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New York. “Business as usual” alle Nazioni Unite. Dopo il voto dell’Assemblea generale, la nuova Commissione diritti umani dell’Onu inizierà i suoi lavori il 19 giugno. Con fierezza, come dicevano ieri molti giornali italiani, che hanno sposato con enfasi la teoria della “sconfitta di John Bolton”, ambasciatore statunitense all’Onu. Ma quel che è strombazzato con trionfalismo antiamericano come un successo “storico” è per molti, in realtà, una sconfitta dell’intera comunità internazionale. “Passeggiando tra gli scranni del Palazzo delle Nazioni a Ginevra (dove si riunirà la neonata Commissione, ndr) vedremo le solite facce: quelle dei rappresentanti di Libia, Sudan e Cina”, dice al Foglio Hillel Neuer, direttore di UNWatch, un’ong che – con i Radicali transnazionali, Freedom House e un’altra quarantina di organizzazioni – s’è opposta alla creazione di un’istituzione che di fatto non cambia nulla. Del resto l’aveva detto anche il segretario generale, Kofi Annan, ben prima di festeggiare sorridente “la storica vittoria” di mercoledì: gli stati torturatori sarebbero entrati “non per rafforzare i diritti umani, ma per proteggere loro stessi contro le critiche oppure per criticare altri paesi”. La semplice regola secondo cui chi rispetta i diritti umani può entrare in una Commissione che si batte per la loro difesa non è stata accolta, in mezzo a mille compromessi e all’ostinata opposizione di Stati Uniti e Israele, cui si sono aggiunte Palau e le Marshall Islands . Tutti gli altri si sono ritrovati d’accordo. L’Europa ha votato insieme con le dittature. Joshua Muravchik, uno dei maggiori esperti di Nazioni Unite – ha scritto un libro, “The future of the UN”, nel quale critica la tendenza dell’Onu a trasformarsi in “protogoverno mondiale” – ha detto al Foglio di non essersi per nulla sorpreso dell’atteggiamento del Vecchio continente: “I paesi europei vorrebbero una riforma vera, ma la storia impedisce loro qualunque frizione con i paesi del terzo mondo: basta ricordare che, nell’unico anno in cui gli Stati Uniti sono stati assenti dalla Commissione diritti umani, nessuno ha avuto il coraggio di inserire la parola Cina nell’agenda. Gli europei hanno gli stessi obiettivi degli americani, ma hanno paura di lottare per raggiungerli”. La mancanza di coraggio dell’Europa è storia vecchia, ma in questo caso il Vecchio Continente è entrato a far parte di quella “vergogna delle Nazioni Unite” denunciata dal liberal New York Times. Anche Matteo Mecacci, rappresentante all’Onu per i Radicali transnazionali, ha sottolineato, in un comunicato stampa, che la responsabilità di aver approvato questa “riformetta” che non cambia niente aleggia sopra i cieli europei. Anche l’Italia è stata zitta, e per questo Mecacci rilancia la necessità che Emma Bonino, leader della Rosa nel pugno, vada alla Farnesina, una possibilità per “far entrare i diritti umani e la democrazia al centro della politica estera europea”. Ben più diplomatica è Jennifer Windsor, direttrice di Freedom House, famosa ong bipartisan, che ha detto: “Il testo, come spesso accade con le Costituzioni, contiene molte ambiguità: ora tocca ai paesi democratici coalizzarsi ed evitare che i punti oscuri del testo siano sfruttati dai violatori dei diritti umani”. Impresa non facile se si considera che, con questa riforma, basterà raggiungere la maggioranza assoluta – e non i due terzi dei voti, com’era stato richiesto nella fase di negoziazione – per essere eletti nella Commissione e i paesi democratici – nella ripartizione geografica dei seggi – non potranno impedire alla Cina di rappresentare l’Asia, al Sudan di essere delegato dai paesi africani o alla Cuba di Castro di occupare il seggio dell’America Latina. In più le ong saranno sotto tiro, perché il loro contributo dovrà essere considerato “effettivo”. In altre parole – come già accaduto in passato – stati come la Russia, la Libia o il Vietnam potranno chiedere la sospensione del loro diritto di parola. Infine, la clausola proposta dai paesi islamici sulla blasfemìa che affida ai mass media la prevenzione della “diffamazione dei profeti” getta le basi per un meccanismo di controllo della stampa a livello internazionale. New York. “Business as usual” alle Nazioni Unite. Dopo il voto dell’Assemblea generale, la nuova Commissione diritti umani dell’Onu inizierà i suoi lavori il 19 giugno. Con fierezza, come dicevano ieri molti giornali italiani, che hanno sposato con enfasi la teoria della “sconfitta di John Bolton”, ambasciatore statunitense all’Onu. Ma quel che è strombazzato con trionfalismo antiamericano come un successo “storico” è per molti, in realtà, una sconfitta dell’intera comunità internazionale. “Passeggiando tra gli scranni del Palazzo delle Nazioni a Ginevra (dove si riunirà la neonata Commissione, ndr) vedremo le solite facce: quelle dei rappresentanti di Libia, Sudan e Cina”, dice al Foglio Hillel Neuer, direttore di UNWatch, un’ong che – con i Radicali transnazionali, Freedom House e un’altra quarantina di organizzazioni – s’è opposta alla creazione di un’istituzione che di fatto non cambia nulla. Del resto l’aveva detto anche il segretario generale, Kofi Annan, ben prima di festeggiare sorridente “la storica vittoria” di mercoledì: gli stati torturatori sarebbero entrati “non per rafforzare i diritti umani, ma per proteggere loro stessi contro le critiche oppure per criticare altri paesi”. La semplice regola secondo cui chi rispetta i diritti umani può entrare in una Commissione che si batte per la loro difesa non è stata accolta, in mezzo a mille compromessi e all’ostinata opposizione di Stati Uniti e Israele, cui si sono aggiunte Palau e le Marshall Islands . Tutti gli altri si sono ritrovati d’accordo. L’Europa ha votato insieme con le dittature. Joshua Muravchik, uno dei maggiori esperti di Nazioni Unite – ha scritto un libro, “The future of the UN”, nel quale critica la tendenza dell’Onu a trasformarsi in “protogoverno mondiale” – ha detto al Foglio di non essersi per nulla sorpreso dell’atteggiamento del Vecchio continente: “I paesi europei vorrebbero una riforma vera, ma la storia impedisce loro qualunque frizione con i paesi del terzo mondo: basta ricordare che, nell’unico anno in cui gli Stati Uniti sono stati assenti dalla Commissione diritti umani, nessuno ha avuto il coraggio di inserire la parola Cina nell’agenda. Gli europei hanno gli stessi obiettivi degli americani, ma hanno paura di lottare per raggiungerli”. La mancanza di coraggio dell’Europa è storia vecchia, ma in questo caso il Vecchio Continente è entrato a far parte di quella “vergogna delle Nazioni Unite” denunciata dal liberal New York Times. Anche Matteo Mecacci, rappresentante all’Onu per i Radicali transnazionali, ha sottolineato, in un comunicato stampa, che la responsabilità di aver approvato questa “riformetta” che non cambia niente aleggia sopra i cieli europei. Anche l’Italia è stata zitta, e per questo Mecacci rilancia la necessità che Emma Bonino, leader della Rosa nel pugno, vada alla Farnesina, una possibilità per “far entrare i diritti umani e la democrazia al centro della politica estera europea”. Ben più diplomatica è Jennifer Windsor, direttrice di Freedom House, famosa ong bipartisan, che ha detto: “Il testo, come spesso accade con le Costituzioni, contiene molte ambiguità: ora tocca ai paesi democratici coalizzarsi ed evitare che i punti oscuri del testo siano sfruttati dai violatori dei diritti umani”. Impresa non facile se si considera che, con questa riforma, basterà raggiungere la maggioranza assoluta – e non i due terzi dei voti, com’era stato richiesto nella fase di negoziazione – per essere eletti nella Commissione e i paesi democratici – nella ripartizione geografica dei seggi – non potranno impedire alla Cina di rappresentare l’Asia, al Sudan di essere delegato dai paesi africani o alla Cuba di Castro di occupare il seggio dell’America Latina. In più le ong saranno sotto tiro, perché il loro contributo dovrà essere considerato “effettivo”. In altre parole – come già accaduto in passato – stati come la Russia, la Libia o il Vietnam potranno chiedere la sospensione del loro diritto di parola. Infine, la clausola proposta dai paesi islamici sulla blasfemìa che affida ai mass media la prevenzione della “diffamazione dei profeti” getta le basi per un meccanismo di controllo della stampa a livello internazionale.