Parliamone.
L.A. Noire è uno di quei titoli che abbiamo, tutti, atteso a lungo. Ci avevano promesso il capostipite di un nuovo genere, ricco di azione e atmosfera, con la possibilità di investigare su (quasi) tutti gli oggetti dello scenario in un open world ambientato nella Los Angeles del 1947 accuratamente ricostruita per l’occasione; ci avevano promesso una storia scandita da interrogatori dinamici e scelte multiple; ci avevano promesso fuochi d’artificio, bombe a mano e tricketrack, con protagonisti credibili ed espressioni facciali mai viste prima; ci avevano promesso... l’impromettibile: questa è la verità. Noi tutti, però, gli avevamo creduto. Poteva Rockstar disilludere le sue promesse? Poteva tradire le nostre aspettative? No, non era possibile, macché, scherziamo?
La casa di produzione statunitense è sempre stata molto brava a far parlare di sé e a convincere tutti di quanto fossero divertenti i suoi titoli. Prima con Grand Theft Auto, dopo con Max Payne (capolavoro eh!) e Manhunt, quindi con San Andreas e ancora con Bully e Red Dead Redemption. Storie di violenza e vendetta, raccontate con giochi violenti e vendicativi, che però offrivano al largo pubblico (quasi) sempre nuovi modi di giocare e ammazzarsi in allegria, rigorosamente “senza pensieri, la mia vita sarà...” (Il Re Leone, 1994). Dallo stile di vita celebrato in Hakuna Matata, a quello esperibile nel meno ispirato L.A. Noire, il passo è stato più breve di quanto, a prima vista, non si potesse pensare.
Dopo essere arrivato faticosamente ai titoli di coda e prima di maturare un giudizio definitivo sul prodotto in questione, mi sono comunque dato qualche giorno per andare sull’internet a leggere i pareri di quanti, per lavoro, si erano presi la briga di finirlo per recensirlo. Volevo capire se la delusione per la meccanica di gioco aveva colpito soltanto me; se la noia per la ripetitività del tutto, sopraggiunta ben prima del rush finale, era una cosa che riguardava esclusivamente il mio rapporto con quel tipo di esperienza o se era stato palesato da tutti e io ero l’ultimo ad essersene accorto. Differentemente da quanto, però, mi è capitato di leggere nei vari forum/blog degli utenti, sono pochissimi gli addetti ai lavori che si sono dilungati in critiche minuziose e che andassero a spulciare per bene i tanti problemi del titolo del Team Bondi. Tutti, chi più chi meno, hanno cercato di buttarla sull’ironia, imputando i [piccoli] difetti del gioco a leggeri errori di gioventù e “che magari verranno corrette in un ipotetico seguito, ma che comunque wow!”.
Sì, può anche essere, può anche starci che nel tentativo di offrire qualcosa di nuovo, il risultato finale non sia stato quello promesso/sperato, che il prodotto finito non sia del tutto soddisfacente, che possa aver lasciato dei punti ancora in sospeso... ma non specificare dettagliatamente che alcune delle lacune di L.A. Noire sono tanto sostanziali da compromettere tutto l’impianto di gioco è, secondo la mia arrogante opinione, un approccio lievemente superficiale, ovviamente vista e considerata la risonanza che il titolo in questione ha avuto su riviste specializzate e siti internet, commerciali o amatoriali, “doesn’t really matter” (Janet Jackson, 2000) che gli hanno dedicato la home page (e no, di voti troppo alti non ho parlato!).
Premettendo a chiare lettere, quindi, che il gioco Rockstar eccelle nell’offrire un’atmosfera da film noire d’autore, con personaggi (giocanti e non) credibili ed egregiamente caratterizzati, una trama suggestiva e ben raccontata, un doppiaggio lip-sync a dir poco superbo, una colonna sonora vibrante e una tecnica di animazioni facciali (Motion Scan) che, come suggerisce il compianto e noto blogger Mattia “Zave“ Ravanelli, ci si augura diventi lo standard, d’ora in avanti, è però anche doveroso puntare il dito su quei due/tre problemucci che possono aver confuso il giocatore distratto, facendogli credere di essere un semplice spettatore pagante che cerca di tirare ad indovinare le risposte alle domande quasi fosse un concorrente di “Chi Vuol Essere Milionario”, specie in quelle fasi di gioco in cui “tanto sotto i sedicimila euro non posso più scendere”.
Inizio, allora, con la parte del gameplay che, più di tutte le altre, mi ha infastidito e annoiato: l’interrogatorio.
Indipendentemente dalla selezione dei termini in fase di localizzazione, (leggasi: “dubbio” al posto di “insisti”), la scelta delle singole opzioni di dialogo (verità, dubbio o menzogna), non permette in alcuna maniera di prevedere o capire quale sarà l’argomento utilizzato dal nostro personaggio per rispondere alle battute dell’interrogato. Non c’è alcuna certezza e, in molte occasioni, si finisce per tirare ad indovinare.
Faccio un esempio semplice semplice (e non aderente a nessun caso specifico del gioco), ma che ben esemplifica quando sto dicendo.
Ipotizziamo di avere tra i sospettati il soggetto Y. Noi sappiamo che Y, la notte dell’omicidio, è uscito di casa, bagnandosi sotto la pioggia. Ce lo ha fatto capire il vicino, abbiamo visto i segni dei copertoni sul fango del vialetto e abbiamo trovato, in camera da letto, gli stivali fradici. Durante l’interrogatorio, gli domandiamo che cosa abbia fatto la sera in cui è stato commesso il crimine. Lui risponde: "Niente di ché, sono rimasto a casa. Non penserete mica che io...". Cosa scegliere? “Dubbio” o “menzogna”? Apparentemente, la scelta dovrebbe ricadere su “menzogna”, perché ci hanno detto che l'hanno visto uscire e lo confermano sia gli stivali, sia i solchi dei copertoni. Clicchiamo fiduciosi su “menzogna” e il nostro eroe Cole Phelps, invece di ribadirgli: "No, amico, lo sappiamo che ieri sera sei uscito! Abbiamo le prove, non ci puoi fregare!", se ne parte per la tangente con una pippa lunghissima sul: "Non mentirci! Ieri sera eri sul luogo del delitto, se continui così mi tocca portarti in Centrale dove utilizzeremo le maniere forti!". Y, con moltissima calma, invece di farsi prendere dall’isteria, controbatte con un vincente: "Non potete provarlo! Quali prove avete?". Noi, che di prove non ne abbiamo nessuna e che sapevamo benissimo fin dall’inizio di non avere, perdiamo la possibilità di avere altresì preziose informazioni sul suo alibi. Sì, perché l’opzione di dialogo corretta era “dubbio” (ricaricare l’ultimo salvataggio per credere). Gli scarponi e le sgommate sul fango, infatti, indicavano solamente che il tizio era uscito sotto la pioggia, non certo che si trovava sul luogo del delitto a fare a pezzi la moglie! Ovviamente, con il senno di poi (cioè sapendo cosa il nostro protagonista avrebbe risposto se avessimo cliccato su “menzogna”), la scelta di “dubbio” appare la più sensata... ma questo problema si ripete ad ogni interrogatorio e io, per quanto non sia un fulmine di guerra, mi sono trovato a ricaricare dall’ultimo punto di salvataggio almeno una ventina di volte pur di capire cosa diavolo avessero in mente gli sceneggiatori quando scrivevano le righe di testo. Proprio per il fatto che questa cosa succede ennemila volte e che, di conseguenza, non si tratta solo di un caso isolato, l'incertezza del meccanismo di azione e reazione impedisce al giocatore di avere piena comprensione degli effetti delle scelte operate, che nel 50% dei casi rimangono quindi abbandonate allo strumento (ricaricabile) dell’intuito.
In secondo luogo, ma poi mi fermo (giuro!), in diversi momenti si vede chiaramente la faccia e la fisionomia del colpevole del crimine commesso sotto i nostri occhi e su cui, a breve, inizieremo ad investigare. Durante il caso, però, andremo a catturare indiziati che non solo non assomigliano minimamente alla persona che abbiamo visto compiere il delitto, ma per i quali non sussiste alcuna prova capace di inchiodarli o incriminarli. Ora... se in un gioco che fa dell’investigazione il suo core, gli sviluppatori ci mettono nelle condizioni di dover accusare forzatamente qualcuno (altrimenti la storia non prosegue) nonostante sia palese non si tratta del reale colpevole, il tutto va a farsi malamente benedire (per non parlare della questione “sospensione dell’incredulità”, questa sconosciuta).
Ecco, nel problemino appena citato ci si imbatte almeno 5 volte (su 19 casi effettivi) e, volendo usare un'espressione tanto cara al nostro Ugo “Surgo” Laviano, si potrebbe tranquillamente dire che il gioco "è decisamente rotto". Volgiamo ora soffermarci sul discorso del: “sbaglia pure tutte le reazioni all’interrogatorio, ché tanto ti faccio proseguire lo stesso?”. No, dai, evitiamo ché i caratteri a mia disposizione iniziano a scarseggiare e non ho lo spazio nemmeno per insistere su questioni come quelle del sistema di controllo che fa pietà o della parte free roaming che, nonostante l'ambientazione suggestiva, è del tutto inconsistente (sarà mica un bene?!).
Ah, sì, anche il fatto che si possano raccogliere, per analizzarli, oggetti del tutto ininfluenti tipo le decine di bottiglie o spazzole per capelli “copia-incollate”, è un'altra cosa senza senso e che mina, alla base, la qualità delle dinamiche messe in piedi da Rockstar. Non sarebbe stato meglio, per l’economia generale del gioco, permettere di raccogliere solamente gli indizi utili, piuttosto che buttare qua e la le solite pattumiere tutte uguali e che alla terza volta (su duecento) ti fanno esclamare “ma che diavolo!”?
L.A. Noire prova ad inventare qualcosa di nuovo? Sì, forse. Ma se ci prova, lo fa tanto quanto lo fece il Fahrenheit di Davide Cage che - per carità - a me piacque tantissimo, ma che certo non si poteva osannare come “ rivoluzionario” o “sorprendente”.
Diciamo che, parafrasando una frase tanto cara alla mia nonna, L.A. Noire è “un tipo”... può piacere, se ci si accontenta.