da Urbano, troppo urbano. Vivere e morire a SimCity
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4.2 Storie vs simulazione
SimCity viene generalmente eletto a modello del videogioco anti-narrativo. Le simulazioni elettroniche, insistono Juul (2002) e Arseth (1997), non prevedono alcuna trama. E tuttavia, se è vero che SimCity non incorpora una struttura narrativa tradizionalmente intesa (di tipo lineare o sequenziale), il gioco stimola e sollecita forme di narrazione alternative. SimCity non racconta storie. Ma i giocatori sì. In rete sono disponibili centinaia di “diari” di architetti e sindaci virtuali con riportano con maniacale minuziosità l’evoluzione delle ‘loro’ città: è questa la vera narrativa postmoderna. Non solo. I fans di SimCity amano scambiarsi “cartoline” virtuali delle metropoli che stanno costruendo e amministrando. I loro frammenti iconografici raccontano dunque più “storie”: quella del progettista e quella del frammento stesso, che vaga nella rete in cerca di destinazione. SimCity rappresenta inoltre un esempio emblematico di quello che Salen & Zimmermann (2003) chiamano “retelling play”, ovvero la narrativizzazione dell’esperienza ludica da parte dei giocatori, che condividono le esperienze di gioco e le raccontano come se le avessero vissute in ‘prima persona’ (“Ieri ho costruito un aeroporto, ma non ho fatto i conti con il budget e per evitare la bancarotta ho dovuto tagliare i fondi all’educazione, ma così facendo i miei sims sono scesi per le strade a protestare, gettando la città nel caos più totale”).
Il gemello diverso di SimCity è Le Città Invisibili di Italo Calvino (1972). Se il non-gioco di Wright è la narrazione di una simulazione, il non-romanzo di Calvino è la simulazione di una narrazione. Le due opere infatti sono accomunate da elementi chiave: ludus e digit. Ludus, perché Le Città Invisibili formano una scacchiera ideale di 64 caselle (55 città, incasellate nel piano individuato dai due assi della divisione in capitoli – nove, aperti e chiusi dalla cornice – e della suddivisione in categorie tematiche – undici, da “Le città e la memoria” a “Le città nascoste” – e nove dialoghi tra Marco Polo e Kublai Khan), ma anche per via dello stratagemma usato da Marco Polo per riferire i suoi viaggi a Gengis Khan, che è in qualche modo l'archetipo del gioco degli scacchi: tutt’altro che esperto della lingua del Khan, Marco Polo colloca gli oggetti raccolti da distanti contrade sulle mattonelle bianche e nere del pavimento in maiolica, con un ordine preciso; muovendoli via via con mosse astute inizia un muto resoconto delle sue peripezie, impegnando il Khan (e il lettore) in un'ardua decodificazione dei segni. Digit nel senso di cifra – la struttura profonda delle due opere è fatta di numeri e stringhe alfanumeriche – il linguaggio del numero e quello della macchina, rivestito di tracce ed immagini. Infine, le città virtuali sono, per definizione, invisibili nel senso che la loro visibilità non supera gli angusti confini dello schermo.