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    Predefinito Gli italiani che emigrano oggi NON son come quelli con la valigia di cartone [tl;dr]

    I giovani emigrati italiani non fanno i minatori


    In Italia c’è un’erosione della classe media ma applicare schemi da romanzo d’appendice serve a poco










    “Pane e cioccolata” è un film di Franco Brusati con Nino Manfredi che racconta le vicende di un immigrato italiano in Svizzera, un dramma con frequenti momenti comici e una memorabile scena grottesco-satirica ambientata in pollaio umano, una sequenza capace di disturbare lo spettatore e di farlo per un motivo. Pane e cioccolata è stato girato nel 1973 ed è un bel film che narra la parabola senza fine di un uomo alla ricerca di un posto in una nazione che non è la sua, e nel farlo non risparmia nessuno: i biondi e disumani svizzeri, i connazionali italiani che accettano tutto tanto “noi teniamo il sole e il mare”, e, non ultimo, il protagonista stesso.
    L’ho visto per la prima volta l’altra sera in un cinema di Manhattan poco lontano da Central Park, in una sala piena d’italiani che rappresentavano abbastanza fedelmente una certa parte del nostro Paese, quella che comanda: tutti di una certa età (io, un mio amico e degli studenti americani di cinema eravamo gli unici sotto i 45) e tutti vestiti di modo che da quattro isolati di distanza si potesse dire “ehi guarda laggiù, un italiano coi soldi!”.
    Alla fine della proiezione, al momento del temibile dibattito, una signora italiana alza la manina ingioiellata e in un buon inglese osserva che in fondo questi poveri immigrati in Svizzera di una volta assomigliano molto a nostri giovani italiani che vengono in America per trovare lavoro, anche se questi ultimi hanno alle spalle delle famiglie benestanti (testuali parole).
    Sono poco avvezzo a trovare epifaniche delle singole frasi, ma in questa stupenda, aerodinamica e sibilante cazzata credo fosse magnificamente racchiuso un mondo, e penso che a patto di essere coraggiosi a sufficienza sia interessante provare a esplorarlo.
    Non è la prima volta che entrando a contatto con ambienti di questo tipo sento dire cose del genere, soprattutto in Italia, e, ogni volta, sento forte il bisogno di sbattere fortissimo la testa contro del calcestruzzo di ottima fattura, e questo da persona che ha una laurea inutile ha vissuto all’estero (un anno, in Germania) e che campa scrivendo (quello cioè che, non dico nel mio caso ma generalmente, è considerato un lavoro creativo, quindi fico quindi ambito) ma che per un bel po’ di tempo finché il violino più piccolo del mondo non ha incominciato a suonare le melodie giuste, ha dovuto fare soprattutto altro. Nella mia esperienza l’immigrazione giovanile italiana è decisamente più propensa alla bicicletta a scatto fisso che alla miniera e si compone principalmente di tre correnti fondamentali:

    1. Ricercatori universitari che scappano da un settore fra i più bloccati e clientelari del Paese
    Questo è una categoria di lavoratori nonostante tutto abbastanza privilegiata (ma non diteglielo o vi saltano alla giugulare chiedendo rispetto e altri sei mesi per consegnare una pubblicazione). Come tutti gli altri comunque anche questo settore ha pregi e difetti: poche ore di lavoro ma stipendi non particolarmente alti, molta libertà di gestire la propria vita ma fedeltà di stampo feudale al proprio professore di riferimento, lunghe ore della propria esistenza dedicate a tenersi aggiornati sulle sordide e ipernoiose trame di dipartimento che in soli 14-15 anni potrebbero garantire l’accesso a un posto da ricercatore. La categoria, non sempre ma sovente, ha anche un’invidiabile tendenza a non voler scendere a patti con il resto del mondo e un’ostinazione da soldato giapponese a fare solo ed esclusivamente il ricercatore qualsiasi cosa succeda perché perquellohostudiato il che, comunque la si pensi a riguardo, non aiuta il proprio potere contrattuale. In questo contesto quelli che non sono così bravi da non poter proprio essere ignorati e non hanno santi in paradiso hanno due scelte: pascolare per le, peraltro spesso belle e talvolta pure climatizzate, biblioteche dei dipartimenti italiani, privi di qualsiasi forma di retribuzione fino al momento in cui al ministero dell’istruzione qualcuno si ricorderà dove avevano nascosto quei mille mila miliardi di euro che non si trovano più (Nota: guardate dietro al crocifisso che ha lasciato Fioroni) oppure emigrare, in genere, loro sì, verso l’America.

    (Immigrati di una volta in arrivo ad Ellis Island, nessuno dei quali con un contratto per insegnare “Storia della letteratura italiana” in un’università della Ivy League)

    1. Professionisti e laureati in materie tecniche:
    Principalmente ingegneri (non che vostra madre non ve l’avesse detto “la tua vita sessuale non è poi così importante, studia ingegneria!”), informatici, architetti (che in Italia hanno ormai il valore corrente di un Chupa-Chups ma all’estero sono ancora richiesti), scienziati al servizio di privati, economisti, pubblicitari, imprenditori vari, ma anche avvocati e medici. Loro all’estero ci vanno e hanno anche buone probabilità di guadagnare bene. Certo, potranno sempre lamentarsi che lontano dall’Italia il tempo è una merda, il concetto di “commestibile” inquietantemente lasco e la gente fredda, ma questo è un altro discorso

    (Google sa)

    1. I laureati in materie umanistiche/ aspiranti artisti/ fancazzisti in pace con la propria nullafacenza/ hipster
    Categorie cui va aggiunto colui che, privo di qualsivoglia qualifica, preferisce fare il cameriere per dei turchi a Berlino che per dei calabresi a Busto Arsizio, non perché debba mandare i soldi a casa (a casa, per quanto sia povera, di solito ne hanno comunque di più) ma perché ritiene spaccarsi di Mdma sotto cassa al Panorama Bar imprescindibile qualità della vita. Di questo maxi gruppo abbonato ai lamenti sulle colonnine di destra dei quotidiani online, qualcuno continuerà molto felicemente a non fare nulla tutta la vita, magari amministrando saggiamente i propri immobili italiani senza mai imparare la lingua del Paese dove vive. Altri impareranno perfettamente la lingua, si sposeranno una ragazza del luogo e riusciranno a mettere a frutto una laurea in lettere anche all’estero, ma state sicuri che saranno sempre un numero estremamente esiguo, perché non è che gli altri Paesi dell’occidente siano privi di autoctoni che vogliono fare l’editor, pronti a sorpassarvi in tromba per via della lingua, della conoscenza della cultura locale e del fatto che la loro madre siede nel consiglio di amministrazione della casa editrice.
    MA COME ANCHE ALL’ESTERO? Oh sì, anche all’estero.
    Di questa sottocategoria molti faranno ritorno a casa e scopriranno che tutto sommato si sta meglio dove si stava peggio.

    Altri, un numero ancora minore, se saranno bravi, caparbi e fortunati dimostreranno a se stessi agli altri di valere qualcosa in un campo artistico oppure prima o poi “metteranno la testa a posto”. D’altro canto questo è sempre stato questo l’incerto destino, talvolta ingiusto, molto più spesso meritato eppure sempre inevitabile, degli aspiranti artisti. Comunque, su con la vita: uno scrittore incredibile come Guido Morselli è morto senza essere mai stato pubblicato e ci sono il 99,99 percento delle possibilità che fosse più bravo di tutti gli aspiranti scrittori in circolazione in questo momento. Questo vale ovviamente non solo per la scrittura ma per tutte le forme d’arte che Marina Abramovic non abbia ancora reso ridicole.

    Gli in fondo numericamente irrilevanti hipster, dal canto loro, continueranno potendoselo permettere ad avere nostalgia di un mondo che non c’è più, chiusi dentro i loro quartieri enclave strategicamente posti dentro le capitali occidentali del pianeta. Sono la prima sottocultura che vive in un costoso limbo estetizzato e rifiuta il concetto di “fine dell’adolescenza” e con esso anche la sua stessa teorizzazione, forse perché quando sente la parola “rimozione” crede si tratti di un filtro di Instagram. Se gli adulti solitamente provano almeno a farsi un’idea di quello che stanno facendo della propria vita, gli hipster preferiscono farsi crescere la barba e ripetere che anche solo pronunciare la parola hipster è hipster, nobilitando per contrasto motti puerili come “specchio riflesso senza ritorno”. In quanto frutto della degenerazione terminale del politically correct, per l’hipster l’importante è provarci: non solo non conta più raggiungere un risultato ma nemmeno avere uno scopo.

    (Per cosa esattamente? Non importa)
    La loro mecca spirituale si trova proprio in quella New York in cui secondo la signora del cinema sbarcano i nuovi Nino Manfredi della contemporaneità. Si tratta del quartiere di Williamsburg a Brooklyn, zona piena di negozi che trattano beni di prima necessità per immigrati poveri come formaggi bio e tatuaggi, Giulio D’Antona ne ha parlato estesamente qua e, sarà un caso, ma l’unico luogo di New York dove basta fare dieci metri per sentire qualcuno parlare in italiano, . In compenso è molto difficile, per non dire impossibile, che vi parlino con accento italiano su un taxi o in un grocery store aperto tutta la notte.



    “Ciao Nino, dammi una birra”
    “Sorry amigo, i don’t speak spanish”


    Il ventaglio dell’immigrazione giovanile italiana è insomma ampio, vario ed eventuale, ma non assomiglia più nemmeno lontanamente al Nino di Pane e cioccolata: cameriere, maggiordomo, clandestino, spennatore di polli e folle per sfinimento e invidia di razza. Se volete trovare qualcosa del genere vi consiglio di rivolgervi agli immigrati che arrivano in Italia dai paesi poveri e finiscono in molti posti, non ultime le cucine dei ristoranti delle nostre città.
    Ora tutto questo non significa ovviamente che sia giusto che se siete dei bravi accademici rischiate di andare a finire dall’altra parte del mondo, e nemmeno se siete un architetto, eccetera, eccetera. Sorvolando sul fatto che poi la realtà non è tutta così bianca o nera nemmeno in Italia e che, con la scusa che tanto è tutto un gomblotto, nel lamento collettivo ci si è gettata a pesce anche gente che non troverebbe lavoro nemmeno a Zion, le difficoltà esistono e sono gravi. Eppure non prendiamoci per il culo, l’immigrato italiano all’estero non è più il minatore, il muratore, lo sguattero, il cameriere per necessità, per il semplice fatto che questi lavori in Italia ci sono, ma li fanno appunto i Nino di paesi più poveri del nostro, così come avviene in Germania, Francia, Inghilterra e negli Stati uniti.
    Negare tutto questo è il tipo d’interpretazione fantasiosa che ignora completamente la realtà e le sovrappone un immaginario, vecchio per l’appunto di quarant’anni, tarato cioè sui valori, le realtà sociali, e i sistemi simbolici di quando la generazione e dei sessantenni di oggi aveva vent’anni. Nonostante la presa del potere di un quarantenne che considera Il Principe di Macchiavelli un libro di precetti, i riferimenti culturali di un Paese cambiano lentamente e a oggi in Italia rimangono saldamente in possesso della gerontocrazia, il discorso pubblico è quindi sempre cosa loro.


    L’obsolescenza fattuale di schemi interpretavi come questo però non è solo un gigantesco fraintendimento ma è anche la garanzia più assoluta che le cose non escano mai dall’alternanza di sparata e lamentazione, dove bisognerebbe fare questo e quello però è tutto un magna magna e così non si andrà mai da nessuna parte e intanto prestami (leggi: dammi) i soldi dell’affitto che devo andare a fare aperitivo.
    I settori problematici come detto sono molti, ma c’è un libro che mi è capitato sotto mano in questi giorni che parla della vita economica degli scrittori (nel senso ampio che danno alla parola gli americani) negli Stati Uniti e di come siano sempre più fondamentali i corsi che tengono nelle università. È un testo composto da una serie di interventi di vari autori in cui il filo rosso che tiene assieme tutto è la disarmante (per un italiano) sincerità che hanno quando si arriva al tema denaro. Sono elencate le cifre medie di anticipo per un’opera prima, quelle per un long form per una grossa rivista e quelli di un articolo per un piccola pubblicazione indipendente e gli stipendi di un redattore di una testata online. Per pagine e pagine persone di venticinque, trenta, trentacinque, quarant’anni fanno i conti in pubblico cercando di capire come fare con questi soldi a pagare tasse, affitto, assicurazioni sanitarie, scuole per i figli (fanno anche figli, questi qua), considerati quanti anni ci vogliono per scrivere un romanzo, quanti mesi per un articolo lungo. Il fatto è che, se non ci stai dentro, il mestiere semplicemente scompare.


    Ora, se da un lato quest’approccio pragmatico è facilitato dal fatto che negli Stati Uniti ogni cosa è denaro e il denaro è sostanzialmente l’unico grande argomento, l’altra verità è che nel nostro Paese sarebbe semplicemente impensabile per mille e uno motivi: gente che guadagna troppo poco, gente che guadagna troppo, invidia, odi, ripicche, pastette, circoletti, l’idea che in fondo la “cultura” non deve c’entrare niente con il denaro altrimenti si corrompe (le opere del rinascimento italiano furono, come è noto, autofinanziate con una colletta di un centro sociale ) ma soprattutto da idee fuori dal mondo come quella della signora ingioiellata su chi siamo e su dove stiamo andando. È impossibile avere anche una lontana idea di quanto guadagnano molte persone della mia età, ma, ehi, tieni d’occhio la loro timeline di Facebook e saprai come la pensano sull’articolo 18, proprio quello che con ogni probabilità non hanno mai avuto davvero la possibilità di avere in un contratto.
    Siamo sostanzialmente schiavi dell’immagine che ci piace avere di noi, non importa quanto sia lontana dai nostri problemi reali. Se è vero che ci sono intere aree del Paese dove la povertà si è fatta sistema, è altrettanto vero che il problema dell’emigrazione per l’Italia di oggi è un problema che comporta soprattutto un’erosione di quella che un tempo sarebbe stata la classe media, la cui esistenza è importante per la salute di una democrazia tanto quanto l’eliminazione della povertà, una verità che in tempi di populismo sembra diventata un tabù, da qui il mischiarsi dei piani e il ricondurre tutto entro schemi romantici da romanzo d’appendice che servono a poco.


    Uscito dal cinema ho arbitrariamente immaginato a cosa stava pensando la signora in quel momento, probabilmente sulla via di casa, dopo quell’intervento dove l’emozione abbracciava mortalmente lo stereotipo. L’ho immaginata mentre con genuina apprensione si struggeva per il destino dei giovani italiani forzati all’estero, l’ho vista mandare un messaggio a un figlio in qualche capitale del mondo, dove probabilmente avrà un buon lavoro e da dove forse sognerà di tornare in Italia ma nel frattempo non pulirà pavimenti per pagare l’affitto o se lo farà sarà più per senso di colpa che per il rischio reale di morire di fame. L’ho immaginata confonderlo per un breve, ma ammettiamolo pure un po’ appagante, momento con i romantici camerieri meridionali nella Svizzera del 1973, umili ma simpatici, abituati a soffrire e sgobbare ma sempre pronti a suonare la chitarra sulla loro brandina, perché noi italiani in fondo siamo fatti così.
    E in un certo senso tutta questa incapacità, magari ingenua, magari paracula, di vederci per quello che siamo, di definire i nostri problemi prima ancora di pensare come affrontarli, mi è sembrata il modo perfetto per non provarci nemmeno.

  2. #2
    Banned L'avatar di budellone8
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    Predefinito Re: Gli italiani che emigrano oggi NON son come quelli con la valigia di cartone [tl;

    primo + tldr

  3. #3
    Lo Zio
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    Predefinito Re: Gli italiani che emigrano oggi NON son come quelli con la valigia di cartone [tl;

    ho letto a sprazzi e mi sembra il delirio di un vecchio imbecille

  4. #4

    Predefinito Re: Gli italiani che emigrano oggi NON son come quelli con la valigia di cartone [tl;

    ho letto tutto e quoto in toto

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