La mia "esperienza" come programmatore di videogiochi inizia e finisce - fortunatamente - con alcune pietosissime avventure testuali per Commodore 64, tutte rigorosamente in Basic, scritte durante gli oziosi pomeriggi del liceo (ma quanto tempo libero avevamo? è davvero così o è solo un ricordo cristallizzato dal tempo?), le cui procedure più complesse riguardavano il ciclo "if-then-else" legato alle possibili scelte del giocatore (tipicamente due: o quella giusta o la morte). C'è stato poi un breve tentativo di lavorare con l'assembler, naufragato nel mare tempestoso della maturità.
Per questo motivo ogni volta che incontro degli sviluppatori di videgiochi "veri", come la settimana scorsa per Auto Assault, di cui vi racconterò con dovizia di particolari sul prossimo numero di TGM (maggio), provo sempre un misto di timore reverenziale ed ammirazione per il loro lavoro, per quello che sono in grado di tirare fuori da un computer, per riuscire a fare cose che che ai miei occhi di profano appaiono il più delle volte come vere e proprie stregonerie. Che poi è più o meno quello che succede ogni volta che conosciamo persone specializzate in campi che non ci competono (meccanico, dottore, tecnico del computer...), solo che in questo caso l'ammirazione è amplificata dalla comune passione per i videogiochi.
Che poi scopri, parlandoci insieme anche solo per pochi minuti, che anche loro sono ragazzi normali e tutto il resto, ma questa è un'altra storia...