Come sa chi ci segue da qualche tempo, abbiamo sempre dato particolare attenzione e rilievo, soprattutto in questa sede, alle notizie e alle discussioni legate al videogioco inteso come forma di intrattenimento e come forma d'arte a tutti gli effetti, nè più ne meno come il cinema o la letteratura.
Ieri, la Corte d'Appello dell'Ottava Sezione del Tribunale degli Stati Uniti ha rovesciato la criticata decisione di una corte statunitense dello scorso aprile: forse ricorderete il caso della città di St. Louis, che nel tentativo di limitare l'accesso dei videogiochi violenti ai minori aveva stabilito che i videogiochi non avevano nulla a che spartire con la libertà d'espressione sancita dal Primo Emendamento. Ebbene, il giudice federale ha stabilito che «se il Primo Emendamento è così versatile da proteggere l'opera di Jackson Pollock, la musica di Arnold Schoenberg o le rime di Lewis Carroll, non c'è ragione per cui le immagini, la grafica, la musica, le storie e la narrativa presenti nei videogiochi non debbano essere coperte dal medesimo principio. Il semplice fatto che tutto questo appaia in un mezzo di comunicazione nuovo non ha alcuna conseguenza legale».
La prima, ovvia conseguenza di questa decisione peserà nella causa d'appello aperta contro lo stato di Washington, che qualche settimana fa ha bandito i giochi violenti (ma solo contro le forze dell'ordine).
Ma al di là delle conseguenze nelle aule di tribunale (e nelle varie controversie che riguardano GTA, Postal 2 e compagnia bella), la sentenza di ieri ha un forte valore simbolico e politico: i videogiochi, per la prima volta da che esistono, vengono equiparati formalmente a qualunque altra forma di libera espressione, come un libro, una poesia, una fotografia o un film, uscendo da quel limbo indefinito nel quale vagavano da troppo tempo. Attenzione, però, perchè il cammino è solo agli inizi: adesso occorre una sana e oculata legislazione che regoli l'accesso ai titoli adulti da parte dei più piccoli.