Ero rimasto piuttosto perplesso, qualche giorno fa, nel leggere che la Sony aveva registrato, in data 21 marzo (ossia il giorno dopo l'inizio della guerra in Iraq - alla faccia del cinico tempismo), il marchio Shock And Awe che, come ben sappiamo, ha rappresentato la strategia bellica della coalizione nei primi giorni del conflitto.
Pare che le polemiche seguite al diffondersi della richiesta di Sony abbiano "costretto" il colosso giapponese ad una altrettanto colossale retromarcia: in quattro e quattr'otto è stata ritirata la domanda di brevetto, con le scuse della società, che ha definito l'iniziativa «sconsiderata, sconveniente e riprovevole». Un portavoce della Sony ha aggiunto che non c'è alcuna intenzione, da parte della multinazionale, di produrre un gioco basato sui recenti avvenimenti in Medio Oriente, e che l'iniziativa è stata presa dalla filiale americana in completa autonomia.
A questo punto non so fino a quanto si sia rivelata azzeccata la contro-mossa difensiva: dopo la Sony, altre quindici società hanno depositato la stessa domanda, e una di loro si accapparrerà comunque i diritti di sfruttare il marchio «Shock and Awe» per qualche prodotto. D'altro canto, le classifiche di vendita di questi giorni non lasciano spazio a dubbi: negli Stati Uniti, la top ten dei videogame più venduti vede al primo posto Delta Force: Black Hawk Down, al secondo Command & Conquer: Generals, e i due Battlefield (gioco originale più espansione) e Raven Shield a seguire immediatamente dietro.
L'esempio più lampante della dicotomia tra le esigenze di "politically correct" degli uffici di pubbliche relazioni delle grosse società e il desiderio legittimo (visti i risultati di vendita) di sfruttare commercialmente la guerra da parte dei responsabili marketing.