua
    Infatti un po' di disciplina non farebbe male qui da noi, magari senza sfociare in punizioni corporali, però un po' più di rigidità potrebbe solo fare bene. Inoltre mi pare che di menti geniali in Giappone non ce ne siano poche, tuttavia ricordo un'intervista di qualche tempo fa a Oshii, Miyazaki e a un produttore Ghibli (di cui non ricordo il nome), in cui si lamentavano della mancanza di nuove leve che possano prendere il loro posto.
    Poi bisogna considerare che sono passati ormai 18 anni e le cose cambiano, per fortuna, anche se effettivamente problemi come quelli del bullismo ci sono sempre.

    La seconda parte la leggo dopo

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