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Risultati da 51 a 75 di 289
  1. #51
    Emack
    ospite

    Predefinito Re: Coleridge ed i videogiochi

    Karat45 ha scritto mar, 22 aprile 2003 16:16
    Emack ha scritto lun, 21 aprile 2003 20:49
    Chizuru Yoshida ha scritto lun, 21 aprile 2003 00:48
    Mi pare non sia ancora stato definito in modo univoco cosa accomuna TUTTI i videogiochi, oltre all'interattività.
    A me oltre al punteggio (intendendo per punteggio un'accezione allargata, come spiegava karat) non viene in mente altro.
    Questo perchè all'inizio un vg era considerato uno svago, un passatempo in cui cimentarsi, e con l'introduzione di un metro di valutazione (il punteggio) si inseriva la componente "sfida", dove un giocatore poteva dimostrare la propria supremazia, sugli altri o sulla macchina. Col tempo i vg si sono evoluti e si sono diversificati, un po' come in letteratura esistono moltissimi generi, e per ognuno di essi si possono trovare caratteri distintivi che li caratterizzano. Per questo credo non ci sia poi molto su cui discutere, a valle: i videogiochi hanno troppe forme, adess ocme adesso, per trovare un insieme rigoroso (e corposo, sennò ci si limita a una mera definizione) che li racchiuda tutti.
    A game is a form of art in which participants, termed players, make decisions in order to manage resources through game tokens in the pursuit of a goal.
    non ti sembra un pò limitata come definizione? insomma, gli stessi termini possono essere usati anche per descrivere un imprenditore... è troppo vaga e tralascia ogni considerazione di tipo estetico concentrandosi solamente su ciò che è ludico...
    Io la considero anche troppo "vaga" e imprecisa... L'estetica è accessoria.

  2. #52
    Veterano del Backstage L'avatar di Karat45
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    Predefinito Re: Coleridge ed i videogiochi

    vediamo di chiarire una volta per tutte dove voglio arrivare:
    fondamentalmente, il mio scopo, sarebbe quello di svelare il linguaggio che sta dietro ad un videogioco e di come il videogioco narri anche quando sembra non narrare nulla (come detto sopra). ovviamente l'ambizione ha sciolto le ali ad Icaro che non è riuscito ad arrivare al Sole e mi rendo perfettamente conto che è più opportuno compiere dei piccoli passi prima di buttarsi in dissertazioni, magari anche interessanti, ma piuttosto limitate come quella dell'articolo postato da Emack in cui si è costruito un arzigogolo di parole intorno ad una definizione superficiale, inesatte e assolutamente incompiuta (non è una critica ad Emack, ci mancherebbe altro, è solo un modo per dire che non è più possibile affidarsi a formule facili e limitate per arrivare ad individuare qualcosa che ancora non è per nulla a fuoco).
    Per prima cosa vorrei ribaltare un paio di questioni. PacMan non deve avere lo stesso linguaggio di Half Life, in HalfLife deve, però, esserci Pacman. mi spiego meglio partendo dal cinema: quando il cinema nacque con i Lumiere, questi non si posero il problema del linguaggio cinematografico. anzi, considerarono la loro "invenzione" morta. questo per dire che, probabilmente, i primi autori di videogiochi, non fecero nessuna riflessione sul linguaggio che le loro opere potevano avere. ma un linguaggio, comunque, lo avevano e, anzi, proprio come nel cinema, furono due le strade che i VG presero sin dagli esordi: da una parte c'erano le velleità "realiste" o, meglio, "simulative" di un pong (che, ricordiamolo, può essere considerato il primo simulatore di ping pong); dall'altra si manifestò subito la volontà di rendere i videogiochi un veicolo dell'illusione, un modo per far fuggire l'individuo dalla realtà proiettandolo in mondi "altri". così abbiamo un doppio binario che gli sviluppatori iniziano a seguire e seguono ancora oggi.
    così un Flight Simulator appare gioco ben diverso da un rayman 3, e non solo per il genere e il tipo di giocatore che presuppone. è proprio il punto di vista fondante a determinarne le differenze sostanziali.
    così possiamo cercare di dare una definizione ancora in stato embrionale ma, credo, interessante di questa tendenza: un gioco simulativo è un'opera che tenta di riprodurre nella finzione le regole della realtà; un gioco di illusione è, invece, un'opera che usa alcune regole della realtà per giustificare il suo essere altro rispetto ad essa.
    ho abbozzato questa definizione tralasciando momentaneamente la questione sul linguaggio di cui prima avevo parlato. dicevo che Half Life contiene sicuramente Pacman. lo contiene perché quest'ultimo ne condivide, nonostante l'abisso tecnico che li divide, la struttura di base. in entrambi ci troviamo in un labirinto, in entrambi ci sono nemici, in entrambi abbiamo come scopo la "risoluzione" del labirinto. ma non solo.
    in tutti e due si narra una storia, se accettiamo la definizione per cui un racconto "è una catena di eventi legati fra loro da una relazione di causa ed effetto che accadono nel tempo e nello spazio" allora possiamo osservare che entrambi i titoli in esame possono essere contenuti in essa. certo, Half Life è molto avanzato nel modo di raccontare mentre Pacman è piuttosto primitivo in tal senso. ma questo non è importante per quello che voglio dimostrare.
    se una narrazione ha come elementi centrali causalità, tempo e spazio allora possiamo dire che i videogiochi sono narrazioni. ma non lo sono nei termini tradizionali.
    Soprattutto il tempo e lo spazio sono differenti se non fondamentalmente paradossali.
    Partiamo dal tempo. È fondamentalmente impossibile calcolare il tempo effettivo della durata di una narrazione videoludica. Spesso si leggono frasi tipo “trenta ore di gioco” ma, in termini analitici, frasi del genere sono falsità buone per la vendita del prodotto. Se è possibile pensare che esista un tempo minimo non definibile in cui una narrazione passerà dall’equilbrio iniziale allo squilibrio narrativo per poi tornare al riequilibrio finale (qualunque esso sia) non è possibile determinare un tempo totale assoluto. Forse solo in alcuni giochi che hanno un tempo limite per ogni livello è ipotizzabile pensare ad un tempo di gioco massimo.
    Insomma, è difficile sapere quanto un utente impiegherà per superare un livello di Half Life, la cosa dipende da molti fattori: tempo che l’utente passa a guardarsi la grafica, abilità di gioco ecc. oltretutto va anche considerato che questo tempo subisce forti oscillazioni dovute al “fattore morte” che, di fatto, allunga il tempo di gioco.
    Ma c’è un altro tempo, da considerare: quello nel gioco. Prendiamo sempre Half Life. Uccisi i nemici che sono nella zona che sto attraversando decido di andarmi a prendere un caffè lasciando acceso il gioco. Tanto so che nessuno mi farà nulla perché la zona è sicura. Tornando troverò la situazione identica a prima. I nemici che ancora devo eliminare sono nella stessa posizione in cui sarebbero stati se non avessi deciso di prendermi il caffè. Ma portiamo l’esempio all’eccesso. Ripulisco un area di gioco e decido di partire per un viaggio di trentasei ore lasciando il computer acceso (si parla sempre per assurdo, ovvio) con Half Life fermo in quel punto. Tornando riprendo in mano il gioco e, come è ovvio che sia, i nemici sono nello stesso punto. Ma, ancora di più, mi accorgo che, nel gioco, non c’è l’alternanza tra il giorno e la notte. Il tempo, in un gioco come Half Life è una costante, è immobile, fermo, non esiste. Le cose accadono nel momento in cui noi le facciamo accadere, nel momento in cui, insomma, è previsto che accadano. Non accadranno mai se noi non arriviamo nel punto stabilito, ma non abbiamo la necessità di arrivare in un tempo stabilito. La percezione di questa sincronia perfetta fra ciò che accade nel mondo di gioco e noi personaggio crea il tessuto narrativo che permette all’utente di entrare nella finzione. È assurdo pensare che alcuni eventi possano accadere quando noi non ci siamo, sarebbe un controsenso in termini ludici. Anche se non fino in fondo (come esaminerò nella dissertazione sullo spazio).
    Questa sincronia implica che ci sia qualcuno che l’abbia orchestrata, che qualcuno abbia deciso che in un dato momento accada una determinata cosa (una specie di logica booleana). Insomma, il susseguirsi degli eventi in un gioco in un determinato tempo implicano un “narratore” di questi eventi, qualcuno che li abbia “scritti”, sceneggiati. Quindi, un videogioco racconta anche quando non sembra stia raccontando nulla perché il giocatore è impegnato nell’azione. Ma proprio quell’azione non è altro che una “proposizione” nata dal rapporto fra il narratore e il giocatore che decide d’intraprenderla. Qualcosa che non viene raccontato da sequenze narrative statiche ma attraverso il giocare stesso. Ma sto correndo troppo. Per i tre narratori c’è tempo.
    La presenza di eventi “narrati” in un determinato momento (e in un determinato spazio, aggiungerei) produce, inevitabilmente, senso.
    Ora, tornando al discorso iniziale, anche in pacman ci sono degli eventi (mangiare le pillole) che avvengono in un tempo inesistente (quello del mondo di gioco), e che presuppongono, quindi, una narrazione (seppur desunta).
    Ovviamente il discorso “tempo inesistente” decade con uno Shen Mue che, invece, simula un arco temporale preciso in cui gli eventi accadono anche senza il giocatore presente. Ma questo è un caso, per ora, atipico che, proprio per la sua atipicità, meriterebbe un’analisi approfondita a parte.

  3. #53
    Emack
    ospite

    Predefinito Re: Coleridge ed i videogiochi

    Il tempo è una dimensione relativa al movimento. Parafrasando Aristotele, nei videogiochi accade proprio questo: che il tempo non è altro che la risultante di una routine. nemico->uccisione nemico->avanzamento tempo->nuovo nemico->uccisione nemico->avanzamento tempo.
    Mi pare lineare. Però questo vale quando ogni azione è stata perfettamente "sceneggiata", dunque quando v'è consapevole tensione narrativa.
    In un pong già questa tensione narrativa scompare, e decade il tempo come risultante di una routine.

    Dunque, la regola madre è proprio questa: il tempo è una dimensione relativa al movimento.

  4. #54
    Banned L'avatar di Chizuru Yoshida
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    Predefinito Re: Coleridge ed i videogiochi

    Beh, ma l'evoluzione dei vg sta portando proprio alla violazione di questa regola. Shen Mue, ma anche Warcraft 3. E anche in alcuni gdr il tempo scorre indipendentemente da noi (Baldur's gate) oppure quando lo decidiamo noi, come in FF7 (ben diverso dai passaggi obbligati a cui accennava karat).

  5. #55
    Veterano del Backstage L'avatar di Karat45
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    Predefinito Re: Coleridge ed i videogiochi

    Emack ha scritto mer, 23 aprile 2003 23:50
    Il tempo è una dimensione relativa al movimento. Parafrasando Aristotele, nei videogiochi accade proprio questo: che il tempo non è altro che la risultante di una routine. nemico->uccisione nemico->avanzamento tempo->nuovo nemico->uccisione nemico->avanzamento tempo.
    Mi pare lineare. Però questo vale quando ogni azione è stata perfettamente "sceneggiata", dunque quando v'è consapevole tensione narrativa.
    In un pong già questa tensione narrativa scompare, e decade il tempo come risultante di una routine.

    Dunque, la regola madre è proprio questa: il tempo è una dimensione relativa al movimento.
    in pong la tensione narrativa scompare perché pong non mira alla narrazione. mira alla riproduzione della realtà, pur nella sua semplicità dovuta ai proofndi limiti tecnologici dell'epoca. diciamo che il moderno pong è un Tennis Master Series...
    bello questo inserto di Aristotele.... solo mi chiedo... è un topic molto visto, ma nessun altro, a parte me e Emack ha apporti da dare? dove sono tutte quelle persone che in altri topic si battevano per dimostrare che il videogioco può essere arte? su, aiutateci che ne esce fuori un libro!!!

  6. #56
    Emack
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    Predefinito Re: Coleridge ed i videogiochi

    Dunque, neanche il tempo così com'è stato finora inteso è sufficiente a definire una parte del videoludo.
    Non c'è niente da fare, l'unica cosa che accomuna i vg è la ricerca di un gameplay, fatta a priori. Bisogna partire da ciò, per un processo a ritroso.


  7. #57
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    Predefinito Re: Coleridge ed i videogiochi

    beh! anche il cinema non ha una definizione che riesce ad abbracciare tutti i generi. se non quella di essere "immagini in sequenza che danno l'illusione del movimento" o "racconto per immagini" ecc. che sono definizioni molto ampie...

  8. #58
    Il Puppies L'avatar di Lestat de Lioncourt
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    Predefinito Re: Coleridge ed i videogiochi

    Decisamente fuori dalla mia portata, anche perchè gioco sempre meno (l'ultimo gioco finito su PC fu Blade Runner, su PSX Final Fantasy IX, a forza però...).

    In questa dialettica sui videogiochi, come inserite IL DIVERTIMENTO? Perchè se un gioco non diverte (per storia, ambientazione, interfaccia, grafica...) non ci si gioca.

    Edit: non ho letto tutti i post. Potrei aver detto una vaccata. La qual cosa rimane comunque preferibile...

  9. #59
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    Predefinito Re: Coleridge ed i videogiochi

    Lestat de Lioncourt ha scritto gio, 24 aprile 2003 11:20
    Decisamente fuori dalla mia portata, anche perchè gioco sempre meno (l'ultimo gioco finito su PC fu Blade Runner, su PSX Final Fantasy IX, a forza però...).

    In questa dialettica sui videogiochi, come inserite IL DIVERTIMENTO? Perchè se un gioco non diverte (per storia, ambientazione, interfaccia, grafica...) non ci si gioca.

    Edit: non ho letto tutti i post. Potrei aver detto una vaccata. La qual cosa rimane comunque preferibile...
    allora, il divertimento...
    è un parametro che non è indicativo di nulla se non di una soggettività socializzata. nel senso che è un criterio variabile da utente ad utente che può risultare azzerato se letto in chiave storica...
    esempio: pacman divertiva il teenagers dei primi anni 80... lo divertiva moltissimo.
    con gli anni il divertimento è andato scemando e il teenager di questi anni non si diverte giocando a pacman. eppure, su questo titolo, è possibile un giudizio in chiave storica che magari è migliore di un gioco moderno...

  10. #60
    Emack
    ospite

    Predefinito Re: Coleridge ed i videogiochi

    karat, l'intelaiatura la vuoi fornire tu o la fornisco io?

  11. #61
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    Predefinito Re: Coleridge ed i videogiochi

    Emack ha scritto gio, 24 aprile 2003 23:15
    karat, l'intelaiatura la vuoi fornire tu o la fornisco io?
    mmmm fai pure... anche perché per tre giorni non ci sarò... riposterò da Domenica serà!

  12. #62
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    Predefinito Re: Coleridge ed i videogiochi

    Non sarà facile intervenire dopo tutto sto popò di roba...vediamo che ne esce fuori.

    Mi pare che non sia stato sottolineato abbastanza (ma forse perchè è troppo a monte del discorso, se è così me ne scuso ) il fine del videogioco. Io i canoni li definirei a ritroso, partendo dallo scopo.
    Il VG è un medium percepito come passatempo, che porta con sè sempre e comunque l'elemento "sfida". Ne parla il documento più sopra riportato da Emack. Si può intuire se si pensa al primo videogame: ora mi sfugge il nome (potrebbe essere Space War?), ma non la sostanza (mi rifaccio ad un articolo della defunta ZETA). Un arcade sviluppato da smanettoni su un mainframe, che funzionava solo con due giocatori "uno contro l'altro" per non precipitare in un buco nero al centro dello schermo. Una sfida, appunto. Anche Pong è una sfida: ci sarebbe gusto a mandare il quadratino dall'altra parte se non ci fosse la palettina avversaria? "Beep" punto. "Beep" punto...
    La pur semplice intelligenza artificiale rende possibile preservare la "struggle" anche senza una controparte fisica presente con noi mentre si gioca.
    D'altro canto, le lamentele su MGS2 per la poca azione e le troppe sequenze cinematografiche testimonierebbero la necessità di dare per prima cosa la possibilità di lottare al giocatore e poi il resto.

    Se allora la "sfida" è davvero la base su cui poggiarsi, il "primo canone", l'impronta digitale del medium, può risultare più semplice derivarne il resto.
    Faccio un solo esempio sulla "narrazione" che sarebbe presente sempre e comunque. I mostri che stanno sempre lì per ore (il tempo come lo ha esposto Karat) diventano parte di un rapporto causa-effetto necessario alla "sfida". Se ci sono, si può giocare. Se se ne vanno in giro, si spostano in altri livelli già visitati, si scannano tra loro, io col BFG che ci fo?
    Ma anche nel caso di giochi in cui gli eventi trascorrono indipendentemente dal giocatore, il tempo rimane legato al dover garantire la sfida. Se infatti non riesco a fare in tempo a proteggere un omino che non deve essere ucciso perchè mi deve portare in un altro posto, io ho innanzitutto perso quella singola sfida (ho mancato un obiettivo che era implicito) e poi rimango "intrappolato" in un ambiente che, per quanto aperto e interattivo, non era stato progettato (narrato) per essere giocato oltre quella situazione fallita (lo stesso accadeva in quelle avventure in cui se perdevi un elemento, non andavi avanti). Rimango in un limbo, col risultato di dover ricaricare, ossia ricreare quel "tempo", riproporre quelle specifiche condizioni, che sono dettate da un fine.

    Beh, per ora mi fermo, perchè se l'assunto iniziale è errato, il tutto è buono solo per la tazza del cesso

  13. #63
    Emack
    ospite

    Predefinito Re: Coleridge ed i videogiochi

    L'assunto iniziale non è assolutamente cattivo. In più, m'è piaciuta molto la tua precisazione sul rapporto causa/effetto. Bisognerà farne tesorò.

    Però penso che la "componente sfida" non sia in cima. Penso sia racchiusa nel trittico
    - qual è lo scopo?
    - come raggiungerlo?
    - perché raggiungerlo?

    Che risponde al nome di gameplay.
    Ciò che accomuna TUTTI i videogiochi è la risposta alla prima domanda, nella quale è implicita "la sfida": lo scopo è portare a termine un incarico.
    Mentre ciò che realmente li differenza sono le risposte alla seconda e alla terza.

    Dunque, dovremmo scomporre il linguaggio videoludico così come è stato scritto.

    Un esempio già chiamato in causa: Half Life.

    - Qual è lo scopo? Salvare la pellaccia (ed, eventualmente, capire il mistero).
    - Come raggiungerlo? Attraverso un first person shooter tridimensionale, con un'interfaccia tipica, e un'interazione protagonista-personaggi, protagonista-armi, protagonista-nemici e protagonista-oggetti [gameplay vero e proprio].
    - Perché raggiungerlo? Perché siamo degli scienziati involontariamente coinvolti in un esperimento riuscito male.

    Questa è, a mio avviso, l'intelaiatura.

  14. #64
    Lo Zio
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    Predefinito Re: Coleridge ed i videogiochi

    magari diciamo la stessa cosa in modi diversi.
    Però il framework che ho in mente, e che poggia sulla sfida, parte dal fine del videogioco in sè, non del tal videogioco X.
    Posto come punto fermo per chi crea un videogioco (e ci si può estendere all'insieme più ampio del "gioco") il dover garantire al fruitore una sfida, la domanda essenziale è "Come sfidare il giocatore?".
    Ecco allora che si arriverebbe allo scopo del singolo videogame: la sfida è implicita, ma ne sarebbe la causa fondante. Come se questo scopo diventasse in realtà un mezzo.
    Anzi, forse c'è un passaggio intermedio: si arriverebbe allo scopo della singola "categoria" di videogame.

    "Come sfidare il giocatore?" "Immergendolo in un ambiente nel quale interagire, dove la sfida è rappresentata da entità ostili" (gli arcade).

    "Come sfidare il giocatore?" "Ponendolo all'esterno dell'ambiente, dove la sfida è amministrare le risorse di tale ambiente in un certo modo" (i gestionali e gli RTS).

    "Come sfidare il giocatore?" "Facendogli risolvere enigmi" (avventure grafiche e puzzle game).

    Individuate le macrocategorie (che forse sono incomplete) si possono combinare tra loro, per arricchire la sfida.

    Ad esempio, il giocatore deve amministrare le risorse tenendo conto che ci sono entità ostili che fanno altrettanto (ci stiamo avvicinando ad un Warcraft).

    Vediamo come si può sviluppare per Half-Life.
    Partiamo dalla categoria degli arcade (è un po' quello che diceva Karat sul fatto che HL contiene Pacman).
    Opto per una struttura tridimensionale che arricchisce la sfida: le entità ostili da fronteggiare sono su più piani, ergo è richiesta maggiore abilità. (non dimentichiamoci che da qui in avanti le scelte sono anche dettate dal marketing - senza 3d non sei nessuno- e dalla necessità di emergere dalla massa dei VG).
    Arricchisco ancora la sfida mettendo nell'ambiente la necessità di fronteggiare le entità ostili non solamente con la forza bruta, ma anche tramite la risoluzione di enigmi.
    Aggiungo "altro sapore" dando un nome, un cognome e una mansione all'alter ego del giocatore, invitandolo a scoprire da sè cosa è successo.
    Poi si scende nel dettaglio del gameplay, inteso come armi, caratteristiche dei mostri, ecc ecc...

    Se si ritiene valida questa impostazione, tutto è meramente strumentale alla sfida. Lo scopo di HL è costruito per sfidare il giocatore (il salvare la pellaccia discende dal fatto che è stato deciso di sfidare il giocatore in un certo modo) e il "perchè raggiungere lo scopo" sorge automaticamente nel momento in cui il giocatore accetta la sfida.

    Che ne dici/dite?

  15. #65
    Emack
    ospite

    Predefinito Re: Coleridge ed i videogiochi

    Dico che stiamo dicendo la stessa cosa.

    Quote:
    "perchè raggiungere lo scopo" sorge automaticamente nel momento in cui il giocatore accetta la sfida.
    Il perché non è la sfida. Il perché è la giustificazione ambientale ed eventuale che ha messo il giocatore in una data situazione.

    Quote:
    Però il framework che ho in mente, e che poggia sulla sfida, parte dal fine del videogioco in sè, non del tal videogioco X.
    Anche il mio si comporta allo stesso modo.

    Il GAMEPLAY si poggia sulle tre domande da me prima postate.

  16. #66
    Veterano del Backstage L'avatar di Karat45
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    Predefinito Re: Coleridge ed i videogiochi

    Catoblepa ha scritto ven, 25 aprile 2003 12:33
    Non sarà facile intervenire dopo tutto sto popò di roba...vediamo che ne esce fuori.

    Mi pare che non sia stato sottolineato abbastanza (ma forse perchè è troppo a monte del discorso, se è così me ne scuso ) il fine del videogioco. Io i canoni li definirei a ritroso, partendo dallo scopo.
    Il VG è un medium percepito come passatempo, che porta con sè sempre e comunque l'elemento "sfida". Ne parla il documento più sopra riportato da Emack. Si può intuire se si pensa al primo videogame: ora mi sfugge il nome (potrebbe essere Space War?), ma non la sostanza (mi rifaccio ad un articolo della defunta ZETA). Un arcade sviluppato da smanettoni su un mainframe, che funzionava solo con due giocatori "uno contro l'altro" per non precipitare in un buco nero al centro dello schermo. Una sfida, appunto. Anche Pong è una sfida: ci sarebbe gusto a mandare il quadratino dall'altra parte se non ci fosse la palettina avversaria? "Beep" punto. "Beep" punto...
    La pur semplice intelligenza artificiale rende possibile preservare la "struggle" anche senza una controparte fisica presente con noi mentre si gioca.
    D'altro canto, le lamentele su MGS2 per la poca azione e le troppe sequenze cinematografiche testimonierebbero la necessità di dare per prima cosa la possibilità di lottare al giocatore e poi il resto.

    Se allora la "sfida" è davvero la base su cui poggiarsi, il "primo canone", l'impronta digitale del medium, può risultare più semplice derivarne il resto.
    Faccio un solo esempio sulla "narrazione" che sarebbe presente sempre e comunque. I mostri che stanno sempre lì per ore (il tempo come lo ha esposto Karat) diventano parte di un rapporto causa-effetto necessario alla "sfida". Se ci sono, si può giocare. Se se ne vanno in giro, si spostano in altri livelli già visitati, si scannano tra loro, io col BFG che ci fo?
    Ma anche nel caso di giochi in cui gli eventi trascorrono indipendentemente dal giocatore, il tempo rimane legato al dover garantire la sfida. Se infatti non riesco a fare in tempo a proteggere un omino che non deve essere ucciso perchè mi deve portare in un altro posto, io ho innanzitutto perso quella singola sfida (ho mancato un obiettivo che era implicito) e poi rimango "intrappolato" in un ambiente che, per quanto aperto e interattivo, non era stato progettato (narrato) per essere giocato oltre quella situazione fallita (lo stesso accadeva in quelle avventure in cui se perdevi un elemento, non andavi avanti). Rimango in un limbo, col risultato di dover ricaricare, ossia ricreare quel "tempo", riproporre quelle specifiche condizioni, che sono dettate da un fine.

    Beh, per ora mi fermo, perchè se l'assunto iniziale è errato, il tutto è buono solo per la tazza del cesso
    in effetti hai messo in evidenza qualcosa di molto interessante. nel momento in cui si gioca si accettano delle regole, se non le si accetta il gioco finisce e nemmeno può iniziare perché manca un presupposto. le regole cambiano da gioco a gioco ma, in alcuni casi, sono molto simili...



  17. #67
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    Predefinito Re: Coleridge ed i videogiochi

    Catoblepa ha scritto ven, 25 aprile 2003 16:50
    magari diciamo la stessa cosa in modi diversi.
    Però il framework che ho in mente, e che poggia sulla sfida, parte dal fine del videogioco in sè, non del tal videogioco X.
    Posto come punto fermo per chi crea un videogioco (e ci si può estendere all'insieme più ampio del "gioco") il dover garantire al fruitore una sfida, la domanda essenziale è "Come sfidare il giocatore?".
    Ecco allora che si arriverebbe allo scopo del singolo videogame: la sfida è implicita, ma ne sarebbe la causa fondante. Come se questo scopo diventasse in realtà un mezzo.
    Anzi, forse c'è un passaggio intermedio: si arriverebbe allo scopo della singola "categoria" di videogame.

    "Come sfidare il giocatore?" "Immergendolo in un ambiente nel quale interagire, dove la sfida è rappresentata da entità ostili" (gli arcade).

    "Come sfidare il giocatore?" "Ponendolo all'esterno dell'ambiente, dove la sfida è amministrare le risorse di tale ambiente in un certo modo" (i gestionali e gli RTS).

    "Come sfidare il giocatore?" "Facendogli risolvere enigmi" (avventure grafiche e puzzle game).

    Individuate le macrocategorie (che forse sono incomplete) si possono combinare tra loro, per arricchire la sfida.

    Ad esempio, il giocatore deve amministrare le risorse tenendo conto che ci sono entità ostili che fanno altrettanto (ci stiamo avvicinando ad un Warcraft).

    Vediamo come si può sviluppare per Half-Life.
    Partiamo dalla categoria degli arcade (è un po' quello che diceva Karat sul fatto che HL contiene Pacman).
    Opto per una struttura tridimensionale che arricchisce la sfida: le entità ostili da fronteggiare sono su più piani, ergo è richiesta maggiore abilità. (non dimentichiamoci che da qui in avanti le scelte sono anche dettate dal marketing - senza 3d non sei nessuno- e dalla necessità di emergere dalla massa dei VG).
    Arricchisco ancora la sfida mettendo nell'ambiente la necessità di fronteggiare le entità ostili non solamente con la forza bruta, ma anche tramite la risoluzione di enigmi.
    Aggiungo "altro sapore" dando un nome, un cognome e una mansione all'alter ego del giocatore, invitandolo a scoprire da sè cosa è successo.
    Poi si scende nel dettaglio del gameplay, inteso come armi, caratteristiche dei mostri, ecc ecc...

    Se si ritiene valida questa impostazione, tutto è meramente strumentale alla sfida. Lo scopo di HL è costruito per sfidare il giocatore (il salvare la pellaccia discende dal fatto che è stato deciso di sfidare il giocatore in un certo modo) e il "perchè raggiungere lo scopo" sorge automaticamente nel momento in cui il giocatore accetta la sfida.

    Che ne dici/dite?

    Sono d'accordo: la sfida è alla base dei VG (del resto è alla base di tutti i giochi....i Lego, il calcio, Monopoly, Risiko, ecc). L'uomo ha bisogno di giocare per poter affrontare le sfide "reali". Penso che giocare sia un buon modo per "allenarsi"....

    La sfida per di + dura lungo tutto l'arco di vita di un VG: dalla sua creazione (sfida ai programmatori, gamedesigners, ecc) al suo "uso".
    Inoltre c'è un certo livello di godimento nel vincere: per es. esaltarsi con gli amici per certe partite (magari a spese dei presenti ).

    Sembra quasi di parlare di una droga....sfida->vittoria->felicità /stimolo positivo-> necessità di altri stimoli->altra sfida->.....

    Inoltre che pensare di quando si usano i cheats? L'interesse del VG cala improvvisamente perché nn c'è + sfida....l'immortalità annoia perché nn c'è + adrenalina, nn c'è la possibilità di perdere (al limite si continua a giocare ma per vedere come finisce la storia)

    (OT: mi chiedo in proposito come sarebbero le nostre vite se nn ci fosse la morte....saremmo tutti dei pigroni?)

  18. #68
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    Predefinito Re: Coleridge ed i videogiochi

    la sfida è alla base di un videogioco? siamo daccordo, tutti i videogiochi presentano una o più sfide al loro interno... ma, se si gira solo intorno a ciò, si finisce per non arrivare mai a questioni più rilevanti!

  19. #69
    Chiwaz
    ospite

    Predefinito Re: Coleridge ed i videogiochi

    Diciamo che il videogioco deve anche convincerti ad accettare la sfida, altrimenti nessuno avrebbe voglia di giocarci.

    Per fare questo il vg ricorre ad elementi tipici della narrazione: una trama, dei colpi di scena, oppure semplice varietà delle situazioni (la spinta a vedere "il prossimo livello"), o ancora più semplicemente il fatto di calare il personaggio in panni talmente assurdi che non si può astenere dal provarli.

    Dico io, come si fa ad immedesimarsi in una palla gialla inseguita da fantasmi in un labirinto? Eppure Pac Man ha avuto un successo a dir poco planetario.

  20. #70
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    Predefinito Re: Coleridge ed i videogiochi

    che ne dite di farne un Ebook e un sito di tutta questa roba?

  21. #71
    Chiwaz
    ospite

    Predefinito Re: Coleridge ed i videogiochi

    Si non sarebbe male, anche se mi sembra che stiamo ancora un po' in alto mare...

  22. #72
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    Predefinito Re: Coleridge ed i videogiochi

    si tratta, più che altro, di non far morire il discorso... speriamo di continuare almeno come stiamo facendo fino ad ora...

  23. #73
    Emack
    ospite

    Predefinito Re: Coleridge ed i videogiochi

    io tornerò domenica.

    cmq, buona l'idea di karat.

    la sfida, per me, non è l'unica componente del linguaggio videoludico, lo ribadisco.

  24. #74
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    Predefinito Re: Coleridge ed i videogiochi

    Emack ha scritto mer, 30 aprile 2003 01:19
    la sfida, per me, non è l'unica componente del linguaggio videoludico, lo ribadisco.
    certo che no, ci mancherebbe.
    Però, dovendo trovare una base da cui partire, occorre capire se la sfida ha la stessa valenza di altri elementi, oppure (come credo) viene prima di questi. In questo caso, gli elementi successivi devono per forza tenere conto di ciò, e quindi il loro utilizzo nel videogioco è limitato a quanto questi risultano funzionali al modo in cui si è deciso di sfidare il giocatore (stiamo nell'ottica di colui che crea il gioco).

    Per fare un esempio, il punteggio, che è stato prima discusso, può essere letto come un indicatore di aderenza alla sfida proposta. E in quanto tale, deve essere coerente con essa, deve partire da questa. Quindi in Thief non ci sarà mai lo score come in Pacman.

  25. #75
    Emack
    ospite

    Predefinito Re: Coleridge ed i videogiochi

    Per comprendere un libro, bisogna prima considerare i motivi eziologici che hanno spinto l'autore a scriverlo.

    Ecco perché secondo me, per comprendere il videogioco, bisogna cominciare dalle domande che gli sviluppatori si sono posti in sede di design.

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