Citto Maselli è l’allegro e disperato autore italiano di un cinema che non c’è. È un carovaniere avventuroso che si spinge nei canyon del non detto e del non visto, non perché vada lontano, ma perché il suo esotico è dentro le case, le vite, i legami, le solitudini, le festose speranze e il precipitare brutale di qualunque percorso nelle nostre vite quotidiane. Col suo testardo rifiuto di invecchiare (tutto interiore, tutto di testa, ma che finisce per riflettersi non solo nel suo immaginare, ma anche in come noi lo vediamo in quel suo continuo andare) Citto Maselli riesce a vedere, riesce a filmare ciò che noi non vediamo, per esempio l’incrocio dei sentimenti con la politica.
Il punto in cui la più intima e la più privata delle storie si impiglia nella rete dei grandi eventi pubblici, il momento che trasforma in militanza o partecipazione o accettazione o consapevolezza un sentire (d’amore, di odio, di attesa, di rabbia, di disperazione, di routine, di festa) che – diresti – non ha niente a che fare con gli altri, non ha niente a che fare con il mondo. Invece c’è sempre il mondo, tutto presente, nelle messe in scena spesso intellettuali, spesso eleganti, spesso di sentimento apparentemente privato, di Citto Maselli.
È come se nella scena “borghese” e qualche volta “proletaria” – ma sempre storia di alcuni – del suo cinema fossero presenti l’Africa con la sua fame, l’America Latina con le sue sanguinose lotte contraddittorie, le ferite aperte delle guerre del mondo, gli Usa in cerca di un senso perduto del che fare e del dove andare, del che cosa essere.
Ecco, un cinema in apparenza da camera, in apparenza elegante e mite, a volte persino mondano, a volte duro e aspro, si svolge di fronte a una platea immensa, la Storia, ai nostri giorni, da cui l’autore non vuole, non sa separarsi. È ciò che fa diventare ogni volta un film di Citto Maselli – magari girato con due soldi – un grande spettacolo.
Furio Colombo