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Nel 1968 una casa editrice universitaria della California pubblicava la singolare tesi di dottorato di uno studente di antropologia. Era il frutto di cinque anni di apprendistato dell'autore presso uno sciamano Yaqui, don Juan Matus, che in una serie di dialoghi rivelava una concezione del mondo (l'antica sapienza degli sciamani messicani) radicalmente alternativa rispetto a quel-la razionalista della civiltà occidentale. "A mia insaputa" scrive l'autore, Carlos Castaneda "il mio compito passò misteriosamente dalla semplice raccolta di dati antropologici all'interiorizzazione dei nuovi processi cognitivi del mondo sciamanico." Velia, cognizione sciamanica, ciò che conta davvero è l'incontro dell'uomo con l'infìnito, la facoltà da acquisire è il vedere, "Patto di percepire direttamente l'energia che fluisce nell'universo"; un metodo per raggiungere questa facoltà è l'uso rituale di piante sacre agli indiani del Messico come il peyote (o il mescalito, come preferisce chiamarlo don Juan).
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La vera battaglia dell’uomo non è quella che combatte con i suoi simili, ma con l’infinito, e non si può neppure parlare di una battaglia; si tratta sostanzialmente di un’accettazione. Dobbiamo accettare volontariamente
l’infinito.
Carlos Castaneda
Impegnato in un progetto di ricerca antropologica in Arizona e Messico, l’autore incontra un vecchio sciamano yaqui, don Juan Matus, che, attraverso il racconto delle pratiche rituali in uso presso gli stregoni della sua stirpe, gli trasmette la conoscenza del loro universo cognitivo. Per il giovane antropologo inizia così un percorso che, da raccolta di dati scientifici, si trasforma in una sorta di rito di iniziazione, un viaggio interiore alla ricerca della libertà spirituale totale, della condizione di pura consapevolezza di sé.
Una parabola esistenziale appassionante, attraverso la quale Castaneda accompagna il lettore in un mondo altro rispetto a quello reale dove ciò che conta è vedere, cioè percepire l’energia che fluisce nell’universo.
Un libro che, come afferma Walter Goldschmidt nella prefazione, “è etnografia e allegoria al tempo stesso”.