Sta facendo parecchio discutere (almeno sentendo i commenti qui in redazione e le mail che ricevo dai lettori) l'articolo pubblicato quest'oggi in prima pagina su Repubblica (riportato anche sul sito del quotidiano), un'intervista a Niccolò Ammaniti nella quale lo scrittore si definisce avido videogiocatore fin dai tempi di Pong, ma che è stato coinvolto pienamente solo con l'avvento della PlayStation e i giochi che cominciavano ad avere una struttura narrativa più complessa. Va detto che l'intervista è assai interessante, e Ammaniti dice cose condivisibili (anche se condite da qualche ingenuità che possiamo tranquillamente perdonare) che noi sappiamo bene e che andiamo dicendoci da anni. La differenza tra giochi squisitamente "tecnici" come gli FPS e quelli con maggiore libertà d'azione (con uno spassoso benchè poco plausibile aneddoto relativo a Grand Theft Auto - gli esperti potranno divertirsi o meno a smentirlo); ancora, la possibilità di avere giochi con diversi stili narrativi, più legati alla trama vera e propria o che invece puntano molto sull'ambientazione (vedi Resident Evil); e ancora, la "rivoluzione" di World of Warcraft e la scoperta del mondo online... E allora, cosa fa discutere? Più che altro il titolo sensazionalistico e fuorviante del pezzo («Ammaniti schiavo dei videogiochi - "Non scrivevo più libri"»): leggendolo ci si accorge che le cose non stanno esattamente in questi termini. Sarà forse per per instillare un po' di paura del demone del (video)gioco?