Prima di iniziare, una piccola “disclosure”, che di questi tempi è sempre opportuna. Sono uno dei sostenitori di Servizio Pubblico, uno dei 100mila e passa italiani che qualche anno fa ha versato una decina di euro per supportare il progetto di Michele Santoro, convinto della necessità di uno spazio di dibattito politico e di attualità diverso dai “soliti” Ballarò e compagnia bella. Oggi mi arrogo il diritto di commentare il servizio di “lancio” della puntata della prossima settimana, mandato in onda ieri sera a conclusione della trasmissione, sia in qualità di giornalista che si occupa da sempre di videogiochi, che di “azionista” di Servizio Pubblico. Dopo averlo visto tre volte, incredulo di fronte a quanto passava sullo schermo, sono fortemente tentato di richiedere indietro i miei soldi.


League of Legends: Pablo Trincia in Cina per raccontare la droga videoludica.
È una droga, ma non si sniffa o si fuma: si guarda. Pablo Trincia è partito dalle periferie d’Italia per arrivare in Cina, dove esistono veri e propri campi di rieducazione per chi è dipendente da videogame, rete, social network. Un’inchiesta fra il mondo reale e quello virtuale, con una domanda in testa: quali sono i pericoli? Ecco una prima anticipazione dedicata a League of Legends, il videogioco online diventato una vera e propria mania a livello planetario“.


Era qualche mese che le acque sembravano essersi calmate, e temevo una recrudescenza delle sterili polemiche su videogiochi violenti e “summa teologica di tutti i mali” (cit.) con l’uscita di GTA V su PC, ma nonostante l’enorme successo di critica e pubblico riscosso ovunque, in Italia i politici e i giornalai sembrano non essersene accorti. Tanto meglio, mi vien da dire, visto il livello della discussione che si innesca quando capita che si rendano conto dell’esistenza di videogame per adulti (per adulti! dove andremo mai a finire signora mia?).


Poi ti capita, tra capo e collo, dopo aver finito di giocare al terzo episodio di Life is Strange, questo servizio. Guardatevelo con calma, rubate sei minuti alla vostra vita vera, e tornate qui a leggere. Tralasciando traduzioni discutibili (ma forse necessarie per il “grande pubblico”) come la ricerca del cattivo con la “superspada“, si tratta di un servizio dallo spudorato tono scandalistico, come neanche le peggiori tv del dolore quando indagano sui casi di cronaca locale, con la voce cupa del narratore, inquadrature da film horror, una colonna sonora assurda e uno stile al limite del morboso, indegno di una trasmissione televisiva che si vuole definire seria.


Al termine del servizio, due cose mi appaiono evidenti: la prima è che il giornalista non conosce la materia, e questa è una costante che si ritrova spesso negli “approfondimenti” della stampa generalista sul mondo dei videogiochi, come dimostrano gli infiniti casi dei mesi scorsi. Il che, da un lato continua a farmi cadere le… braccia, dall’altro mi fa seriamente dubitare della qualità del giornalismo che si occupa di altri argomenti. Voglio dire, io i videogiochi li conosco e so quando vengono dette fesserie, ma di finanza o di Medio Oriente ne capisco poco: quando sento o leggo colleghi esperti che parlano di quegli argomenti, devo temere di essere informato con la stessa, sfacciata approssimazione (per usare un eufemismo)? Non so, ma il dubbio certamente viene.


La seconda cosa evidente è che al buon Pablo Trincia il mondo dei VG non interessa neanche lontanamente. Ora, non ho mai diretto una trasmissione televisiva, ma curo una rivista di videogiochi, e di solito tendo ad assegnare recensioni di titoli di un particolare genere a chi ne è appassionato. Per mille, e immagino ovvi, motivi. Che però non sembrano valere, almeno non in questo caso. Sentire la frase “dopo una serata passata a osservare mostri con lanciafiamme sullo schermo, lo ammetto, non ne posso più” è a dir poco deprimente. Si rilassi, caro Pablo Tincia: anche io, dopo una intera serata passata a osservare gente che insegue una palla, o politicanti che parlano davanti alle telecamere, lo ammetto, non ne posso più. E sa perché? Perché sono cose che non mi interessano. Tant’è che non faccio il giornalista sportivo né l’opinionista da salotto. Mi occupo di altro, per fortuna (mia e dei tre disperati che mi leggono).


Poi ecco, la chiusa del servizio con la frase ad effetto “la dipendenza da videogame ha provocato in Cina VENTI milioni di vittime” non si può proprio sentire.


Il problema della ludopatia e della internet addiction esiste, intendiamoci: non voglio fare il negazionista o alzarmi a dire che “va tutto bene“. Il gioco d’azzardo patologico (“gambling disorder“, in questo caso legato ai videopoker ecc.) dal 2013 è classificato come vera e propria dipendenza riconosciuta dalla American Pshychiatric Association, trattata e curata in tutto il mondo, compresi i servizi per le dipendenze presenti sul territorio italiano. Il cosiddetto “internet gaming disorder” è invece contenuto in un’appendice del sistema di classificazione delle patologie mentali (in cui sono inserite le altre forme di dipendenza) come patologia che richiede ulteriore studio. Di fatto, quindi, non esistono ancora evidenze scientifiche abbastanza solide per poterla definire come entità clinica a sé stante. Però, ecco, al di là di queste considerazioni, se questo è l’approccio al problema, non mi sento molto tranquillo sulla qualità del dibattito che ne potrà seguire. Non posso giudicare un’intera puntata di un talk show che (anche) di questo andrà a parlare, ma le premesse non sono incoraggianti.


Per il momento, quello che posso fare, e che farò nelle prossime ore, è scrivere alla redazione di Servizio Pubblico segnalando questo mio articolo, lasciando che – come immagino – cada nel vuoto. Poi, settimana prossima, cercherò di ricordarmi di accendere la televisione per seguire la trasmissione, e torneremo a parlarne su queste pagine.



Claudio "Keiser" Todeschini