Vent'anni fa o giù di lì, l'uscita di un gioco era attesa con ansia: leggivi Zzap!, sbavavi sulle fotografie scattate con la reflex, leggevi e rileggevi gli articoli da cima a fondo, e cominciavi a stressare il tuo negoziante di fiducia fino a quando il gioco non arrivava. E per settimane non giocavi ad altro. Per settimane intere.
Oggi è ancora così? Direi proprio di no. Lo suggerisce, seppur indirettamente, l'ultimo studio dell'Università di Leicester, il cui ricercatore Adrian North ha monitorato per due settimane le risposte emozionali alla musica di 346 persone.
Conclusione: «l'accessibilità della musica l'ha resa "scontata" e non richiede più un impegno emotivo forte che una volta era associato all'apprezzamento della musica».
Per dirla in altre parole, ci godiamo molto meno le cose da quando sono diventate così accessibili: musica, film e ovviamente videogiochi.
Colpa della pirateria, probabilmente.
Ma non è di quello che stiamo parlando, bensì di "emozioni" legate ad un bene che prima era più "esclusivo", oggi lo è molto meno: e questo ci rende meno attenti, più ingordi, ci fa perdere il gusto della scoperta, del riascolto di un brano fino a farselo uscire dalle orecchie, del giocare lo stesso livello venti volte fino a conoscerne a menadito ogni singolo pixel.
Mi viene in mente la fine di The Truman Show. Interrotta la trasmissione che le ha tenute incollate allo schermo fino a quel momento, le guardie cercano subito la guida TV.